Altri titoli: Pigeon Shoot
Regia Giuliano Montaldo
Soggetto dal romanzo omonimo di Giose Rimanelli
Sceneggiatura Ennio De Concini, Fabrizio Onofri, Luciano Martino, Giuliano Montaldo
Fotografia Carlo Di Palma
Musica originale Carlo Rustichelli
Montaggio Nino Baragli
Scenografia Carlo Egidi
Arredamento Nedo Azzini
Costumi Pier Luigi Pizzi
Aiuto regia Franco Giraldi
Interpreti Jacques Charrier (Marco Laudato), Sergio Fantoni (Nardi), Eleonora Rossi Drago (Anna), Gastone Moschin (Pasquini), Francisco Rabal (Elia), Franco Balducci (Garrani), Silla Bettini (Gioioso), Maria Grazia Francia (Ida), Carlo D’Angelo (Mattei), Loris Bazzocchi (Giuliani), Enzo Cerusico (pastorello ucciso), Franco Lantieri (un Repubblichino), Marco Mariani (medico), Edgardo Siroli (un Repubblichino), Franca Nuti (donna col marito al fronte)
Direttore di produzione Gino Millozza
Produttore esecutivo Alessandro Jacovoni, Tonino Cervi
Produzione Ajace Cinematografica, Euro International Film
Distribuzione Euro International Film
Note Direttore d’orchestra: Pier Luigi Urbini; altri interpreti: Enrico Glori (oratore fascista), Franco Perucci; voce narrante: Mario Colli.
Locations: località presso Stresa (VB), Roma (Studi Inter studio)
Sinossi
Settembre 1943. Il giovane Marco Laudato si arruola nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana. Insieme ai commilitoni partecipa ad un’operazione bellica nel corso della quale rimane ferito. Trattato come un eroe, trascorre un periodo di convalescenza in ospedale dove conosce Anna, una signora della quale s’innamora. La parentesi sentimentale è, però, breve, perché Marco torna al suo reparto. Per la Repubblica di Salò la situazione è diventata ormai insostenibile e il crollo del fascismo e del suo alleato nazista è prossimo. Dopo aver visto i suoi commilitoni morire uno dopo l’altro oppure disertare ignominiosamente, Marco perde ogni speranza e il desiderio di combattere.
Dichiarazioni
«Tiro al piccione fu girato tra Vercelli, Varallo Sesia e l’alta Val Sesia. Mi ricordo la bellezza dei luoghi visitati per i sopralluoghi con Carlo Di Palma. Gli anni Sessanta non erano lontani dal periodo del film e quindi le location non risultano ancora troppo “datate”. Fu determinante la collaborazione tra me e Moscatelli, il comandante partigiano piemontese che mi aiutò nel lavoro di documentazione. Il film creò delle forti polemiche: era basato sui condizionamenti che la società fascista imponeva ai giovani dell’epoca, sul trauma dei giovani che si accorgevano che i loro sogni di conquista sfumavano e che la Repubblica Sociale era contraria a una vera democrazia. Avevo letto il romanzo di Giose Romanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista “dall’altra parte”, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. Io avevo tanto investigato, avendo già fatto film sulla Resistenza, e avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche “le altre parti” della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che brucia ancora è questa, perché non era vero, e più tardi tanti me lo hanno confermato. Mi ricordo che il film fu invece una sorta di atto liberatorio per tutti i giovani che, come il protagonista, erano rimasti invischiati nel regime fascista. Solo oggi Tiro al piccione torna a essere mostrato nelle scuole e può dare il via a dibattiti costruttivi sulla demagogia usata in certe ideologie» (G. Montaldo, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
«In Tiro al piccione, opera prima di Giuliano Montaldo, il “revisionismo” di certe correnti del cinema italiano giovane e impegnato tocca una delle sue punte più acutamente stimolanti e significative, ma solo sul piano delle intenzioni e con una grave incoerenza di sviluppi e di acquisizioni rispetto alle premesse. Montaldo infatti si era proposto di seguire l'itinerario morale, la crisi progressiva di un eroe alla rovescia, di un “repubblichino”, sullo sfondo della dissoluzione violenta del fascismo. Il regista, formatosi a stretto contatto del primo Lizzani, di cui si avverte l'eco in talune nervature democratiche del racconto e in certe aperture figurative, oggi partecipe degli interessi e delle aspirazioni di taluni giovani registi del “nuovo corso”, non rifiuta neppure l'interessante mediazione del film di montaggio che gli serve però come riferimento dialettico e contrappunto drammatico, riproposto parallelamente alla “formazione” di Marco Laudato nelle caserme repubblichine risuonanti di volgarità becera e sinistra. Il procedimento consente a Montaldo di conseguire, nella prima parte soprattutto, risultati di notevole efficacia e di vigorosa drammaticità. Ma dove il regista fallisce, e senza vie d'uscita, é proprio nella raffigurazione del ”destino” di Marco, del suo farsi uomo in tempi così duri, tesi fra scelte irriducibili. Marco infatti non è solo l'aborto di un personaggio, una figura artisticamente inconsistente, ma è anche, in certo cinema italiano d'oggi, una presenza di una sconcertante ambiguità di significati. Il regista poteva anche tralasciare completamente il tentativo di un altro tipo di personaggio, dialettico a quello di Marco, ma a patto di “comprendere” criticamente le ragioni del suo personaggio, di prospettarne il donde e il dove, di chiarire perché la sua scelta fu quella e non altra. D'altro canto questa ambiguità ritorna nel finale, dove il regista non è riuscito a trovare l'intensità necessaria per prospettare la stanchezza e il disfacimento di Marco e dei suoi compagni e, accorgendosi della pericolosità di quello scioglimento, è stato costretto a didascalizzare estrinsecamente la sua angolazione “politica” della storia» (A. Ferrero, “Cinema Nuovo” n. 155, 1962).
«Dal 1960 sullo schermo tornano a crepitare i mitragliatori tedeschi, ma si punta anche l’attenzione sul ruolo attivo dei fascisti al loro fianco. Tornano a riaprirsi ferite mai rimarginate e pagine dolorose della storia sono rilette con intenti più riflessivi, problematici e articolati. […] In pratica fascismo e antifascismo non vengono più interpretati secondo un ottica ideologica, ma, al massimo, da un punto di vista morale. L’antifascismo appare come un presupposto comune, ma anche come il dato meno importante del film, che pone in primo piano l’intreccio e subordina l’evento storico a funzioni emotive. L’effetto positivo è quello di una ripresa di circolazione e di contatto tra il pubblico e la storia recente, sia pure attraverso vari tipi di mediazioni e filtri. Così, per uno strano fenomeno di avvicinamento e distanziamento, questi film riescono ancora a produrre – grazie ai meccanismi spettacolari – fenomeni di identificazione emotiva, risate liberatorie, mentre dal punto di vista storico fanno ormai sentire la distanza e l’irripetibilità del fenomeno. La monumentalizzazione della Resistenza e dello spirito antifascista consiste proprio nella adozione comune dei meccanismi narrativi, di topoi che rimbalzano da un film all’altro, permettendo di raggiungere un pubblico di massa. Così – pur unificabili tutti – sotto il comun denominatore di tentativi di ricostruzione di nuclei fattuali molto precisi (l’8 settembre, il 25 luglio, la marcia su Roma, le quattro giornate di Napoli, il processo di Verona) questi film, presi nel loro insieme, introducono nuovi termini di discorso, differenti punti di vista e soggetti dell’azione, sostituiscono alla certezza le situazioni di dubbio, alla nettezza del messaggio antifascista la rappresentazione di posizioni intermedie, ambigue. Nonostante la mediocrità stilistica e ideologica molte opere sono assai rappresentative di un mutamento dell’ottica generale. Compaiono più fascisti in camicia nera nel cinema dei primi anni Sessanta che in tutto il cinema del ventennio e lo sguardo si spinge oltre i riti e i miti di facile ridicolizzazione, fino al tentativo di ricomporre una fenomenologia di comportamenti comuni e quotidiani. La borghesia italiana può finalmente rivedersi in vesti fasciste e ridere di essa, ritenendosi completamente assolta delle colpe passate. Si cominciano a osservare e a raccontare storie di aderenti alla repubblica di Salò (Tiro al piccione di Giuliano Montaldo) e a mostrare quelle responsabilità dirette dei fascisti (La lunga notte del ’43 di Vancini) nelle rappresaglie e nella lotta antifascista che finora erano attribuite solo ai nazisti. Le maschere dell’italiano si moltiplicano: si cominciano a disporre le ragioni dei vinti accanto a quelle dei vincitori. Il dopoguerra è osservato in prospettiva: viene raccontata da più registi la caduta delle speranze e del sogno collettivo che la lotta di liberazione aveva alimentato, ma si comincia anche a sentire la distanza, la perdita di memoria, il senso di una rimozione collettiva. Lo stile comico, la farsa, il grottesco rendono, in un certo senso, più accettabile questo vero e proprio ritorno del rimosso, questa rivisitazione di una tragedia collettiva che un gruppo di registi e sceneggiatori ritiene necessario affrontare in un certo modo per raggiungere il pubblico di massa». (G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano 1960-1993, Editori Riuniti, Roma, 2001).
«Un film che, almeno nelle intenzioni, cerca di andare contro corrente, è Tiro al piccione di Giuliano Montaldo, del 1961. Opera prima del regista ligure, Tiro al piccione, avrebbe voluto mettere in risalto la crisi progressiva di un giovane arruolato nella Guardia Nazionale Repubblicana negli ultimi giorni di vita della RSI. Ma la “buona fede” del protagonista, che ne ha motivato le scelte verso il campo fascista, così come la miracolosa “conversione” man mano che prende coscienza del ruolo di “becchino” che gli viene affidato dai suoi comandanti, appaiono troppo emotive e non sufficientemente meditate e sviluppate, tanto da far pensare che il film miri ad un generico quanto gratuito perdono per tutti coloro che scelsero di servire i nazisti fino all'ultimo. Sappiamo che Montaldo non voleva nulla del genere. E per questo si può dire che il film fallisce lo scopo che si era prefisso» (G. Casadio, La guerra al cinema. I film di guerra nel cinema italiano, Longa editore, Ravenna, 1998).
Scheda a cura di Vittorio Sclaverani
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