Altri titoli: Les derniers jours de Pompéi; Die Letzten Tage von Pompeji; Last Days of Pompeii; De laatste dagen van Pompeï; Ultimos días de Pompeya; Pompejis sista dagar; The Last Days of Pompeii
Regia Eleuterio Rodolfi
Soggetto dal romanzo omonimo di Edward George Earl Bulwer-Lytton
Sceneggiatura Arrigo Frusta [Augusto Ferraris]
Fotografia Giuseppe Paolo Vitrotti
Musica originale Carlo Graziani Walter
Interpreti Fernanda Negri-Pouget (Nidia), Eugenia Tettoni (Jone), Ubaldo Stefani (Glauco), Antonio Grisanti (Arbace), Vitale De Stefano (Claudio), Cesare Gani-Carini (Apoecide), Ercole Vaser, Carlo Campogalliani (una guardia), Bianca Schinini (un’ancella di Jone), Rina Albry, Lia Negro, Angelo Vestri, Cesare Zocchi
Produzione Società Anonima Ambrosio, Torino
Note Visto censura n. 994 del 1.12.1913; 1.958 metri.
Le fonti Fiaf e alcune fonti cartacee attribuiscono la regia a Mario Caserini.
Distribuito in Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera e negli Stati Uniti, con enorme successo di pubblico e proiezioni nelle migliori sale, tra cui il Gaumont Palace di Parigi; la versione francese e spagnola era lunga 2.000 metri; la versione svedese era lunga 1.930 metri; la versione statunitense era lunga 6 reels.
Nelle fonti pubblicitarie d’epoca, l’attrice Eugenia Tettoni è accreditata come Eugenia Fiorio-Tettoni o Eugenia Tettoni Fiorio.
L’attore Cesare Gani-Carini interpretò Apoecide in due edizioni de Gli ultimi giorni di Pompei: quella del 1908 diretta da Luigi Maggi e quella del 1913 diretta da Eleuterio Rodolfi, entrambe prodotte dalla Società Anonima Ambrosio.
Copie conservate presso: Cinémathèque Royale (Bruxelles); Cineteca del Friuli (Gemona); Cineteca Italiana (Milano); Library of Congress (Washington); Museo Nazionale del Cinema (Torino); Národní Filmovy Archiv (Praha); Pacific Film Archive (Berkeley); Nederlands Filmmuseum (Amsterdam); Oesterreichisches Filmmuseum (Wien); UCLA Film and Television Archive (Los Angeles); Cineteca Nazionale (Roma); Academy Film Archive (Beverly Hills).
Una copia del film della durata di 80 minuti è stata proiettata nel 1986 alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone.
Una copia dattiloscritta della sceneggiatura di Arrigo Frusta, suddivisa in quattro parti, è conservata presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Nel 1913 venne realizzata una seconda trasposizione del romanzo di Bulwer-Lytton dalla Pasquali & C., Jone o Gli ultimi giorni di Pompei, per la regia di Giovanni Enrico Vidali. La concorrenza tra le due case scatenò polemiche, recriminazioni e un vero e proprio caso giudiziario in merito ai diritti di riduzione cinematografica riguardanti le opere letterarie: nell’ottobre 1913 l’Ambrosio fece causa alla Pasquali ma perse il processo, perché l’opera letteraria era di pubblico dominio e quindi non c’erano vincoli per la trasposizione. Umberto Tiranty cita la vicenda nel volume La cinematografia e la legge: manuale teorico pratico (Bocca, Milano, Torino, 1921).
Sinossi
Pompei, 79 d.C. Affascinato dalla bella greca Jone, il sacerdote Arbace tenta di conquistarla ma la donna lo respinge perché innamorata, corrisposta, del nobile Glauco. La collera spinge Arbace a uccidere il suo adepto Apoecide e a sfruttare l’inconsapevole Nidia, una fioraia cieca che ama segretamente Glauco, per far ricadere la colpa sul rivale: in buona fede, Nidia somministra a Glauco quello che crede essere un filtro d’amore comprato da una fattucchiera ed è in realtà un veleno somministrato da Arbace, rendendolo pazzo. Accusato di omicidio e condannato a combattere con i leoni, il nobile romano riesce a salvarsi perché il Vesuvio erutta all’improvviso, seminando panico, morte e distruzione tra le vie della città. Prima di annegarsi in mare, Nidia aiuta a Glauco a salire su un’imbarcazione insieme a Jone, mentre Arbace muore tra le macerie.
«Delle due edizioni – la prima – quella dell’Ambrosio è apparsa migliore per tutta una più complessiva armonia d’insieme – e ciò senza togliere i suoi meriti all’altra – poiché non tocchiamo l’arte individuale di nessuno, - non facciamo nomi di singoli artisti per non creare precedenti, per non inasprire animi già tesi e per mantenere il rispetto dovuto a tutti gli attori scritturati dalle due case in agone che vantano ognuno un serio ed onorevole passato artistico» (“Il Maggese Cinematografico”, a. I, n. 12, 10.10.1913).
«E veniamo ora a discorrere dei principali lavori che in questa quindicina si sono proiettati nella nostra città. “Gli ultimi giorni di Pompei” sono il tema preferito di tutti i discorsi ed hanno sollevato mille discussioni e polemiche. Si paragona l’esecuzione fattane della Casa Pasquali con quella d’Ambrosio, e si esalta ora quella ora questa, a seconda delle particolari simpatie od antipatie. Il soggetto era meraviglioso, ricco di meravigliose situazioni tragiche per colui che nel cinematografo vuol trovare un appagamento intellettuale insieme alla soddisfazione estetica e nello stesso tempo si prestava ad una mirabile ricostruzione di un ambiente, che, figlio del lusso, nel lusso venne sorpreso dal destino e sotterrato per lunghi secoli. Furono risolti questi due quesiti? Mi si permetta di osservare di no, pure rispettando e plaudendo a color che, con scopi artistici, hanno fatto rivivere i personaggi del romanzo del Bulwer. E consideriamo anzitutto l’opera d’Ambrosio. La signora Fernanda Negri-Pouget fu una Nidia efficacissima di drammaticità, rendendo con vera arte la tempesta psicologica dell’anima sua, la parte di povera cieca. Dignitosa ed elegante Ione fu la signora Eugenia Fiorio Tettoni. Intonati all’ambiente, sicuri di movenze ampie, proprie degli antichi furono il signor Stevani, nella parte di Glauco, efficacissimo nella scena della pazzia, ed il signor Grisanti nella parte non facile del gran sacerdote Arbace. Ottimo il Gam-Carini [sic] nella parte di Apoecide, e bene le parti secondarie. Però non posso tacere qualche osservazione considerando il lavoro nella sua interezza: anzitutto mi sembra che troppa parte s’è data all’idillio di Ione e di Glauco, lasciando un po’ dimenticata tutta la vita di una città, che la sua vita viveva morbosamente, affannosamente, sempre alla ricerca del piacere. La ricostruzione di un’epoca non è soltanto riprodurre sullo schermo un’episodio [sic] di un’epoca, tolto da un romanzo, ma è anche far rivivere un po’ una civiltà perduta, descriverla nelle varie sue manifestazioni. E questo non mi pare che si sia stato fatto. Inoltre ho osservato la sproporzione esistente fra le due figure di Ione e di Glauco e quella di Arbace: il gran sacerdote, che è il perno, intorno cui s’aggira tutto il viluppo dei casi drammatici, non ha nell’edizione Ambrosio quella spiccata personalità, che gli conferisce il romanzo. La figura di Arbace appare secondaria di fronte alle altre due che colla sua debbono contrastare. Buone le scene del circo, per quanto all’occhio dell’osservatore il circo sia tale... solo in ispirito. Abbastanza movimentate le scene dell’eruzione, che sarebbero state perfette, se la benedetta colonna, che deve ammazzare Arbace, non fosse stata troppo elastica...» (E. Geymonat, “Cinema”, a. III, n. 62, 25.10.1913).
«L’aspettativa per questo capolavoro della Casa Ambrosio di Torino [...] era straordinaria ed i pronostici che si facevano in proposito erano, è vero, dei più favorevoli, per la fiducia che inspira la suddetta Casa, per la consueta e sapiente cura che mette in ogni suo lavoro; ma indubbiamente il pubblico ieri sera al Costanzi ha voluto, con le sue continue ed incessanti approvazioni, giustamente giudicare ed apprezzare questa opera cinematografica insuperabile, per tutto l’insieme grandioso, drammatico e commovente, nella sua scrupolosa perfezione storica. Non a torto si può quindi definire questo componimento come il più perfetto nell’esecuzione per la scelta di artisti di prim’ordine, ed il più poderoso per tutto l’allestimento scenico, superiore ad ogni immaginativa» (“Il Maggese Cinematografico”. a. I, n. 9, 25.10.1913).
«La riduzione del popolare romanzo di Lytton Bulwer Gli ultimi giorni di Pompei causò uno dei primi seri attriti fra case cinematografiche che la storia ricordi. Da mesi l’ “Ambrosio” in tutta segretezza preparava tale film che doveva essere, con il secondo e il terzo della serie patriottica La lampada della nonna e Le campane della morte, un’affermazione importante della casa. Ancor prima di girarlo era già stato venduto alla “Photodrama & C.” di Chicago; la riduzione cinematografica fatta da Arrigo Frusta era costata mille lire. Ad un certo momento la casa “Ambrosio” viene a sapere che altre due case torinesi all’inizio del 1913 stanno realizzando a Torino lo stesso film: la “Gloria” che dopo aver affittato l’Arena di Verona e comprato un intero serraglio abbandonerà l’idea; e la “Pasquali”, su commissione dei noleggiatori milanesi Vay e Hubert, che avevano posto un solo patto a Pasquali, uscire prima di Ambrosio a tutti i costi, per poter giungere in America prima e sfruttarvi la grande pubblicità che già s’era fatta. Pasquali riuscì a girare il film in ventotto giorni e la sua riduzione, se non raggiunse le rifiniture e lo splendore scenografico dell’Ambrosio, ebbe maggior vivezza di recitazione» (M.A. Prolo, Storia del cinema muto italiano, Il Poligono, Milano, 1951).
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