Altri titoli: Happiness Costs Nothing; Le Bonheur Ne coute Rien
Regia Mimmo Calopresti
Soggetto Mimmo Calopresti, Francesco Bruni, Heidrun Schleef
Sceneggiatura Mimmo Calopresti, Francesco Bruni, Heidrun Schleef
Fotografia Arnaldo Catinari
Musica originale Franco Piersanti, Avion Travel
Suono Remo Ugolinelli, François Joseph Hors
Montaggio Massimo Fiocchi
Effetti speciali Fabrizio Pistone, Pasquale Catalano II, Massimo Ciaraglia, Franco Galiano, Edmondo Natali, Fabio Traversari
Scenografia Alessandro Marrazzo
Costumi Silvia Nebiolo
Aiuto regia Alessandro Angelini
Interpreti Mimmo Calopresti (Sergio), Francesca Neri (Sara), Fabrizia Sacchi (Claudia), Valeria Bruni Tedeschi (Carla), Peppe Servillo (Gianni), Valeria Solarino (Alessia), Vincent Perez (Francesco), Laura Betti (suora Guardiana), Luisa De Santis (Lucia), Edoardo Minciotti (Simone, figlio di Sergio), Francesco Siciliano (vicino di casa)
Produzione Donatella Botti, Luc Besson per Bianca Film, Rai Cinema, Europa Corporation (Paris) e Ventura Film (Zurich)
Distribuzione Lucky Red
Note Suono Dolby Digital.
Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e di Film Commission Torino Piemonte.
Locations: Torino (via Matteo Pescatore, piazza Castello, piazza della Repubblica).
Premio per la Migliore Fotografia (Arnaldo Catinari) a Madridimagen 2003; Premio Palm Springs International Film Festival 2004.
Sinossi
Sergio è un brillante architetto. Ha una moglie che lo ama, un'amante giovane, amici che gli vogliono bene, un'impresa di costruzioni avviata ed una vita agiata ed invidiabile. Ma un giorno un incidente d'auto lo costringe a riflettere sulle contraddizioni e le ipocrisie di cui è fatta la sua esistenza. Sergio lascia all'improvviso tutto e tutti e scivola lentamente in una vita completamente diversa e solitaria. Il bisogno di risposte interiori lo porta a vagabondare in un labirinto tra l'onirico e il reale, che si dipana tra il suo appartamento ormai semivuoto e le strade notturne di Roma. È in questo vagabondaggio che il suo percorso incrocia quello di Sara; eglio scambia per vero amore un sentimento intenso ma fugace che lo lascia di nuovo solo e prigioniero della sua utopica ricerca. Unico suo compagno di strada, e ultimo legame con il passato, resta allora Gianni, un manovale suo dipendente. È proprio lui, con la sua semplicità, a guidare i passi di Sergio verso la vera meta di questo lungo viaggio: la felicità.
Dichiarazioni
«Torino continua ad essere la mia città: in un momento della storia c'è il ritorno a casa dai genitori che ho scelto di ambientare qui a Torino. Negli ultimi anni la città è cambiata molto e positivamente: vedo una voglia di trasformazione enorme, reale. Da una parte sono contento, dall'altra invece triste: mi infastidisce il fatto che la Fiat non riesce più a garantire il posto alle persone che hanno lavorato per lei, e nel contempo mi dispiace vederla in crisi. Noto che c'è una città ormai sganciata dai ritmi della fabbrica: in particolare mi piace l'ambiente musicale, rappresentato da persone capaci e dai Subsonica, che tanto apprezzo [...] Il rischio per noi torinesi è che ti vedi poi costretto ad andartene in cerca di fortuna in qualche altra città, a Roma ad esempio. Nel mondo del cinema romano le persone venute in Piemonte a girare film valutano positivamente l'esperienza, tutti evidenziano la capacità di lavorare dei torinesi sui set. Certo, quello che è stato fatto negli ultimi anni è ancora poco se vogliamo riportare veramente a Torino il cinema che avevamo» (M. Calopresti, “La Stampa”, 22.1.2003).
«Era una storia che volevo raccontare personalmente e, quindi, mi sono sentito di prendere la parola anche in un modo un po’ prepotente. Non volevo mediazioni e cercavo un senso di immediatezza; forse, ho seguito un'intuizione. […] [Il mio personaggio] è un uomo che ottiene tutto e, ad un certo punto, perde tutto: forse volutamente, in qualche modo, non ha più niente ed entra in crisi. Io sono convinto che si debbano identificare i momenti di difficoltà e metterli a frutto; è molto importante, per crescere e magari cambiare. Sergio rimette ogni cosa in discussione e tenta di essere completamente libero, perfino di cercare ed ottenere la felicità. E questo spaventa molti, forse tutti. La sola parola felicità è scandalosa. […] Di recente sono stato negli Stati Uniti ed ho scoperto che, nella costituzione americana, c'è il diritto ad essere felici. Io lo introdurrei nella nostra, questo diritto, inteso pure come responsabilità. Non si deve mai tradire la responsabilità di essere felici» (M. Calopresti, www.fctp.it).
«La felicità non costa niente, quarto film diretto da Mimmo Calopresti [...] non racconta una storia ma si occupa di un'idea: e l'idea è che viviamo male, con troppo affanno e troppo amore per i soldi, con troppo desiderio di possedere cose e persone, senza pensare alla felicità che regala piacere e non ha prezzo. Il film [...] segna un ritorno al realismo magico, in cui elementi della realtà si uniscono a fantasticherie e immaginazioni. [...] L'idea del film è molto contemporanea: il problema cruciale dei nostri anni. La struttura è simile a quella di altri film (ad esempio, L'amante - Les choses de la vie di Claude Sautet, 1970), comporta qualche pasticcio di voci narranti e qualche caduta nella melensaggine. Calopresti è troppo poco attraente per essere un ottimo protagonista [...], ma è un bravo regista. Basterebbe notare il bellissimo lavoro che ha fatto sui paesaggi monumentali e non di Roma diurna e notturna, trasformandoli in panorami onirico-metaforici; basterebbe la direzione degli interpreti minori (Vincent Perez, Laura Betti, Servillo, Valeria Bruni Tedeschi); basterebbe la scelta come leit-motiv del film, della bellissima canzone Piccolo tormento degli Avion Travel» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 28.1.2003).
«Diventa sempre più perentorio e fuggevole il cinema di Mimmo Calopresti. Perentorio nell'ossessiva ricerca di definire, già dai titoli dei film, sentimenti (La parola amore esiste), desideri (Preferisco il rumore del mare), stati d'animo (La felicità non costa niente). Fuggevole nella dichiarata inadeguatezza di poter rappresentare sentimenti, desideri, stati d'animo. In questa direzione è già evidente una fragilità di un cinema che si spinge oltre, che vive di traiettorie disordinate, di vagabondaggi senza meta, di illusioni sempre più provvisorie. Proprio per questo La felicità non costa niente (che rispetto i tre precedenti lungometraggi realizzati da Calopresti è un film ancora più radicale) rappresenta un caso piuttosto raro nel recente panorama italiano. La "fragilità scoperta” di Calopresti consiste nel forte coraggio di rischiare, facendo parlare i personaggi con dialoghi che possono essere recepiti come ridicoli o mettendo il protagonista di fronte a situazioni ai limiti dell'assurdo (le parole che Sergio rivolge al crocifisso in chiesa). I segni di debolezza narrativa, le cicatrici di un'opera sicuramente imperfetta, sono la conseguenza di una sincerità disarmante per quanto è autentica. [...] In La felicità non costa niente sembra eliminarsi la distanza tra chi guarda e ciò che viene guardato. Le inquadrature lunghe, i piano-sequenza nervosi [...], le immagini di Roma dall'alto non appaiono come la strategia precisa di una messinscena, ma come un'immersione stessa di Calopresti verso il mondo che sta filmando. E come se non ci fosse più una differenza, una separazione tra il cineasta e quello che inquadra. L'oggetto macchina da presa viene eliminato. L'obiettivo sembra essere dentro il cervello di Calopresti che sembra spostarsi seguendo istintivamente i propri movimenti. Non è un caso che in La felicità non costa niente Calopresti abbia avvertito la necessità di interpretare lui stesso il ruolo del protagonista e non abbia più potuto delegare altri attori [...] L'illuminazione di Catinari appare sempre sospesa tra un biancore folgorante intermittente e un grigiore persistente. Ma sorprende ancora una volta come il cinema di Calopresti riesca a decostruire città riconoscibilissime come Roma e Torino, cogliendole con colori insoliti (il tramonto colto tra le impalcature di un cantiere), molto più simili al cinema francese che a quello italiano. In questa mancanza di distanza tra lo sguardo del cineasta e ciò che viene inquadrato, La felicità non costa niente paradossalmente però non è un film in prima persona. È chiaro che Calopresti segue Sergio/se stesso nei suoi spostamenti senza meta, nelle tappe che lo hanno portato ad essere, da architetto di successo, un uomo che si è volontariamente abbandonato e che si trova ad essere operato d'urgenza in sala operatoria. La sua voce fuori-campo, però, non è l'unica ma si incrocia con quelle di Claudia, di Francesco, della psichiatra e della domestica» (S. Emiliani, “Cineforum” n. 3/423, marzo 2003).
«Guadagnare “quel pezzo di sole sotto cui tutti abbiamo bisogno di riscaldarci”; toccare quell’attimo di felicità che ognuno di noi cerca nei modi più diversi, “nel lavoro, nell’arte” ma, più spesso, attraverso l’incontro amoroso. Questo perché, come dice il titolo del film, “La felicità non costa niente” e il bisogno di raggiungerla può invece “obbligare ad andare oltre le convenzioni, a esplodere, a vivere momenti di pura follia”. Dopo Preferisco il rumore del mare, una storia raccontata al maschile e chiusa da una scelta rinunciataria, Mimmo Calopresti dirige un film pieno di donne, con un titolo che mette allegria: “Forse è perché in questo momento mi sento abbastanza ottimista; forse perché provavo il bisogno di raccontare i sentimenti in modo più spudorato; forse perché credo che non esistano regole e meccanismi capaci di impedire alle persone di essere felici”» (F. Caprara, “La Stampa”, 17.1.2002).
«Non si può dire un film veramente riuscito La felicità non costa niente; ma è un film sincero, generoso e che merita rispetto. E ha fatto bene Calopresti a prendersi la parte del protagonista, come l'amico-mèntore Nanni Moretti: anche se i suoi mezzi recitativi sono, a tratti, incerti, era una parte [...] che poteva fare solo lui. [...] Come esiste la parola "amore" (era il titolo di un altro film di Mimmo), anche la parola "felicità" esiste, salvo che capire dove andarla a trovare è impresa difficilissima. Nella ricerca, Calopresti appare coinvolto (sia da regista, sia da personaggio) con un'intensità ai limiti del malessere, che si trasmette allo spettatore. Vengono in mente, per antitesi, i suoi documentari sulla Fiat; si direbbe che in lui esistano due anime in conflitto: quella della classe operaia e quella della sua "controfigura", l'architetto borghese in crisi d'identità. L'eccesso di coinvolgimento produce un esubero di narrazione, fa slittare la voce narrante da un personaggio all'altro, rende macchinosa la storia. Però ci sono belle idee registiche: prima fra tutte quelle di una Roma distante, sempre inquadrata dall'altro. Quanto all'esito della ricerca di Sergio, resta aperto, ambiguo, stranamente in bilico tra il pessimismo cronico e un ottimismo cosmico» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 1.2.2003).
«Filmé avec soin et plutót bien dirige, La felicità... manque singulièrement de construction. L'arrogance et le narcissisme de Sergio opèrent comme les bulldozers de ses chantiers. IIs repoussent tout sans rien édifier. La narration n'enfonce que des portes ouvertes : puisque je me sens coupable de la mort d'un étre humble, je dois faire acte de contrition, quitter la bourgeoisie, devenir un romantique maudit, puis un indigent pour connaître la charité chrétienne. Tant de clichés sur une destinée humaine devenue surannée apparaissent comme une forme de démission dans l'Italie actuelle vidée de ses valeurs politiques. Sergio n'est que le représentant d'une pseudo-subversion velIéitaire, oublieux du sens de la dignité. Le personnage de Mimmo Calopresti répète ses slogans de repentance à travers une voix off trop présente» (P. E., “Positif” n. 514, dicembre 2003).
«[…] non va sottovalutato l'aspetto prettamente cinematografico dell'opera di Calopresti, la cifra stilistica di un autore coraggioso che osa su diversi piani estetico-compositivi: basti pensare a quell’impasto visivo che si rispecchia nell'estrema cura delle luci, nel taglio dell'inquadratura mai casuale, nella sostanziale ricerca di una depurazione dell'immagine che in certi momenti diventa un autentico e peculiare sguardo, lontano dal torpore estetizzante delle scelte di maniera. Lavoro dettagliato che si deduce anche dalle scelte di contorno: il depistante uso di differenziate voci fuori campo o l'azzardato accostamento di diversissimi ma armoniosi generi musicali che vanno dal pop di John Cale, alla bossanova degli Avion Travel, fino all'urlo punk dei Ramones di What a wonderful world per sottolineare le complesse sensazioni o le risolutive scelte che sfociano dal tormentato stato d'animo del protagonista. Una maturità formale che Calopresti fatica a fondere con uno spirito battagliero contro qualcuno o qualcosa (il consumismo, l'irrefrenabile e logorante velocità della vita odierna...) perché La felicità non costa niente rimane un caotico e consolatorio percorso di ricerca interiore dove la soluzione sta in una ritrovata conquista della più elementare “semplicità” della vita quotidiana. Un mettersi in gioco che, infine, trova talvolta un (in)volontario rifugio sotto l'ombra minacciosa e l'impronta indelebile dell'amico-mentore-padre procrastinatore di girotondi: prova ne sono i prolungati e narcisistici dettagli fisico-corporei del protagonista Calopresti, come lo sterno e i nei in primo piano che, con i tic alimentari e la reiterata attenzione alla forma fisica (ma anche ai godibilissimi alleggerimenti comici demandati alle battute non-sense del protagonista del film) rischiano di somigliare all'inizio di una nuova saga di un Apicella qualsiasi» (D. Turrini, “Segnocinema” n. 120, marzo-aprile 2003).
«Tutto sospeso, tutto alluso. Con un'azione che procede, appunto, esulando dall'ordine cronologico, mentre i vari personaggi via via ci informano di quello che accade o che è già accaduto, commentando non solo sé stessi, ma il protagonista. i suoi gesti le sue reazioni. [...] Calopresti, con la sua regia, si muove con disinvoltura mediata. Attento a non suscitare mai fratture fra il reale e il surreale, proposti nei climi più quieti, minuzioso nella illustrazione dei carattere spesso ambivalente quando non addirittura misterioso del protagonista ed evitando con asciuttezza qualsiasi rischio letterario quando molti snodi e molte situazioni li fa commentare o chiarire dai personaggi di sfondo» (G.L. Rondi, “Il Tempo”, 1.2.2003).
«Molte cose mi lasciano perplesso, a cominciare dal titolo. Non è vero che "la felicità non, costa niente"; personalmente sono convinto, con Stendhal che la felicità sia "una lunga abitudine a ragionare giusto". E quindi ha un costo di sacrifici non indifferente. Pensare il contrario significa allinearsi alla mentalità del protagonista, questo architetto Sergio (incarnato plausibilmente dallo stesso regista) nevrotico, instabile, perseguitato dai fantasmi del rimorso e tuttavia pronto ad addormentarsi abbracciato a un pupazzo come un bambino. Se gli diamo retta è perché il racconto delle sue angosce si inserisce in una cornice stilistica impeccabile, come in un romanzo scritto bene, con quelle immagini di città (Roma, Torino) ritagliate da uno che ne scopre gli aspetti meno consumati o le fa emergere dalle profondità del ricordo. E quei personaggi, anche minori, tutti in qualche modo con una presenza incisiva. In questo senso mi pare più convincente la prima metà dei film. apparentemente dispersiva, un carnet di note dolenti; mentre da quanto appare sullo schermo l'incantevole immagine di Francesca Neri (della quale sapremo poi che è una matta vera) si sente subentrare una fragile ipotesi narrativa, qualcosa che potrebbe assimilarsi al manierismo (vedi poi l'immagine sognata del Paradiso proletario). Però Mimmo Calopresti ha davanti a sé i suoi secondi 40 anni per tirare le somme degli spunti creativi e organizzarli in un contesto totalmente accettabile. Prevedo un viaggio di cui sarà interessante seguire le tappe, a cominciare da questo La felicità non costa niente. Un film da amare, contestare, discutere. Tutto meno che un film inutile» (T. Kezich, “Corriere della Sera”, 1.2.2003).
«La felicità non costa niente è meno bello del suo titolo, ma emana un'urgenza e una faccia tosta non comuni. Certo. Calopresti non è Moretti, non "porta" il suo personaggio con pari nevrotica innocenza, azzarda dialoghi a rischio, pasticcia con le voci narranti. Soprattutto, fra utopie personali e sociali, mette fin troppa carne al fuoco. Ma corteggia una dimensione magico-fantastica ignota in casa nostra. E ci ricorda con sana schiettezza che a ogni generazione corre l'obbligo di "rompere il teatrino della vita" e delle sue piccole ipocrisie quotidiane» (F. Ferzetti, “II Messaggero”, 31.1.2003).
«Con La felicità non costa niente il più francese degli autori italiani della generazione '40-'50 ha voluto riqualificare con un approccio problematico il motivo della felicità, oggetto di analisi filosofiche, ma anche di banalizzazioni da Baci Perugina. [...] Sullo sfondo di una Roma insolita, Calopresti dà al racconto in flashback una struttura polifonica (la voce narrante è di volta in volta quella di Sergio, della moglie e del suo miglior amico) e fa incrociare Dostoevskij, Sartre e Marx in un percorso che si snoda tra il piano onirico-allucinatorio e quello reale» (A. Castellano, “II Mattino”, 1.2.2003).
«Riso amaro, se diciamo che l'infelicità costa troppo a Calopresti: cineasta inquieto e introspettivo, che abbiamo sempre apprezzato lasciando intuire una "voce" come succede in poesia, ha tentato questa volta di fissare un autodafè nella libertà contro l'ipocrisia, ma è incappato in due dei peggiori errori che un cineasta possa commettere: 1) non accorgersi che la materia (l'amore e la follia come liberazione libidica dell'io) è un universale tranello di luoghi comuni; 2) che al cinema (o in letteratura) soltanto un grande attore (o un grande personaggio) possono tenere, nell'autoironia e nella complessità delle digressioni, la via perigliosa del senso e della misura» (S. Danese, “II Giorno”, 31.1.2003).
«Calopresti è un regista capace come pochi, col decisivo contributo della fotografia di Arnaldo Catinari, di dare spessore, senso e bellezza alle immagini, ai movimenti di macchina, alle inquadrature. [...] La tecnica del flash-back, dei movimenti avanti ed indietro nel tempo, è assolutamente fluida oltre che perfettamente funzionale al racconto, quanto meno nella prima metà del film, poi si inizia ad avvertire come un senso di fatica e un tono un po' scoperto e declamatorio nei dialoghi con tutti quei personaggi e le loro voci fuori campo, come se si trattasse di uno psicodramma collettivo. Si sente dire in giro che è un film irrisolto. Forse. II risultato complessivo va tuttavia a tutto onore di Calopresti, un autore vero» (F. Bona, “Brescia Oggi”, 9.2.2003).
«La sceneggiatura vuole essere una sorta di indagine poliziesca su un caso esemplare, dove, attraverso varie testimonianze, si cerca di ricostruire una verità oggettiva e sfuggente. Ma questo impianto narrativo originale e curioso non è sostenuto né da una trama adeguata (il racconto si avviluppa troppo spesso su se stesso) né da dialoghi credibili. Troppo sentenziosi [...], qualche volta involontariamente ironici [...], proprio i dialoghi, nonostante la sceneggiatura sia, oltre che dello stesso Calopresti, di due ottimi professionisti come Francesco Bruni e Heidrun Schleef, appaiono il punto più debole di un film il cui modello sembra essere il cinema di Antonioni. Insomma La felicità non costa niente risulta un'opera per molti versi eccessivamente ambiziosa e intellettualistica, che si prende molti rischi e che nel finale sconfina addirittura nel metafisico» (F. Montini, “Vivilcinema”, 26.1.2003).
«La Torino di Calopresti […] non è soltanto Fiat o culla dell'industria in senso lato, ma anche una presenza immanente, codificata lungo le coordinate della sua celebre storia e fissata dalle logiche del suo ruolo nella realtà italiana. Sempre pronta al confronto tra polarità antitetiche, la Torino che avvolge i vari personaggi, pur riconoscibile per luoghi, stile architettonico, punti notevoli e ambiti caratteristici, è un autentico luogo dell'anima in grado di cingere le figure e caratterizzarne azioni, condotte e pensieri. Un aspetto tanto più vero perché riscontrabile anche quando Torino non è il luogo principale in cui è ambientato il film. In La felicità non costa niente (2003), ad esempio, Sergio, l'architetto di grido in crisi (non a caso interpretato dallo stesso Calopresti), ricerca a Torino quella pace che a Roma pare aver irrimediabilmente perduto. La città della sua giovinezza diventa il nido pascoliano in cui rifugiarsi, il conforto in cui assecondare la regressione all'infanzia esplicitata dai desideri puerili che rivolge ai genitori (giunge a casa dei suoi con i panni sporchi da lavare, chiede di poter assaporare il brodo di gallina che tanto ama), il nascondiglio nel quale escludersi da una realtà fatta di estranei e di relazioni diventate impossibili da gestire» (G. Frasca, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
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