«Più che a una storia unica, penso a un collage fatto di vari frammenti. Frammenti di memoria e di immagini che si accavallano nella mente e si coagulano in alcuni luoghi del carcere ove vi stazionano, talvolta indelebilmente talvolta per brevi attimi. Muri, squarci sull'esterno, ma soprattutto piccoli particolari che si ingrandiscono e subiscono metamorfosi sotto l'occhio della telecamera. Non tanto grazie al narrato, che sarebbe un'ulteriore perdita di spontaneità perché filtrato dalla razionalità, ma grazie al semplice occhio che, per quanto già filtro derivato dalla consuetudine, consente una trasposizione più diretta fra emozioni ed immagine”. Questo brano sintetizza bene le intenzioni che stanno dietro a Il mondo chiuso. È tratto da una lettera dei sette detenuti politici che hanno preso parte alla realizzazione di questo video e che si sono prestati a rispondere, aprirsi, confessarsi. Il carcere è tutt'oggi il luogo più spaventoso che essere umano possa conoscere, eppure continua ad esistere e ad essere usato. Ho cercato di gettare un occhio su quelle persone che ci vivono ormai da anni, facendoli parlare, cercando di trasmettere almeno una parte di quello che essi provano, pensano, sentono, vivendo giorno dopo giorno dietro le sbarre. Ho cercato anche di non fare un intervento strettamente carcerario, soffocato da luoghi comuni e dalle banalità di questa realtà. Ho tentato una strada che cercasse di superare i limiti e i pregiudizi. Ho mirato così alle emozioni, ai ricordi, a quel patrimonio umano che dentro un carcere sembra doversi inevitabilmente dissolvere. Ho trovato un mondo chiuso, ma non morto. Il senso stesso di questa esperienza vuole rivendicare che la vita non deve fermarsi, neanche dietro le sbarre» (B. Bigoni, “Il Nuovo Spettatore” n. 11, 1988).