Altri titoli: Deep Red, Deep Red Hatchet Murders, Dripping Deep Red, The Hatchet Murders, The Sabre Tooth Tiger
Regia Dario Argento
Soggetto Dario Argento, Bernardino Zapponi
Sceneggiatura Dario Argento, Bernardino Zapponi
Fotografia Luigi Kuveiller
Operatore Ubaldo Terzano
Musica originale Giorgio Gaslini, Goblin (Claudio Simonetti, Walter Martino, Fabio Pignatelli)
Suono Nick Alexander
Montaggio Franco Fraticelli
Effetti speciali Carlo Rambaldi, Germano Natali
Scenografia Giuseppe Bassan
Arredamento Armando Mannino
Costumi Elena Mannini
Trucco Giuliano Laurenti, Giovanni Morosi
Aiuto regia Stefano Rolla
Interpreti David Hemmings (Marc Daly), Daria Nicolodi (Gianna Brezzi), Gabriele Lavia (Carlo), Clara Calamai (madre di Carlo), Eros Pagni (commissario Calcabrini), Glauco Mauri (professor Giordani), Macha Méril (Helga Ullman), Giuliana Calandra (Amanda Righetti), Nicoletta Elmi (Olga), Piero Mazzinghi (Bardi), Aldo Bonamano (padre di Carlo), Liana Del Balzo (Elvira), Vittorio Fanfoni (poliziotto), Dante Fioretti (fotografo della polizia), Geraldine Hooper (Massimo Ricci), Mario Scaccia
Produttore esecutivo stripslashes(Claudio Argento)
Produzione Claudio e Salvatore Argento per la S.E.D.A. Spettacoli e Rizzoli Film
Distribuzione Cineriz
Note Nulla Osta n. 66.157 del 6.3.1975.
Titolo di lavorazione: La tigre dai denti a sciabola.
Girato in Cinemascope, Eastmancolor.
Sarto: Angelo Viglino; parrucchiera: Rita Palombo; organizzatore generale: Angelo Jacono; direttore di produzione: Carlo Cucci; segretario di produzione: Casare Jacolucci; segretaria di produzione: Vivalda Vigorelli; amministratore: Carlo Du Bois; vietato ai minori di 14 anni.
Il film è stato girato a Torino e nei teatri di posa Incir De Paolis di Roma.
Sinossi
Il pianista Marc Daly è testimone del terribile omicidio di una medium. Insieme alla giornalista Gianna Brezzi decide di indagare per scoprire l’identità del colpevole, che sembra braccarlo da vicino. A una a una le persone che sarebbero in grado di fornire qualche preziosa informazione vengono uccise. Marc, tuttavia, scopre che la verità si nasconde in una villa, ora disabitata, dove anni prima è avvenuto un cruento omicidio. Recatosi sul posto, Marc rischia di essere ucciso e viene salvato da Gianna, con cui è nata nel frattempo una relazione. Insieme i due arrivano a scoprire la terribile verità.
Dichiarazioni
«Mi venne l’idea di una sensitiva che, in mezzo a tanta gente, sente un pensiero malvagio. Profondo rosso nasce da questa piccola idea, che ho portato avanti per un sacco di tempo. Cominciai a discuterne con Bernardino Zapponi, che avevo conosciuto nel periodo in cui lavorava per Fellini. […] Mi piaceva il suo gusto per l’esoterismo, per Edgar Allan Poe, per i fantasmi, la sua cultura e i suoi pensieri. Cominciammo a parlare di questa mia idea, e nacque il soggetto. Lui scrisse un trattamento che non corrispondeva al film che io volevo. […] Volevo che questo film fosse un po’ diverso, pieno di allucinazioni, di irrazionalità. […] L’ho scritto molto rapidamente, tutto di getto, per due settimane consecutive. […] Provavo il piacere di raccontare con dei tempi lunghi. Il film dura 2 re e 5 minuti, è il più lungo che ho fatto. È il racconto di una persona sola che cerca di capire il segreto di questa casa. Incalzato dalla musica, anche lo spettatore incomincia il suo viaggio interiore. Lui non parla mai, osserva, cerca di comprendere: sentivo che dovevo raccontarla così» (D. Argento, in G. Carluccio, G. Manzoli, R. Menarini, a cura, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino, 2003).
«Ero giovanissimo, un bambino. Venni a Torino con mio padre, che doveva andarci per lavoro. Arrivammo di sera, pioveva, e subito la trovai una città bellissima. Aveva appena piovuto, le strade riflettevano la luce di questi lampioni, queste luci gialle... le strade luccicavano. Mi piaceva molto, aveva un’aria malinconica e nello stesso tempo inquietante. Non pensavo che avrei mai fatto il regista, ma ero sicuro che Torino sarebbe stata una città ideale per girarci dei film; anche se non conta la città in se stessa per rendere più o meno pauroso il film, perché dipende da come la si inquadra, da come la si illumina. Ho poi utilizzato diversi scenari italiani per i miei film, anche se spesso non li ho specificati. A Torino ho girato Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio e soprattutto Profondo rosso. La villa si trova sulle colline della città, un edificio bellissimo, uno degli esempi più belli dell’art déco. L’ho scoperta per caso mentre giravo in auto in cerca di posti interessanti dove girare il film. La villa era in realtà un collegio femminile diretto dalle monache, e siccome ne avevamo bisogno per un mese – fra preparazione e riprese – offrimmo alle occupanti una bella vacanza estiva a Rimini, dove si divertirono tantissimo. Con noi restò una monaca-guardiano che sorvegliò le riprese con austerità. In piazza C.L.N. invece girai la scena in cui Lavia e Hemmings assistono all’omicidio della sensitiva, lì feci costruire appositamente un bar che si ispira al celebre quadro di Edgar Hopper, Night Hawks, un’opera che mi piaceva molto» (D. Argento, Prefazione a AA. VV., Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
«Posso raccontare un aneddoto circa la scena della mia morte in quel film. La prima parte, in cui vengo agganciato dal camion per poi essere trascinato sulla strada e sbattuto contro il marciapiede, venne realizzata senza particolari problemi: avevo un rinforzo d'acciaio che mi proteggeva la schiena e il marciapiede era chiaramente di gomma. Quando però Dario mi chiese di posare la testa sull'asfalto in attesa che la macchina frenasse a pochi centimetri da me rifiutai seccamente: la macchina poteva avere un difetto ai freni, il conducente poteva sbagliare le misure o impazzire all'istante... Sono incidenti che non accadono ma che possono accadere! Dopo lunghe discussioni con Dario gli suggerii di girare la scena esattamente al contrario, controllando ovviamente di persona che la retromarcia del veicolo fosse innestata. Ritengo che così l'effetto sia più riuscito in quanto cominciammo la ripresa con la testa appoggiata per davvero alla mia testa. L'unico difetto di moviola, percepibile se si osserva con molta attenzione la sequenza, sono le gocce di sangue e le lacrime che, anziché scendere, salgono sulla mia fronte...» (G. Lavia, “La Stampa - TorinoSette”, 25.9.2007).
«Nel 1975 Dario Argento mi scelse per un ruolo molto difficile in Profondo rosso. Dovevo mimetizzarmi in modo tale da non fare mai prevedere l’esito della vicenda e allora mi restavano poche alternative a disposizione. Dopo Profondo rosso ho avuto ben tre proposte per interpretare ruoli da assassina. Ho rifiutato, evidentemente, non voglio proprio chiudere la mia carriera con questa specializzazione…» (C. Calamai, in F. Borghini, Prato al cinema, Edizioni del Palazzo, Prato, 1988).
Considerato da molti il capolavoro di Dario Argento, Profondo rosso rappresenta per certi versi una summa ideale dei diversi modelli narrativi e drammaturgici di quello che in Italia è definito il “giallo” (a partire dal colore delle copertine della notissima serie edita da Mondadori). Ci sono l’enigma intorno all’identità dell’assassino (il classico whodunit caro alla scuola inglese), l’indagine che mira alla sua scoperta condotta da un detective improvvisato (l’uomo comune del cinema di Hitchcock), il protagonista e i suoi alleati che rischiano la vita (come accadeva ai Marlowe e agli Spade di Chandler e Hammett), i momenti di pausa e allentamento della tensione, costruiti su effetti comici o da commedia sentimentale (come nella serie di L’uomo ombra con William Powell e Myrna Loy), le sequenze di suspense costruite a effetto e giocate sulla paura per inchiodare lo spettatore alla poltrona (alla maniera di Psycho).
Quello che rende Profondo rosso un film fondamentale è però la cifra peculiare di Argento regista, capace di riplasmare i modi del thriller con elementi propri dell’horror e del Grand Guignol, alla luce di una originale sensibilità in cui riescono a convivere l’adesione a un cinema dichiaratamente di genere e un’ansia di sperimentazione, i richiami a certe caratteristiche della breve stagione dell’horror italiano anni Sessanta e dei suoi maestri Riccardo Freda e Mario Bava (da subito riconosciuti e stimati in Francia e negli Stati Uniti) e un’attitudine registica non dissimile da Sergio Leone, con cui Argento lavora per la sceneggiatura di C’era una volta il West.
Rispetto alle regie precedenti, Argento mette ulteriormente a fuoco la sua cifra registica, utilizzando l’intreccio come materiale di partenza per costruire intorno agli omicidi sequenze drammatiche e spettacolari che manifestano una grande padronanza del mezzo audiovisivo – attraverso un intreccio di suoni e immagini in cui dominano il montaggio sincopato, i prolungati, sinuosi e rapidi movimenti di macchina, i dettagli iperrealisti che rendono astratti gli oggetti visti troppo da vicino, le insistite angolazioni dal basso, la musica ipnotica o i rumori e i sussurri evidenziati – e che finiscono per diventare momenti di puro cinema.
La visionarietà che caratterizza l’opera di Dario Argento è risultato del lavoro compiuto sugli spazi, sulle immagini, sui suoni. Si veda ad esempio la sequenza in cui Mark muove nei locali di villa Scott: grazie alla musica dei Goblin e al «trattamento visionario di una già visionaria architettura come quella di Fenoglio» (G. Carluccio, in G. Carluccio, G. Manzoli, R. Menarini, a cura, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino, 2003), prende corpo una creazione audiovisiva il cui valore e significato esulano dall’intreccio narrativo.
L’aggressione che Profondo rosso stabilisce nei confronti dello spettatore, oltretutto, non è solo costruita attraverso un attento gioco di regia e messa in scena, ma anche tramite la violenza delle situazioni, in un gusto per la rappresentazione di corpi trafitti, violati, zampillanti sangue che anticipa le tendenze splatter del cinema internazionale degli anni successivi. In questo senso anche i momenti che si configurano come irrazionali e improbabili (come l’apparizione del pupazzo meccanico poco prima dell’omicidio del professor Giordani), rientrano in un progetto cinematografico che alla logicità e alla verosimiglianza privilegia la capacità di creare un universo onirico inquientante, che prelude all’approdo nel fantastico puro dei film successivi.
Secondo Alberto Moravia, in Profondo rosso viene esplicitato il nucleo dela poetica del regista, grazie alla consapevolezza che egli stesso ha acquisito, una «consapevolezza di specie piuttosto tecnica che artistica, del sentimento che Argento sa di avere in proprio. E qual è questo sentimento? Probabilmente, quello della paura, così quella che si prova come quella che si fa provare, nella sua accezione più infantile e più corrente: paura del buio, degli ambienti disabitati delle facce laide o deformi, dei panni strani o lugubri, delle armi da taglio, e così via» (A. Moravia, “L’Espresso”, n. 13, 1975).
Una delle caratteristiche del cinema di Argento è il manifestare, all’interno dei modi di un cinema dichiaratamente di genere, una forte tensione verso la cultura e le arti ad ampio raggio. Questo è rilevabile non tanto nella collaborazione con Bernardino Zapponi, sceneggiatore abituale di Federico Fellini, o nei sottili rimandi cinefili (come la presenza di David Hemmings ossessionato da un particolare confuso nella memoria, che sembra quasi una colta parodia di Blow-up di Antonioni, o la presenza di Clara Calamai, che ritorna nel teatro dove si era fatta ammirare giovane e bellissima ai tempi di Addio, giovinezza!), quanto nel lavoro sulle musiche (affidate allo stimato compositore jazz Giorgio Gaslini e ai Goblin, un gruppo di giovanissimi musicisti rock con una formazione classica) e nella scelta ed elaborazione degli spazi ubani.
L’”ossessione architettonica” di Argento mescola alle strade ed ai palazzi torinesi suggestivi riferimenti pittorici. Troviamo quindi, reinventati in modo visionario, l’art déco della villa maledetta (la palazzina Scott, progettata nel 1902 da Pietro Fenoglio), il liberty delle case del quartiere Cit Turin e della galleria Umberto, il barocco storico del teatro Carignano, le atmosfere alla De Chirico di piazza C.L.N., dove Argento fa costruire un piano bar chiaramente ispirato a Nighthawks, un celebre quadro di Edward Hopper. D’alto canto nessuno di questi luoghi viene riportato con spirito documentario, ma è reinventato in modo visionario, in modo tale da «vedere e far vedere di più di quello che la realtà oggettiva sembra offrire alla percezione. È un modo di approfondire, intensificare la percezione, prolungarla, allucinarla, per sentire di più, per far sentire di più. […] L’immagine della solitudine urbana che il quadro di Hopper e l’effetto tableau-vivant della messa in scena del locale (con comparse immobili o addirittura manichini) inseriscono nello sfondo della piazza attraversata da Mark (come dall’assassino), è dolorosa e angosciante, persino assurda, come la solitudine storica delle sculture neoclassiche nell’architettura razionalista e metafisica del luogo, guardata da angolazioni dall’alto e a distanza, insieme a un’umanità alla deriva» (G. Carluccio, Op. cit.).
Scheda a cura di Franco Prono
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