Regia Daniele Segre
Soggetto Daniele Segre
Sceneggiatura Daniele Segre
Fotografia Marco Carosi, Iacopo De Gregori
Operatore Iacopo De Gregori, Marco Carosi
Suono Fabio Minciguerra, Davide Pesola, Mirko Guerra, Gianni Valentino
Montaggio Daniele Segre
Interpreti Ciro Giustiniani, Luca Rubagotti, Seck Bamba, lavoratori e familiari dì lavoratori morti nel settore costruzioni in Italia
Produttore esecutivo stripslashes(Daniele Segre )
Produzione Daniele Segre per I Cammelli
Distribuzione I Cammelli
Note Collaborazione alla sceneggiatura: Antonio Manca; assistente al montaggio: Iacopo De Gregori; editing: Davide Santi; assistenti di produzione: Anna Pìazzolla; Lia Furxhi; relazioni sindacali: Francesco Mancuso.
Locations: Lazio, Campania; Lombardia, Pìemonte.
Il film è stato realizzato con il sostegno del Piemonte Doc Fund Fondo Regionale per il Documentario e la collaborazione del Sindacato Costruzioni CGIL.
Premio Anmil 2008.
Sinossi
Morire di lavoro è un film documentario che indaga la realtà del settore delle costruzioni in Italia, protagonisti i lavoratori e i familiari di lavoratori morti sul lavoro. La trama narrativa si sviluppa attraverso i racconti e le testimonianze dei protagonisti, ripresi in primo piano, che guardano in macchina. Altro elemento espressivo sono le voci di tre attori, due italiani e un senegalese, che interpretano ciacuino il ruolo di un lavoratore morto in cantiere. Nel film si parla di incidenti mortali nei cantieri edili, dell'orgoglio del lavoro, di come si è appreso il mestiere, della sicurezza e della sua mancanza, di lavoro nero, di caporalato.
Dichiarazioni
«Sono stato spinto ad affrontare questo argomento dall'indignazione che provavo davanti alle notizie delle morti bianche. Ho iniziato a girare luoghi simbolo dell'Italia, raccogliendo testimonianze tra gli edili grazie al supporto costante della Fillea-Cgil. [...] Volevo rimettere al centro la dignità delle persone, perché senza i lavoratori non andiamo da nessuna parte» (D. Segre, “La Stampa”, 28.11.2007)
«La situazione è davvero drammatica. Qui non so parla di “pensiero debole”, si parla di gente che muore tutti i giorni. Il mio strumento, il cinema, ha solo offerto visibilità a ciò che quotidianamente viene negato. Ho solo fatto il mio dovere. [...] La tragedia della Tyssen-Krupp mi ha ovviamente spinto ad accelerare i tempi di lavorazione [...]. Ho finito prima, così ho anche avuto l’onore di un’anteprima alla Camera dei Deputati il 12 febbraio 2008 e un’altra l’11 marzo al Parlamento Europeo di Strasburgo. La realtà, purtroppo, è stata più veloce dei programmi di lavoro e della produzione. Per starle dietro ho aumentato i miei ritmi, montando da solo e gestendo in prima persona le inevitabili complicazioni. [...] È stata un’impresa molto impegnativa ma bella; ci ho messo tutta l’esperienza sulle problematiche sociali accumulata negli anni e, alla fine, il film è venuto come volevo: non ideologico, perché i miei film non lo sono mai stati, ma al tempo stesso capace di raccontare la dignità e l’orgoglio del lavoro» (D. Segre, “Cineforum” n. 5/475, giugno 2008).
«Grazie al sindacato ho avuto modo di contattare tanti lavoratori e familiari di persone scomparse sul lavoro e credo che stia a cuore prima di tutto al sindacato che la questione venga trattata seriamente. Che poi si trovi una soluzione, è più problematico perché entrano in gioco fattori che coinvolgono la politica e le imprese. […] Bisogna innanzitutto ricostruire il senso dell'identità del nostro Paese dando un ruolo centrale al lavoro. È una questione fondamentale: i lavoratori, proprio per il contributo che danno, devono essere rispettati e questo da molti anni, in Italia, è venuto a mancare. Produrre cultura vuol dire riuscire a comunicare attraverso i mezzi d'informazione: la Rai dovrebbe tornare a fare il suo dovere di servizio pubblico, entrare in rapporto con le scuole, nei luoghi di lavoro producendo quella attenzione che fa maturare le persone nel rispetto della vita e dei valori che determinano la propria esistenza. È un segnale gravissimo quando viene leso questo diritto, questa dignità e gli operai fanno notizia solo perché muoiono» (D. Segre, “Film TV”, 12.2.2008).
«Come in precedenza, anche questa volta la mia idea è stata bocciata da eventuali produttori e dalla Rai, con cui ho provato in tutti i modi di attivare un rapporto. Questi ennesimi rifiuti mi hanno dato un'ulteriore determinazione e ho deciso che il film, dato il suo senso di esistere, andava realizzato: in un Paese che si definisce civile non si può non affrontare un problema come questo, la morte sul luogo di lavoro. Non avrei ovviamente voluto fare un film del genere, calarmi come ho fatto nel dolore. Io denuncio la spettacolarizzazione che il dolore sta subendo in questa nostra epoca: la messa in scena della sofferenza attraverso le fiction e soprattutto i talk show rappresentano l'identità spappolata di questo nostro tempo» (D. Segre, “La Stampa – TorinoSette”, 18.4.2008).
«Morire di lavoro non vuole essere solo l'ennesimo atto di denuncia di una situazione drammatica e paradossale nell'Italia del 2007, né un'inchiesta giornalistica di approfondimento, o una triste cronaca che vede la criminalità organizzata ormai padrona del mondo dei mattoni. Il suo intento è invece quello di raccontare di uomini usurati dalla fatica; descrivere, senza retorica, il dato reale di una realtà abbandonata a se stessa e priva del sacrosanto diritto alla sicurezza sui luoghi di lavoro. L'autore non dimentica la sua personale partecipazione a un dolore certo e quotidiano, che vede ragazzi di 22 anni così come uomini di 62 narrarsi senza compiacimento. Nelle interviste si descrive un'impotenza reale: quella di uomini non ritenuti degni neanche delle minime norme di salvaguardia. Le imprese dovrebbero fornire loro elmetto, cintura di sicurezza, impalcature protette. Invece, molto spesso, non è così. Il ricatto è l'arma più utilizzata: o si accettano le regole del gioco, o si sta a casa disoccupati. [...] Segre fa emergere nei suoi dialoghi con gli edili le differenti provenienze culturali, lasciando spazio all'uso del dialetto e alle storie di extracomunitari e parenti di vittime del lavoro. Per restituire dignità alle persone e al ricordo di chi non c'è più» (Nota di presentazione della Casa di produzione, 27.11.2007).
«Segre definisce, col film odierno, la nuova tappa di un percorso che potrebbe prolungarsi per un tempo indefinibile. È il suo stile di lavoro; un modo che noi stessi, recentemente, abbiamo accostato a quello di Chris Marker: “Segre ha perseguito l’utopia del dire e del mostrare con verità (esaltando il rischio di un approccio inevitabilmente parziale) contro la pornografia tele-giornalistica imperante e senza chiudersi in una maniera. […] Con la sua ironia elegante, in nun’intervista di parecchi anni fa, Resnais attribuiva all’amico e collaboratore Chris Marker il dono dell’ubiquità: opera in posti diversi nello stesso momento ma non lo si incontra quasi mai. Per Segre è un po’ lo stesso: non sappiamo con precisione in cosa sia impegnato e dove ma sappiamo con certezza che lavora e che, presto, ce ne darà conto”. Lo farà ricorrendo all’urgenza, o alla fretta zavattiniana, potremmo aggiungere, e con la lentezza che occorre per contrastare le derive di un cinema povero quanto affannato e la sconfortante semplificazione mediatica dell’oggi» (T. Masoni e P. Vecchi, “Cineforum” n. 5/475, giugno 2008).
«Il cinema in questi mesi sta coprendo un buco di memoria e di attenzione dell'intero paese. Si sta facendo carico di riportare alle nostre memorie e ai nostri occhi la storia, le storie, di chi questo paese lo ha fatto, lo ha nutrito, con le proprie mani, con il proprio lavoro. Un dovere che il cinema si è assunto e spesso nei suoi autori più marginalizzati, nei suoi autori più caparbi. Quelli che, come Daniele Segre, dopo aver fatto proposte per due anni a tutte le autorità possibili, televisioni di stato ed enti di stato anch'essi, e averne ricevuto dinieghi ha preso i suoi soldi e si è prodotto il suo film. Si intitola Morire di lavoro, racconta di morti bianche, non ha altri produttori oltre lui, non ha distributori, non ha attualmente futuro. Però ieri lo abbiamo potuto vedere (grazie alle pressioni di Articolo 21) nella sala del Cenacolo del Parlamento, assieme al presidente della Camera Fausto Bertinotti e alla signora Franca Mulas, che sulle impalcature ha perso un figlio di 22 anni e un marito di 41. Cosa sarà domani, di “Morire di lavoro” per ora non è dato saperlo. Per recuperare dall'oblio di un ventennio volti e storie, Segre si serve di cinema puro. Facce in primo piano, luci di taglio che offrono profondità, voci con sottotitoli quando si esprimono in dialetti troppo stretti. Le poche immagini esterne sono con camera fissa, quadri urbani, contesti alieni. Uomini e donne raccontano. Delle telefonate e dello shock, delle frettolose bugie, delle ultime parole. Prima di sapere, prima di capire che un figlio o un marito o un compagno a casa quella sera non torneranno. Tante storie, simili a quelle che leggiamo ogni giorno sui giornali in notiziole. In televisione difficilmente arrivano ad avere un corpo, più spesso solo un titolo. Segre restituisce invece i visi, le consistenze umane. Il contesto è principalmente quello dell'edilizia, un mondo fatto di 830mila imprese iscritte alla Camera di commercio di cui 550mila attive (in Germania sono la metà). […] Segre però non fa numeri né commenti. Gli 89 minuti di Morire di lavoro sono tutti per loro, per i testimoni e i sopravvissuti, per i malati e per i morti. Per restituire a tutti loro la dignità di poter esistere e testimoniare. Il minimo, per una Repubblica fondata sul lavoro. Il minimo, per una Rai (pubblica) mandarlo in onda» (R. Ronconi, “Liberazione”, 13.2.2008).
«La Rai proprio non ne ha voluto sapere del film, come racconta lo stesso regista che dice di aver bussato fino ai piani più alti di viale Mazzini. Con buona pace, evidentemente, dei tanti inviti istituzionali (Napolitano in testa) rivolti al servizio pubblico per dare più spazio a certi argomenti. Ultimo quello di ieri mattina del presidente della Camera Bertinotti che, ritenendo “ineludibile” la “centralità del lavoro nella prossima legislatura”, ha sollecitato la Rai a trasmettere in prima serata Morire di lavoro. Via dunque alle testimonianze. O meglio alle esistenze «agre» o alle vite spezzate del film di Segre, dove i tanti volti dei lavoratori, primi piani secchi su fondale nero, compongono un mosaico agghiacciante, una mappa Nord/Sud di un'Italia in cui c'è un morto ogni 7 ore e in cui, a queste condizioni, “morire di lavoro” non può che essere la normalità» (G. Gallozzi, “l’Unità, 13.2.2008).
«Il film del cineasta piemontese racconta questo: il problema della sicurezza in un settore, quello edile, dove lavoro nero e caporalato spadroneggiano; la morte che arriva dove non dovrebbe; ma anche l'orgoglio del capomastro, dell'apprendista, del muratore. A parlare sono gli operai, i parenti di chi non c'è più e, fuori campo, le voci dei morti che si intrecciano a quelle dei vivi per dare la loro versione della storia. […] Lo stile è scabro e asciutto: interviste faccia a faccia, con camera fissa, vicinissima al volto delle persone. Perché quegli operai che lavorano e muoiono e di cui si sente ogni tanto distrattamente la notizia al telegiornale, non sono dati da statistica ma persone “vere”, con progetti, ambizioni, amori, preoccupazioni» (G. Carnino, “La Stampa – TorinoSette”, 18.4.2008).
«Un regista che ha scelto da che parte stare. è Daniele Segre che, in oltre trent’anni di attività, si è sempre schierato a favore dell'individuo. E lo fa anche questa volta con un film sulle morti nel mondo del lavoro. Una vera e propria urgenza la sua, tanto che per realizzarla non si è fermato davanti a niente: dopo aver bussato a molte porte, che gli sono state regolarmente sbattute in faccia, ha deciso di produrre lui stesso Morire di lavoro con la sua società, I Cammelli» (M. Alberione, “Film TV”, 12.2.2008).
«Un film prezioso, che dà voce agli operai e ai parenti delle vittime sul lavoro: le madri, le sorelle, le mogli raccontano in prima persona. Si inizia con il ricordo terribile della telefonata: “Ho fatto il suo numero e lui mi ha risposto ‘sono qui’. Poi ha preso il telefono il suo capo, e mi ha detto: tuo marito è caduto”. Nessuno chiama il 118, l'operaio torna insanguinato a casa: “Non voleva sedersi sul divano, per non sporcare”. Dopo c'è il silenzio, la morte. Tanti cantieri in Italia, nessuno può immaginare l'umanità che si muove dentro ogni giorno, la paura costante di farsi male e l'impossibilità di rivendicare più sicurezza, una paga equa, il rispetto: “C'è paura, solo paura - racconta un immigrato - Se ti fai male non si chiama mai l'ambulanza”. […] Sono sconvolgenti gli spaccati d'Italia raccolti da Daniele Segre nel documentario Morire di lavoro, eppure tutti noi dovremmo sapere quello che rischiano (e soffrono) i tanti operai edili che costruiscono le nostre città. […] Segre ha sentito proprio gli “ultimi”, gli immigrati che lavorano in nero, i tanti italiani che si spaccano la schiena per 12-14 ore al giorno per 50 euro. Soprattutto quando hai più di 50 anni e per il mercato del lavoro sei solo un “rifiuto”. Quanti operai sentiamo morire a 55, 60, 65 anni: sono nei cantieri perché incredibilmente low cost, ti fanno 14 ore di lavoro (“dalle sei di mattina alle otto di sera, esco con il buio e rientro con il buio”) per soli 30 euro. Quanto vale un'ora di lavoro in questo modo? Poco più di due euro. E dire - lo ricorda un operaio del Senegal - che “anche a un elefante basta una giornata per morire”. Ma a noi, continua lo stesso edile, ci bastano due ore. Ecco che il documentario è anche un magico incrocio di dialetti (con tanto di sottotitoli), dal napoletano al bresciano stretto, a raccontare di un'Italia che muore e non si rivolge alle autorità dal Manzanarre al Reno. […] Alla fine del documentario, una piccola luce: un ragazzo che ha avuto la gamba maciullata da un carico vorrebbe tornare al cantiere perché, spiega, “il mio sogno è guidare un escavatore”, e ha trovato il motivo per ripartire nella sua fidanzata. In questa Italia così crudele c'è spazio anche per i sogni» (A. Sciotto, “il manifesto”, 13.2.2008).
«Fausto Bertinotti presidente della Camera dei Deputati, che ha ospitato l'anteprima del film di Daniele Segre Morire di lavoro, ha auspicato la possibilità di vedere un documento come questo in prima serata televisiva. Per contrastare "l'invisibilità" di opere come questa e soprattutto del suo argomento, degli esseri umani di cui si parla, dei lavoratori. Nel rispetto della nostra Costituzione, quarantennale proprio nei giorni scorsi, e del suo articolo 1: “L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Non a caso il film si apre e si chiude sulle note dell'Inno di Mameli, in contrasto con quanto si racconta. Regista che da tanti anni insegue un modello di "cinema del reale" innumerevoli volte espresso nel documentare il mondo del lavoro, Daniele Segre ha realizzato il film prima che il clamore dell'incidente alla ThyssenKrupp imponesse l'emergenza all'attenzione della politica e dei media. Tramite la collaborazione con il sindacato edile della Cgil ha potuto avvicinare più di cento persone, vittime di incidenti e familiari di vittime […]. Testimonianze di italiani ma anche di numerosissimi immigrati. Un lavoratore africano denuncia, anzi autodenuncia la mancanza di coraggio. Il coraggio di "parlare", dice, e di esigere il rispetto dei diritti e delle regole. Perché si tratta sempre di incidenti capitati in situazioni irregolari, illegali. Dove non vengono rispettate le norme di sicurezza e contrattuali. E i lavoratori precari dei cantieri e delle costruzioni, sotto ricatto, tacciono per andare avanti. […] Il regista, che ha presentato l'inchiesta con la collaborazione di "Articolo 21" e "Uniti a sinistra” a dichiarare con evidenza la sua collocazione politica (“Sono di sinistra e mi offende che si dica ‘radicale’, non sono un estremista”), non sa che destino avrà Morire di lavoro. Ha voluto iniziare il cammino da due luoghi simbolici, dice, la Camera dei Deputati (con la benedizione di Bertinotti) e, la sera stessa, con una seconda anteprima alla Casa del Cinema di Roma, presenti il ministro del lavoro Damiano, il segretario generale Cgil Epifani e altri leader sindacali. Non sa però che destino potrà avere il film, dopo aver fatto tutto quello che poteva […] per sollecitare chi secondo lui dovrebbe interessarsi all'uscita nei cinema (Luce) e televisiva (Rai)» (P. D’Agostini, “la Repubblica”, 13.2.2008).
«Le prime inquadrature sono per loro. Le mogli, le madri degli operai vittime di infortuni. Poi ci sono i protagonisti, primi piani di facce stanche, tirate, logorate. Manovali che raccontano come una vita di paghe non corrisposte, di rischi, di contributi mai versati, di promesse non mantenute, di precarietà cronica, di ricatti, di silenzi porta inevitabilmente all'incidente. È una dolente catena di volti il film di Daniele Segre Morire di lavoro, film inchiesta presentato ieri alla Camera alla presenza del presidente Fausto Bertinotti. Una pellicola già prenotata da scuole è sindacati, ma ancora in cerca di uno sbocco nei cinema o in tivù. […] Gli operai raccontano con accenti settentrionali, meridionali, magrebini, balcanici, africani. Per chi non c'è più, una voce fuori campo. Raccontano dei 50 euro al giorno per 12 ore di lavoro. Cominciano che è ancora buio, staccano che è già buio. Senza caschi, guanti, cinture di sicurezza. Li indossano quando si sa che è attesa l'ispezione. Quando arrivano i - rari - controlli a sorpresa, è un fuggi fuggi: “Non dovremmo scappare, loro vengono per noi. Ma se ti prendono, non ti fanno più lavorare”. E poi la paga che non arriva mai: “Ogni volta devi litigare”. Quando c'è l'infortunio, niente ambulanza. A casa: “All'ospedale ho detto che ero caduto attaccando la tenda”. È così se vuoi continuare a lavorare» (L. Liverani, “L’Avvenire”, 13.2.2008).
Scheda a cura di Vittorio Sclaverani
|