Regia Vittorio Cottafavi
Soggetto dal racconto omonimo di Cesare Pavese
Sceneggiatura Dardano Sacchetti, Elisa Briganti, Vittorio Cottafavi
Fotografia Tonino Nardi
Musica originale Guido e Maurizio De Angelis
Suono Gaetano Carito, Tullio Petricca
Montaggio Vittorio Cottafavi
Scenografia Elio Micheli
Costumi Elio Micheli
Trucco Cesare Paciotti
Aiuto regia Walter Italici
Interpreti Daniela Silverio (Gabriella), Matteo Corvino (Oreste), Urbano Barberini (Poli), Roberto Accornero (Pieretto), Alessandro Fontana (Rino), Kristina Van Eyck (Rosalba), Rita Rondinella (cantante), Beatrice Palme (Resina), Maria Rosa Fassi (Pinotta)
Ispettore di produzione Massimo Ferrero
Produzione L.P. Film per Rai Radiotelevisione Italiana
Note Collaborazione alla sceneggiatura: Manuela Cottafavi; assistente operatore: Nando Campiotti; effetti sonori: Sotir Gjika, Roberto Sterbini; assistente al montaggio: Nadia Boggian; parrucchiera: Luciana Costanzi; assistente al doppiaggio: Misa Gabrini; organizzazione generale: Sergio Giussani; delegato Rai alla produzione: Gabriella Lazzoni; segretaria di produzione: Tiziana Pellerano; segretaria di edizione: Giuliana Del Punta; amministratore: Giorgio Angelini.
Locations: Torino, Agliano (AT).
Il film si apre con la dedica: “Ricordando Paolo di Valmarana”.
Sinossi
“Educazione sentimentale” nell’estate del 1937 sulle colline del Monferrato di un gruppo di tre giovani universitari (Pieretto, Oreste e Rino) più un quarto amico ricco (Poli), la moglie di lui e lo strano gioco che s'instaura tra loro, tra gite in collina, feste, notti bianche, riflessioni morali, tensioni filosofiche, delusioni amorose e amarezze esistenziali.
Dichiarazioni
«Due parole sul film? È un omaggio a Cesare Pavese. Uno scrittore estremamente moderno che ha usato l'introspezione psicologica per comunicare le proprie emozioni. Vedrete un film dove ogni cosa è suggerita, non detta compiutamente, perché a Pavese non interessano tanto gli avvenimenti quanto i sentimenti che essi sviluppano nei suoi personaggi, li maturano, li modificano. È la storia di cinque giovani alle prese con una “educazione sentimentale” che influirà probabilmente su tutta la loro vita. Ho cercato di girare questo racconto, che si svolge negli anni trenta, con i movimenti, le pause dei dialoghi, il pudore con il quale a quei tempi si scoprivano i sentimenti. I giovani allora parlavano di più, cercavano di comunicare attraverso la parola, l'intelligenza. Quello che mi ha sempre turbato nei film che narrano di un'altra epoca è l'incongruenza tra l'ambiente rigorosamente aderente ad essa, ed il ritmo, i movimenti, il modo di esprimersi inequivocabilmente di oggi. Sono convinto che sia il momento di rievocare il mondo di questo straordinario scrittore. Esistono misteriose affinità con quello di oggi. Le atmosfere inquietanti riescono tutt'ora a suscitare in noi il dubbio che le cose più segretamente tenute nel nostro animo siano la vera condizione dell'esistenza» (V. Cottafavi, “Filmcritica” n. 356, giugno-luglio 1985).
«Poi sono tornato in Piemonte nel 1983 per girare Il diavolo sulle colline, da Cesare Pavese. M’incuriosiva l’idea di girare Pavese nei luoghi dove lui aveva vissuto e dove aveva ambientato le sue storie. Dal primo sopralluogo compresi che si poteva fare, con pochissimi accorgimenti. Era per me un motivo sufficiente per girare il film e, tanto per cambiare, piacque in Francia ma non in Italia»
(V. Cottafavi, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
Il diavolo sulle colline è il secondo dei tre racconti di Cesare Pavese che compongono La bella estate (il terzo è Tra donne sole, da cui Antonioni trasse il soggetto del film Le amiche), libro che vinse il prestigioso premio Strega nel 1950, pochi mesi prima del suicidio dello scrittore piemontese.. I vagabondaggi che, nell’estate del 1937, i giovani protagonisti compiono per le strade di Torino e delle colline, le veglie nella campagna astigiana, le loro lunghe chiacchierate d’argomento etico e filosofico servono a rappresentare il clima morale e sentimentale di una generazione che per la prima volta scopre la propria realtà sociale ed esistenziale tra emozioni, entusiasmi, trasgressioni, tentazioni e sconfitte. Ormai al termine di una lunga carriera, Vittorio Cottafavi – regista che ha dimostrato in quarant’anni di attività la propria competenza e originalità stilistica nei generi cinematografici più diversi – ha messo in scena questo racconto di Pavese per la Rai, cercando di rinnovare le vecchie e logore formule dello sceneggiato televisivo italiano. Secondo lui, chi realizza un film Tv deve tenere conto soprattutto del pubblico a cui si rivolge e del tipo di fruizione consentita dal mezzo. «Si tratta, per Cottafavi, di utilizzare il linguaggio televisivo per svelare l’interiorità dell’uomo, per mettere lo spettatore in condizione di giudicare, di prendere posizione nei confronti di situazioni drammatiche o narrative che si presentano sempre come situazioni esistenziali. Di qui la “moralità”, il risvolto “filosofico” che sottende fatti personaggi, pur ricondotti, spettacolarmente, alla dimensione storica e culturale che il testo […] letterario prevede. Di qui infine il bisogno di usare la televisione come strumento di indagine comportamentistica» (G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980). Secondo questi principi drammaturgici, il regista cerca di giungere al cuore dei temi che vuole portare sul teleschermo, creando immagini sobrie, prive di elementi non essenziali, inventando forme di messa in scena che guardano al teatro da camera e a Brecht. Così l’ascendente letterario della vicenda non viene nascosto, ma anzi esaltato da una scrittura audiovisiva che trova un buon equilibrio stilistico tra istanze narrative, divulgative ed espressive. Cottafavi si concentra sui personaggi e sui loro rapporti interpersonali, ponendoli nella cornice di una città e di una campagna osservate con viva partecipazione sentimentale ma anche con distacco critico. Il suo è pertanto un lavoro «di continua ricerca contenutistica e formale in direzione di quella attualizzazione della Storia e di quella compartecipazione dello spettatore […]. C’è il presente e il passato, la memoria e l’attualità, la Storia e la cronaca, in un contesto spettacolare che recupera il neorealismo, ma lo carica di significati esistenziali più ampi» (R. Rondolino, Op.cit.). La recitazione fredda, fortemente straniata degli attori, pare adeguata a rappresentare una generazione che prende coscienza della fine di ogni falsa innocenza e inizia a individuare i valori etici che serviranno per affrontare gli eventi storici che ed esistenziali che sono alle porte. Da conversazioni, litigi, feste, delusioni, amarezze, nascono nuove esperienze preziose. Ogni aspetto della rappresentazione è in accordo con la scelta drammaturgica di tipo “brechtiano”: i gesti dei personaggi lenti e misurati, i dialoghi densi di pause e di esitazioni, l’esatta scansione delle sequenze, il ritmo lento del montaggio, il rigore geometrico delle angolazioni di ripresa e dei raccordi. Forti contrasti di luce mettono in risalto volti e figure su sfondi immobili e misteriosi che appartengono a un ambiente urbano e rurale affascinante e ambiguo.
«Corre per tutto il film una luminosità particolare, che ritaglia le figure su sfondi che sembrano immobili, declinando verso un rigore geometrico che raffredda il lato della nostalgia. Cottafavi recupera il tempo e lo spazio in una estraneazione che scompone questa storia adolescente o come lui stesso dice questa “educazione sentimentale” di tre amici, in una serie di segmenti che isolano il silenzio delle strade di una città còlta nel suo fascino aristocratico, dal rumore delle giornate trascorse nella villa di Poli in collina. Le parole dei discorsi impossibili, le ore trascorse nelle notti quando è più piacevole scoprire la città, in vagabondaggi esaltanti, nascondono e allo stesso tempo esibiscono il gusto letterario, girano attorno alle parole scritte e riscoprono nei gesti, nelle grida improvvise, immagini chiare di un discorso che è tutto filmico, attento a non offendere l'essenzialità di Pavese, e a non rinunciare ad essere originali. Cottafavi infatti ha sempre perseguito questa rappresentazione “essenziale” questo alternare parole a silenzio, proprio per meglio creare una distanza poetica, per sottolineare un carattere di condensazione stilistica. Il diavolo sulle colline in questo si riallaccia a Traviata 53, a Il taglio del bosco, a Maria Zef (per non ricordare che alcuni punti del tragitto di Cottafavi) a questo suo cinema denso di immagini, costruito con un linguaggio che concentra l'attenzione sul particolare, con una predilezione alle sequenze “mute”, agli sguardi, alla gestica, ai primi piani, alle pause e ai silenzi. L'incontro con Poli visto come un'apparizione nella notte estiva rappresenta per i tre amici un punto di rottura; porta con il suo fascino un'aura di avventura, li coinvolge nei suoi torbidi affanni, in una oscillazione continua di arroganza e di malinconia, di sicurezza e mistero. In collina, nella gran villa, tra conversazioni, feste, delusioni e amarezze si dissolve il mistero, l'estate delle loro vacanze finisce e con l'estate finisce anche questa breve ma intensa. educazione sentimentale: Poli e le sue sfrenatezze che lo distruggono e loro, i ragazzi, che ne escono arricchiti di nuove esperienze. Cottafavi ha come fermato il suo apologo in una ricostruzione del tempo che sembra immobile, ha dato spessore alle situazioni, tenendo i dialoghi in una posizione frenata che accentua lo straniamento in una recitazione fredda e assente» (E. Bruno, “Filmcritica” n. 356, giugno-luglio 1985).
«Realizzata in economia, pudicamente sottolineata dalla voce fuori campo, quest'opera dall'evidente destinazione televisiva riesce a restituire fedelmente le atmosfere e i succhi più intensi del libro (il “paese straniero” dell'adolescenza, con il suo corredo di fascinazioni ambigue e lancinanti lacerazioni, lo splendore nevrotico delle notti d'estate passate a discutere di tutto e di niente, le sigarette che palpitano nel buio, la “magnifica avventura” che termina bruscamente quando tornano a scattare i meccanismi di classe che una sorta di consuetudine feudale aveva provvisoriamente allentato). L'ambientazione nella Langa, nonostante Cottafavi sia emiliano, è inoltre accurata e pertinente, e fotografia, scene, costumi e colonna sonora ricreano con discrezione un'intrigante atmosfera tardi anni '30. Il vero disastro di Il diavolo sulle colline, la sua palla al piede, sono costituiti dalla recitazione di un gruppo di “attori” giovani, evidentemente appena usciti dall'Accademia e diligentemente protesi a trasferire sul set i loro saggi di diploma (il nostro direttore, che ci sedeva a fianco durante la proiezione, si domandava esterrefatto se non si trattasse di una interpretazione volutamente “estraniata”, da semplice lettura scolastica del testo pavesiano), tra i quali spicca la recidiva Daniela Silverio, che già ci aveva deliziato in Identificazione di una donna» (p. v., “Cineforum” nn. 6/7, giugno-luglio 1985).
«Malgré des moyens réduits, une photographie mal gonflée du 16 mm au 35 mm, cette ceuvre de Cottafavi pour la télévision dégage une atmosphère troublante. C'est le milieu des jeunes intellectuels turinois des années trente, que le réalisateur avait connu personnellement, qui revit dans les nuits blanches et les dialogues philosohiques d'un groupe d'amis. A travers ses jeunes acteurs inconnus (sauf I'antonionienne Daniela Silverio, toujours séduisante), Cottafavi construit un portrait d'époque honnéte et littéraire en même temps. Le conte de Cesare Pavese dont il s'inspire était (comme presque tout son ceuvre) autobiographique et très critique envers ce milieu bourgeois oisif. II en souligne plutôt le côté élégiaque, donnant au récit une espèce de fixité sournoise. Si Antonioni dans Femmes entre elles avait rendu plus existentiel I'univers de Pavese, Cottafavi s'identifie avec le narrateur-moraliste et ne trahit pas son esprit de révolte apaisée. Rarement le cinéma italien a réfléchi si bien sur cette jeune génération destinée à survivre à I'écroulement du fascisme en sauvant les valeurs éthiques qu'elle pouvait encore conserver. Le “diable” du film, c'est sans doute ce sentiment d'avoir doublé le cap d'une fausse innocence, un enfer des privilégiés au-delà duquel se trouve une société “autre” et à créer. Trop de dialogues? oui, mais tellement métaphoriques, et pas du tout “extraits” simplement du récit pavésien» (L. Codelli, “Positif” nn. 293/4, juillet-aôut 1985).
«Cruelle déception, pour les pavésiens, que cette adaptation par Vittorio Cottafavi du Diable sur les collines. Il aurait pourtant pu se passer quelque chose d'intéressant entre le cinéaste des séries B populaires et la littérature “mineure” du roman de Cesare Pavese. Mais on n'a eu droit, hélas, qu'à une adaptation clean, très embourgeoisée et superficielle. Le seul mérite de ce film est de nous rappeler, par défaut, que le scénario des récits de Pavese n'est souvent pas très loin, sans l'écriture qui change tout, de la sous-littérature de gare, ce qu'Antonioni avait admirablement compris à l'époque de Femmes entre elles. A vouloir donner à ce scénario une dignité un peu compassée, aux antipodes de l'écriture de Pavese, et faute d'avoir imprimé un vrai style à son film, Vittorio Cottafavi ne réussit à nous donner qu'un télé-film soigné mais ennuyeux et non habité, qui est à Pavese ce que le Canada Dry est au vin des langhe. Dommage pour Pavese et pour Cottafavi» (A. Bergala, “Cahiers du Cinéma” n. 374, juillet-aôut 1985).
Scheda a cura di Matteo Pollone
|