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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Vincere
Italia/Francia, 2009, 35mm, 128', Colore


Regia
Marco Bellocchio

Soggetto
Marco Bellocchio

Sceneggiatura
Marco Bellocchio, Daniela Ceselli

Fotografia
Daniele Ciprì

Musica originale
Carlo Crivelli

Suono
Gaetano Carito

Montaggio
Francesca Calvelli

Effetti speciali
Stefano Marinoni

Scenografia
Marco Dentici

Costumi
Sergio Ballo

Trucco
Franco Corridoni, Patrizia Corridoni, Alberta Giuliani, Francesco Nardi

Interpreti
Filippo Timi (Benito Mussolini/Benito Albino adulto), Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), Fausto Russo Alesi (Riccardo Paicher), Michela Cescon (Rachele Guidi), Pier Giorgio Bellocchio (Pietro Fedele), Paolo Pierobon (Giulio Bernardi), Bruno Cariello (giudice), Francesca Picozza (Adelina), Simona Nobili (madre superiora), Vanessa Scalera (suora misericordiosa), Giovanna Mori (la Tedesca), Silvia Ferretti (“Scarpette Rosse”), Corinne Castelli (“Lacrime”), Patrizia Bettini (cantante), Fabrizio Costella (Benito Albino bambino)

Casting
Sara Patti

Produzione
Mario Gianani per OffSide, Rai Cinema, Celluloid Dreams Productions

Distribuzione
01 Distribution

Note
Art director: Briseide Siciliano; location manager: Flavio Beltrame; collaborazione alla produzione: Istituto Luce.
 
Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Cinema, Eurimages, Provincia Autonoma di Trento, Trentino s.p.a., Film Commission Torino Piemonte
Le immagini di repertorio presenti nel film sono tratte dell'Archivio dell'Istituto Luce.
 
Locations: Torino (ex “Poveri Vecchi”, via Palazzo di Città, Galleria San Federico), Carignano (piazza San Giovanni, casa Lusso, parco comunale di via Monte di Pietà, ex Monte di Pietà), Collegno (TO), Savigliano (CN), Trentino.
 
Ida Irene Dalser - nata a Sopramonte (TN) nel 1880 e morta a Venezia, nel 1937 - ebbe una relazione con Benito Mussolini da cui nacque l'11 novembre 1915 Benito Albino Mussolini, che venne educato in un collegio dei Barnabiti e poi arruolato in Marina; fu internato nel manicomio di Milano Mombello dove morì il 26 agosto 1942.



Sinossi
Nei primi anni del Novecento. Benito Mussolini, giovane direttore del quotidiano socialista “Avanti!”, è deciso a guidare le masse verso un futuro anticlericale, antimonarchico e socialmente emancipato. Accanto al lui c'è Ida Dalser, una donna conosciuta a Trento che lo ama e lo sostiene in tutto, arrivando a vendere quello che ha per aiutarlo a finanziare la fondazione del “Popolo d' Italia”, quotidiano che diventa il nucleo del futuro Partito Fascista. Gli dà anche un figlio, Benito Albino. Tuttavia, quando allo scoppio della I Guerra Mondiale Mussolini si arruola, Ida perde le sue tracce. Lo ritrova sposato con Rachele e a nulla vale la lotta disperata che conduce per affermare i suoi diritti come moglie e madre. Rinchiusa in un istituto psichiatrico e allontanata dal suo bambino, subisce violenze psicologiche che non bastano a fermare la sua lotta ostinata.




Dichiarazioni
«Non credo che Vincere sia un film citazio­nista, le intenzioni erano quelle di mettere insieme una serie di immagini, anche della realtà, che corri­spondessero a quel periodo tumultuoso e veloce. È importante la presenza del Futurismo, del cinema, delle rivoluzioni. In parecchi momenti ho cercato di unificare in singole scene immagini ed elementi cronologicamente frammentati. Anche in un'opera con tematiche così reali e documentate - da libri, ricostruzioni, illustrazioni d'epoca - abbiamo dovu­to comunque rischiare con la nostra fantasia. Il lavoro di accostamento dei materiali è parte integran­te del suo linguaggio. È anche per questa abbon­danza che Vincere è diventato il film più lungo della mia carriera mantenendo però una certa velocità. A me sembrava fosse importante rappresentare il coinvolgimento passionale di Ida e nello stesso tempo l'atteggiamento seduttivo, il piacere puro della conquista, di Mussolini. A questo si aggiunge la dedizione - anche economica - della donna, una devozione che in un certo periodo a lui è servita. Parallelamente vi è l'evoluzione del comportamen­to di Mussolini: l'abbandono di Ida non è un gesto puro di cattiveria, ma il risultato del suo volgere ad altri fini che comporta delle vittime. […] Nella rappresentazione dei rap­porti sessuali Mussolini, insieme al coinvolgimento carnale, sembra guardare oltre, già concentrato sulla realizzazione dei propri obiettivi. Dal momen­to in cui prende il potere ho scelto di raffigurarlo solo attraverso immagini di repertorio. Già nella sceneggiatura sentivo il rischio di passare da Timi al vero Duce, ma mi sembrava interessante che Ida, a distanza di anni, lo vedesse solo proiettato in un cinema. Pensavo che questo passaggio dal finto all'autentico Mussolini - e il terzo atto del piccolo Benito Albino adulto - potesse avere un forte impat­to emotivo. […] Di sicuro abbiamo lavorato sui forti contrasti, sce­gliendo molto spesso luci che vengono dall'esterno. Pur non essendo immagini fredde non indulgono sui colori e non eccedono mai - e a questo abbiamo dedi­cato particolare attenzione - in un Espressionismo che sarebbe stato compiaciuto. Ci sono situazioni, movimenti, parole, espressioni così violente che sottolinearle con una cupezza esibita poteva diven­tare di maniera. […] Daniele Ciprì è un direttore della fotografia che lavo­ra velocemente e con poca luce. Ha rinunciato a tutta una serie di schermi, di ausili tecnici (anche per il modo di girare che avevamo), senza mostrare alcuna attenzione maniacale al dettaglio. Del resto abbiamo tentato di limitare anche gli interventi di trucco per l'invecchiamento dei personaggi. Non abbiamo in alcun modo perseguito la verosimiglian­za a ogni costo. […] Di certo Mussolini è stato il primo a utilizzare in Italia la natura dell'uomo-immagine, con i mezzi che aveva allora a disposizione. Il cinema, i giornali hanno contribuito, con un disegno ben preciso, a ren­derlo quasi una divinità, soprattutto negli anni trion­fali. È un uomo che ha creato il suo potere anche attraverso la propria immagine e questo può innesca­re dei rimandi all'attualità - con tutte le ovvie diffe­renze - che però potranno nascere solo negli occhi dello spettatore, con connessioni non preventivabili» (M. Bellocchio, “Duel” n. 52, maggio 2009).
 
«Ero affascinato da questa proiezione sul soffitto, che poi è uno schermo. Qui ho condensalo due episo­di veri, lo scontro tra le due donne e la visita del Re. A parte la bellezza delle immagini del La passione di Cristo, lì c'è questa idea che Mussolini ferito è come se diventasse il martire, e quindi si riconosce in Cristo, colui che si sacrifica per la Nazione per la liberazione della Patria. Questo, mi pare lo dica Sergio Luzzatto in Il corpo del duce, è proprio il passaggio essenziale di Mussolini: è come se lui scegliesse quell'immagine per imporsi e conquistare il consenso del popolo italiano. […] Ci siamo ritrovati con Carlo [Crivelli] con la massima stima reciproca. Lui, come al solito, ha lavorato da prima dell'inizio delle riprese, e mi ha portato dei materiali alla fine già quasi definitivi. Il suo punto di riferimento è un registro sinfonico molto potente che ricorda un po' certe cose di Sostakovich, di Prokofiev. Poi c'è la grande musica operistica. In Carlo c'è proprio quel tipo di musica del primo Novecento che può corrispondere al futurisrno. E il film è anche un melodramrna proprio per l'abbondanza della musica, che è molto presente. Poi c'è la scena […] di Ida sulla grata con la neve che scende, per la quale invece abbiamo recuperato un pezzo di Philip Glass. Mi vengono in mente molti esem­pi... Si, c'è proprio una presenza della musica molto pesarrte, una musica che ha un suo "peso", ma non in scnso negativo!» (M. Bellocchio, “Cineforum” n. 485, giugno 2009).

«Vincere a deux matrices. La première est le mélodrame italien. Le fascisme comme mouvement politique naît au même moment que le futurisme et, à ses débuts, il partage avec ce courant artistique un ensemble de valeurs: la vitesse, la guerre, le prométhéisme. Le futurisme s'oppose frontalement au mélodrame, qui est récupéré par Mussolini une fois celui-ci installé au pouvoir. Encore récemment, je considérais le mélo comme mineur. C'était réagir à quelque chose qui fait intimement partie de ma formation artistique, tout comme la tra­gédie, qui est la seconde matrice du film. Médée évidemment. Et Antigone. Certe dernière n'est pas punie par Créon, qui représente la loi de l'État, parce qu'elle désobéit et mais parce qu'elle persiste à désobéir et affirme sa fidélité à d'autres lois. De méme, Ida meurt parce qu'elle ne renonce pas à ses principes. Au début du film, son opiniâtreté embarrasse et rend même son personnage antipathique. Il devient sympathique ensuite quand il lui arrive une série de malheurs» (M. Bellocchio, “Cahiers du Cinéma” n. 645, maggio 2009).

 
«In memoria di me di Costanzo è stato perfetto per il mio passag­gio dal teatro al cinema. È un film costruito sul silenzio, un silenzio totale, quasi irreale. […] Marco è un regista coraggio­so. Ha delle visioni e uno slancio quasi sfrontato per raggiungerle. E il coraggio è contagioso. A lui in Vincere non interessava un'imi­tazione del Duce gli interessava il giovane divorato dal fuoco di di­ventare l'uomo della storia, È sta­ta una sfida confrontarmi con un'immagine che appartiene a tutti. Difficile entrarne e ancora più difficile uscirne e l'ho potuto fare entrando anche nel personaggio del figlio, il suo opposto, quella vittima sacrificale, quella specie di cadavere vivente» (F. Timi, “la Repubblica”, 6.10.2009).
 
«Vincere, il titolo del film, non è soltanto un motto della propaganda fascista: penso sia anche la parola d'ordine del mio personaggio. Ida Dalser non ha mai perso. Non ha ceduto al ricatto di chi la voleva sottomessa e silen­ziosa. Da questo punto di vista, credo di poter dire che il suo personaggio sia quasi un archetipo: non ha epoca, può appartenere a qualsiasi momento storico, incarna le ragioni del cuore e del sentimen­to contro la ferocia della ragion di Stato... […] In fondo è una donna che persegue con caparbietà un unico fine: quello di ricongiungersi con l'uomo che ama e che l'ha tradita, quello di veder riconosciuti i diritti del proprio figlio. Ricostruendo la sua storia, facendola riemergere dall'oblio in cui era stata volutamente nascosta, credo che Marco Bellocchio abbia realiz­zato un'opera profondamente e radicalmente antifa­scista» (G. Mezzogiorno, “Duel” n. 52, maggio 2009).





«All'inizio è un corpo. Corpo che freme e ringhia, che sanguina e copula, che pulsa e si gonfia. Poi si iconiz­za e diventa un'immagine: prima fotografica, poi fil­mica, in bianco e nero, senza più sangue, ma ancora con la capacità di pulsare e urlare e fremere e rin­ghiare anche dentro il rettangolo stretto dell'inqua­dratura. Alla fine diventa una statua. La testa di una statua. Né carne né ombra, ma pietra. La testa marmo­rea del Duce su cui Marco Bellocchio chiude Vincere è il punto d'approdo terminale di un lavoro sul corpo mediale del Capo che è tra le cose teoricamente più esplosive che il cinema italiano abbia mai realizzato: al contempo microfisica del potere e antropologia del dominio, semiotica della comunicazione di massa e fenomenologia del machismo italico. Non è un film perfetto, Vincere. Ma nonostante que­sto (o, forse, proprio per questo) è un capolavoro. Anche quando sbanda e tentenna, anche quando prende tempo, o lo perde. Perché tra le righe dello straziante mélo di Ida Dalser, e del suo amore impos­sibile per un fantasma di pietra, Bellocchio scrive un lucido, dolce e feroce atto d'accusa nei confronti dell'eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione - antropologica prima ancora che psicologica, ideolo­gica o sociale - fatta di ribellismo anarcoide e succube servilismo, di velleitarismo arrogante e tracotante narcisismo (ricordate Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda?), di odio nei confronti del diverso e disprez­zo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgi­ti collettivi che portano buona parte dei maschi ita­liani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o si illude ci siano altri, possibili modi di amare. […] C'è tanto cinema, in Vincere. C'è I'Ejzenštejn di Ottobre - I dieci giorni che scon­volsero il mondo e il Chaplin di Il monello, c'è il Blasetti di Vecchia guardia e l'Antamoro di Christus. Non solo: quasi tutte le scene-madri si svolgono al cinema, quasi a suggerire che è lì, nel luogo nove­centesco in cui la realtà si rende visibile attraverso i suoi simulacri, che si scatenano le contraddizioni e si aprono i conflitti» (G. Canova, “Duel” n. 53, giugno 2009).
 
«In una delle sequenze iniziali di Vincere il giovane Benito Mussolini, quasi agito da un presentimento irrazionale del proprio destino, si alza nottetempo dal letto e, completamente nudo, si espone al balco­ne di fronte alla piccola piazza vuota, prima che la sua amante Ida Dalser lo copra con un lenzuolo. Si tratta di un episodio che bene illustra come uno dei territori privilegiati da un'opera eccezionalmen­te stratificata e complessa per dispiegare il proprio potenziale significante sia rappresentato dal corpo di Mussolini. Un corpo interessato da una radicale mutazione, che finisce per condensare le trasfor­mazioni a cui si sottopose - o che fu costretto a subi­re - un Paese intero. Dapprima, quando è ancora un rivoluzionario attraversato da violente passioni e imbevuto di sinceri ideali, Mussolini è un uomo di carne (e sangue: non a caso lo vediamo per tre volte ferito). Esaurita questa prima fase, però, la conqui­sta del potere e l'abbandono di ogni connotazione privata costringe a rielaborarne la percezione non­ché la natura profonda, investita da un inevitabile processo di iconizzazione. […] Così quando Mussolini è ormai il Duce, monumento alla propria arroganza, immagine codificata e simbolo consolidato, può esi­stere in qualità di corpo mobile solo nell'imitazione del figlio. Egli è già caricatura di se stesso, grottesca macchietta condannata a reiterarsi all'infinito, sem­pre uguale, imprigionata in un repertorio di gesti, occhiate, scatti, sottolineature» (M. Toscano, “Duellanti” n. 53, giugno 2009).
 
«C'è qualcosa di fondamentale che deve accadere nel Mussolini secondo Bellocchio. Qualcosa che il film suscita, cerca di suscitare, nell'esperienza dello spettatore combinando la fiction e i documenti, sovvertendo la percezione convenzionale di entrambi. Ida Dalser ama Mussolini che ama il potere che ama la comunicazione della potenza che ama la devozione assoluta dell'amore subordinato. Da qui, il circolo ricomincia. Le due strade sono chiare e opposte. Da una parte il potere che va, dall'altra l'amore che soccombe. Cresce il dominio, diminuisce la verità. Ai due poli, ovviamente il destino è identico: la morte. Prima quella di Ida. Poi quella del Duce. […] Per Timi, una sfida vera. La sua interpretazione di Mussolini da giovane, fuori dall'ingombro dei tratti, è essenziale in questo percorso, recupera verità nell'energia, nei tempi, nell'interiore fede di cui si è appropriato l'attore, che si abbandona alla sua dotazione libidica per pareggiare i conti con l'esuberanza e l'esaltazione del Duce. La Mezzogiorno, che non perde taluni difetti d'impeto e credulità, mette in curriculum forse la sua migliore interpretazione. La ricostruzione della vicenda privata nel getto della Storia, in un passo di montaggio che combina costantemente filmati d'epoca e un' accurata e insieme immaginosa”verità", diventa un attraversamento poliedrico del fascismo nei nodi fondamentali della personalità dell'uomo che determinò quel regime e le sue scelte. L'accento onirico che si sente nella luce di violenti contrasti (fotografia di Daniele Ciprì) ci lascia nella sospensione di una passeggiata secolare e insieme di materiale tragicità» (S. Danese, “Rivista del Cinematografo” n. 6, giugno 2009).
 
«L'onnipresenza del connubio tra immagine, scrittura e tempo in Vincere articola un itinerario interpretati­vo scomposto in fasi concentriche. Dal contesto politi­co-culturale si procede verso una componente più interna legata all'arredo scenografico del film, per poi arrivare a toccare la zona intima della confessione del vissuto. In altri termini, la grafomania dell'opera di Bellocchio cattura inizialmente la superficie schermi­ca, permea di sé l'intero apparato scenico e si compie infine attraverso l'espressione individuale, vale a dire mediante il corredo di parole stilate, abbozzate o sca­rabocchiate direttamente dai protagonisti. Sulla pelli­cola, oltre alle didascalie finali (che informano sulla sorte dei personaggi descrivendone in successione il destino tragico immediatamente prima della com­parsa stridente del titolo) e ai cartelli che fissano le coordinate spazio-temporali della vicenda, si impon­gono "voci" e motti in sovrimpressione. Dal grido “Avanti popolo!” a “Guerra, guerra, guerra!” gli stril­li creano con le immagini sottostanti una miscela di contorni, figure e movimenti in grado di offrire uno spaccato rilevante del periodo» (I. Moliterni, “Duellanti” n. 53, giugno 2009).
 
«Medea, dice Bellocchio della sua Ida Dalser. Come Medea ha lasciato tutto alle spalle, non ha salvato niente, né beni materiali né tracce di identità, di autonomia di donna; ha un figlio, ma - come Medea - l'amore per lui non basta a salvarli. È il femminile la condanna, è la passione assoluta, il calore del sangue a dannarla. Il materno urla in lei ma va oltre il figlio, è quell'unico uomo a esserle amante e figlio (gli allaccia le scarpe, lo sguardo adorante) e il bambino segue da sempre la madre, ne incorpo­ra l'assoluto fino a dannarsi - lui sì - nel marasma, nella confusione mentale, gravato dal destino di figlio rifiutato che porta all'estremo il rifiuto, nella maschera violenta e caricaturale del padre, del dit­tatore. Una storia tremenda, vera, quella di Ida Dalser, che ricalca Medea, l'eroina tragica, e ne ripete la "terribilità", come scrive Kerényi citando Euripide: il divino in lei domina, non ha mediazioni umane rispetto a un assoluto che la porta altrove, se non nella profondità del soffrire. […] Storia antica, come quella di Medea, la vicenda di questa donna vittima e prota­gonista dell'incantesimo dell'amour passion, ma anche dell'irriducibilità della passione per l'assoluto. Estrema come vicenda, porta traccia della vita di tante donne anche oggi, ma più ancora nel film è una storia personale che racconta una Storia collet­tiva. […] Lei lo segue, fa propri i suoi ideali, vende tutto per aiutar­lo, gli si dà bruciando tutto alle spalle, come Medea con Giasone, come i milioni di italiani che andran­no a morire […] Ida non è solo la donna che pretendeva in modo ostinato che venisse riconosciuta la verità, ma diventa anche la metafora collettiva dell'origine delle dittature, della distorsione della realtà, della menzogna che annulla, ridicolizza, costringe al silenzio chi non si arrende, tratta come pazzi e visionari gli oppositori» (L. Ravasi, “Duellanti” n. 54, luglio-agosto 2009).
 
«L'onirico è la chiave interpretativa di Víncere, l'opera in cui Bellocchio, nel segreto rigore del gioco degli scacchi, raggiunge il massimo di espressività e riassume tutto il possibile immaginifico di un cinema politico, connotando per reale la finzione e per finzione il grumo realistico dei fatti. Il “nero d'incisione” della fotografia di Daniele Ciprì, frantumata di impasti coloristici dal bruno al marrone, sottolinea lo stato di allucinazione, la scelta del sogno come tema, del sogno che sfiora l'incubo di un reale, che precipita nell'abisso dell'inevitabile, visto come una catena perturbante che gioca col tempo, mostrando fatti futuri, in un tempo reversibile. Nei piani sfalsati di un racconto allegorico, Mussolini e Ida Dalser sono “proiezioni” nel tempo, sono ragionamenti di uno slargo storico, feticci di una tragedia che avanza. […] Bellocchio lavora sugli elementi base del cinema, semioticamente definisce la sua poetica a partire dalle immagini filmiche, attraversa le emozioni, usando la scritturafilm - Chaplin del Monello - e scrive, con i documenti d'epoca e le testimonianze dirette dei cinegiornali, usan­do la tecnica del montaggio, come trait-d'union tra pensiero e ragio­ne. Questo pragmatismo determina la forma poetica e immette lo spettatore dentro un mondo visionario, dove le proiezioni costituisco­no l'immanenza della realtà» (E. Bruno, “Filmcritica” n. 596/597,  giugno-luglio 2009).           
 
«Benito imitava le smorfie e gli atteggiamenti di Maciste (vediamo, a un certo punto, uno spezzone di Maciste alpino), per fare colpo, dal balcone, sulle folle plaudenti, così come Hitler provava i suoi discorsi davanti allo specchio, senza aver paura di farsi fotografare mentre stu­diava le pose più adatte. Benito Albino imita il padre, su richiesta degli amici: ne fa una specie di caricatura, ma si sente che avrebbe voglia d'esserne riconosciuto. Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno) non imita nessuno, ma si immedesima e piange con Charlot, a cui insensibili burocrati stanno portando via il Monello […] Ombre tra ombre, ombre che guardano ombre. Passioni e senti­menti stanno per diventare atteggiamenti, pura scena. Del resto, siamo nel paese del melodramma, del Ballo in Maschera, e Bellocchio lo sa bene […]. Perfino la vittoria è una Canzone (del Piave). Retorica. Riempire le piazze, studiare le scenografie. Annunciare l'entrata in guerra nel modo più suggestivo. I politici diventano attori (poi gli attori diventeranno politici), mentre la mano­valanza dei picchiatori si occupa del lavoro sporco; ma bisogna pren­dere atto che, nel novero della manovalanza, occorre iscrivere anche nomi di psichiatri e illustri clinici. […] Ida Dalser non era pazza, anche se è probabile che, sottoposta a quel trattamento, in seguito lo sia diventata. Ma la grande intuizione di Bellocchio sta nel farle gridare pazzamente le ragioni della verità» (A. Cappabianca, “Filmcritica” n. 596/597,  giugno-luglio 2009).           
 
«Mentire, annien­tare, cancella­re. Per Benito Mussolini di­ventare il Duce significa anche questo, un pro­cesso sperimentato su una don­na prima che sull'intero Paese. La storia di Vincere, il film di Marco Bellocchio, ieri in con­corso al Festival […], è la cronaca di una violenza privata che si specchia in quella pubblica, nazionale, universale. […] L'intero film vive sull'intrec­cio tra le immagini dei documen­tari d'epoca e la finzione rico­struita nello stile del tempo, Mezzogiorno sembra fatta ap­posta per il ruolo di quella che Bellocchio ha definito un'eroina scomoda, mentre Filippo Timi esprime nella prima parte la ca­rica sensuale del Mussolini gio­vane. Alla fine lo ritroviamo nei panni del figlio adulto che imita il Duce seguendone i discorsi pubblici, i toni iperbolici, i tic compiaciuti. È l'unica eredità ricevuta da quel padre indegno. Lo specchio di un tradimento, lo stesso perpetrato nei con­fronti dell'Italia intera. La sce­na di Ida arrampicata sulle gra­te del manicomio, sospesa sui fiocchi di neve come se la soffe­renza l'avesse già spinta su, nel­l'alto dei cieli, è destinata a stamparsi nella mente, così co­me gli occhi pieni di lacrime con cui la malata immaginaria se­gue, nella casa di cura, un film con Charlot e il suo monello» (F. Caprara, “La Stampa”, 19.5.2009).
 
«A Cannes Vincere di Marco Bellocchio è piaciuto molto più alla stampa este­ra che agli scribi italiani. Già di per sé questo sarebbe un titolo di merito, ma ce ne sono altri: la scelta di dare a una vicenda a base storica un taglio da melodramma musicale; la fotografia rabbuiata di Daniele Ciprì; le interpretazioni di Giovanna Mezzogiorno […] e di Filippo Timi […]. Resta che il film, sempre di grande bellezza formale, imbocca stilisticamente troppe strade. A noi sarebbe piaciuto un empito operistico mantenuto sino alla fine» (A. Levantesi, “La Stampa”, 22.5.2009).
 
«Di questo film non so molto, perché non siamo stati consultati. Ci sarebbe piaciuto, ma l'arte è giustamen­te libera. Storiograficamente non è una vi­cenda che ha una lettura univoca. Vedremo come Bellocchio l'avrà resa In ogni caso. […] mio nonno era il primo a dire: parlatene bene o male purché ne parliate. Quindi, an­che se l'effetto del film sarà negativo, co­munque è positivo che sia stato realizzato» (A. Mussolini, “La Stampa”, 24.4.2009).
 
«Come nelle precedenti pellicole, anche questo nuovo lavoro di Marco Bellocchio sembra confermare la sua predilezione per l’uso di immagini d’archivio, non solo per contestualizzare storicamente le vicende […], ma più fortemente per arricchire la configurazione stessa del film, mettendo costantemente in relazione critica due flussi visivi: le scene nuove e il materiale preesistente. Si assiste, così, a una costruzione connotativa, che, se pur non costituisce un elemento di novità in Bellocchio […], certo assume in Vincere un carattere di originalità. Infatti, le immagini extradiegetiche, nel loro processo di attrazione con quelle propriamente narrative, slittano spesso da un accostamento di tipo diacronico, ovvero in successione, a uno di tipo sincronico, annidando un quadro nel quadro. Di certo un piccolo tributo al montaggio intellettuale, esplicitato, peraltro, con la citazione diretta a Ottobre di Ejzejstein. […] In quanto alla struttura del film, emerge chiara una forma bipartita, segnata da una netta cesura: il giovane Benito, interpretato da Filippo Timi, scompare nella seconda parte, quando il Mussolini fascista conquista il potere, e la sua figura compare soltanto nelle immagini d’epoca, quasi a segnare una separazione ancora più profonda tra le sorti di Ida e quelle dell’ormai inarrivabile duce. […] Il quadro filmico crea allora una doppia profondità, una per separare, l’altra per avvicinare. […] Ed è calcando così i risvolti psicologici del sistema fascista che il regista finisce per accennare al potere ambiguo della stessa immagine filmica, quel suo uso propagandistico che de-potenzia e annichilisce ogni voce contraria. Un’operazione troppo vistosamente simile a quella contemporanea dei politici/showman per non essere notata, in cui la manipolazione dell’immagine e la sua invasività permettono di raggiungere e controllare il potere anche senza coercizione esplicita. […] Tornando alla portata meta-cinematografica di Vincere si nota, poi, un ultimo stadio, perché Bellocchio, oltre alle immagini di repertorio, ci fa assistere ripetutamente a quello “spettacolo” che era il cinema nei primi decenni del secolo. La messa in scena della proiezione, con accompagnamento musicale dal vivo, si delinea così quale oggetto tematico vivo, smarcandosi, dopo avervi accennato, da ogni approccio nostalgico o didascalico. Il suo interesse sembra piuttosto declinare verso un rinnovato e sapiente uso della colonna sonora, possibile anche grazie alla riconfermata e proficua collaborazione con Carlo Crivelli. Il compositore romano esibisce uno stile minimalista, alla Arvo Pärt, che sembra interagire con quel travaglio che il personaggio principale esprime nel gridare la propria verità» (G. Ariola, www.effettonotteonline.com, 2009).
 
«L'aveva detto lui stesso che Vincere sarebbe stato un melodramma dal ritmo futurista. E così è. Un melodramma che procede su due piani: quello storico, che prende le mosse dai movimenti interventisti e irredentisti nel primo decennio del Novecento. E il piano privato: quello dell'amore di Ida Dalser per il Mussolini socialista direttore de “L'Avanti”. I due interpreti, Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno, davvero notevoli offrono un apporto fondamentale a tutto l'impianto drammaturgico. […] Una pagina di storia dimenticata, anzi cancellata - il fascismo fece sparire tutti i documenti - che Bellocchio ci riconsegna come un testimone. Perché hai voglia a dire - come ha fatto fin qui il regista - di non aver voluto raccontare il fascismo pensando al presente. Andate al vedere il film e vedrete quante analogie con l'oggi. Solo che allora le mogli scomode venivano nascoste e cancellate, oggi invece vengono “crocifisse” sui giornali con il seno scoperto» (G. Gallozzi, “l'Unità”, 19.5.2009).
 
«Due Mussolini, uno vero e uno finto, ma spesso sorprendente grazie a un Filippo Timi sulfureo e perfino simpatico. Due parti, una dedicata alla “preistoria” del duce, prima e durante la Prima guerra mondiale, una al tiranno trionfante. Due vittime, Ida Dalser e suo figlio Benito Albino Mussolini, il figlio avuto dal Duce […]. E naturalmente due epoche: quella narrata dal film e la nostra, che scorre in filigrana dietro i riferimenti e le citazioni dirette dall’arte, dal cinema, dalla propaganda degli anni Dieci e Venti. Se ogni film in costume parla anche e soprattutto del momento storico che lo ha visto nascere, Vincere porta questo procedimento all’estremo. Ogni immagine (la foto sapientissima è di Daniele Ciprì) è densa e stratificata come una pittura che nasconde e accoglie altre stesure. Ma non è gusto della citazione o della rilettura di un’epoca attraverso i segni del tempo, procedimento che potrebbe perfino essere accademico. È confronto, ricerca, officina formale, analisi storica e politica. Come se la vicenda così esemplare ma fino a ieri dimenticata di Ida Dalser, ricostruita con andatura quasi a strappi dalla sceneggiatura antinaturalistica di Bellocchio e Daniela Ceselli, riflettesse in qualche modo la parabola di una nazione intera. Non la storia “ufficiale”, ma quella sotterranea di un paese che non si ama e ha il culto cattolicissimo del proibito, del clandestino, nel pubblico come nel privato. Quindi è pronto a farsi sedurre, a perdonarsi e a dimenticare, come un bambino che sostituisce la fantasia alla realtà, la promessa del piacere alla certezza del dovere. E magari passa la vita a illudersi, salvo svegliarsi quando è troppo tardi» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 22.5.2009).
 
«Bellocchio non è mai stato un regista realistico. Fin dai tempi dei Pugni in tasca i suoi interni borghesi sono sedute psicoanalitiche, o danze macabre che mettono in scena un unico, grande Tema: la repressione politica e psichica dell'individuo da parte delle istituzioni. Solitamente i suoi personaggi sono in lotta contro il potere e contro la storia. Il salto di qualità di Vincere - che sale, con L'ora di religione e il citato I pugni in tasca, sul podio del suo cinema - è che stavolta i personaggi sono due, uno (Ida) è la vittima e l'altro (Mussolini) è il grande manipolatore, l'uomo che intuisce i meccanismi del potere e li utilizza per instaurare una dittatura a livello sia politico che familiare. In questo senso il massiccio uso del repertorio non è accessorio, ma è l'anima profonda del film. Il filmati d'epoca diventano l'inconscio dei personaggio, i sogni selvaggi di lui, gli incubi repressivi di lei. La montatrice Francesca Calvelli ha fatto un lavoro degno di Dziga Vertov: di tanto in tanto i filmati Luce vengono ristrutturati per comporre una verità inedita, nello stile delle Kinopravde della vecchia Urss. Ha ragione Bellocchio quando afferma che il film ha un ritmo futurista, ma è il futurismo alto di Majakovskij, non quello reazionario di Marinetti. E comunque, quando Ida rivive il proprio dramma di madre piangendo davanti alle immagini di Charlie Chaplin e di Jackie Coogan, è inevitabile piangere con lei. Vincere vola alto: è una riflessione su tutte le forme di potere che azzerano l'individuo» (A. Crespi, “l'Unità”, 20.5.2009).

«Se nella prima ora la straordinaria prova degli attori principali - Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno - sa trasmettere ai pubblico il misto di passione e narcisismo che guida il futuro Duce anche nei comportamenti privati e lo struggimento incosciente di una donna che si concede totalmente a quello che crede un grande amore, nella seconda parte il film cambia registro affidando solo ai cinegiornali il resoconto della carriera politica di Mussolini e documentando con rigore, ma anche con freddezza, l'odissea della donna rinchiusa dai fascismo nei manicomi di Pergine e San Clemente. I grandi temi della carriera di Bellocchio si possono ritrovare in larga parte dentro Vincere, dal peso della figura paterna, autoritaria e lontana, allo sbandamento rabbioso di un figlio che si vede privato prima di uno e poi dell'altro genitore fino alla ribellione impotente della donna che paga l'aver dato ascolto alle proprie passioni rifiutando ogni “finzione” razionale. Anche stilisticamente, il gusto visivo per i chiaroscuri (come sempre con predominio degli scuri sui chiari) attraversa tutto il film, grazie soprattutto alla bellissima fotografia di Daniele Ciprì. Mentre negli ambienti si ritrovano i “labirinti domestici” dove l'orientamento (e la via di fuga) è sempre problematica […] proprio la parte politica alla fine finisce per schiacciare il nostro interesse per la storia della Dalser e di suo figlio, grazie al montaggio di Francesca Calvelli che fonde perfettamente immagini di repertorio e musica, questa sì l'unico elemento davvero melodrammatico in un film che, dopo questa prima visione, ci sembra prediliga la Storia alla Passione» (P. Mereghetti, “Corriere della Sera”, 19.5.2009).
 
«Dal buio emergono indistinte figure "in marcia". Intanto, rivolto a Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno), Benito Mussolini (Filippo Timi) fantastica sul proprio futuro, sicuro di una grandezza che oscurerà Napoleone. […]. Poi la macchina da presa torna sulle figure in marcia: sono ciechi guidati da ciechi. Bastano queste immagini a dirci quel che non è, Vincere […]. Non è una storia d'amore, come qualche distratto suppone. Certo, Marco Bellocchio racconta l'amore e il desiderio fra il capo del fascismo e la sarta di Trento. E racconta come la loro relazione, con il figlio che ne venne, fu nascosta dalla complicità vile di ministri, prefetti, medici, religiose. Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi. Ombre è il bianco e nero di cinegiornali e film che passa sgranato sulle immagini a colori, spaesante come un fantasma che la coscienza non abbia voluto dissolvere. E ombra è la memoria sbiadita di quegli anni. Della memoria, alla fine, racconta il film: di una memoria perduta in immagini che nel tempo si son fatte mute.  […] “Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori”, consiglia a Ida un medico. Il Paese è muto e sordo,compatto nell'annullamento d'ogni libertà e pietà. Conviene aspettare. Conviene nascondersi. Ma come può nascondersi chi voglia esser riconosciuto e insieme voglia servire? A lui tocca una sorte di morte, come a Ida e a suo figlio. E agli altri? Agli altri tocca la sorte dei ciechi che s'affidano a un cieco. Lo testimoniano le immagini che chiudono Vincere: una città nera del buio della notte e accesa dal bagliore delle bombe» (R. Escobar, “Il Sole-24 Ore”, 24.5.2009).
 
«Qualche aggancio col presente, con il muro mediatico che si è alzato contro una moglie che ha detto basta al matrimonio con l'uomo che oggi in Italia è il più amato, il più ricco, il più ubbidito, il più potente? Sarebbe un'esagerazione, anche perché la storia, tutta la storia, è piena di donne che la ragion di Stato ha sacrificato alla vanità e ai capricci del principe ma anche di donne che sul principe e la sua corte hanno finito col prevalere. Il Mussolini gagà di Filippo Timi è un po' caricaturale, anche se volutamente i baci appassionati paiono quelle dei film con Rodolfo Valentino, la Ida di Giovanna Mezzogiorno è commovente» (N. Aspesi, “la Repubblica”, 19.5.2009).

«Il pericolo di interpretazioni equivoche lo si fuga guardando il film. Il paradosso anzi, è proprio qui. Nel centenario del futurismo Bellocchio confeziona un film futurista, dalle forme splendide, con i motti futuristi che lampeggiano e corrono sullo schermo alla maniera delle didascalie dell'epoca separando una situazione dall'altra. Ecco, in questo senso forse va letto Vincere, che più che un film da raccontare è un'esperienza visiva completata da quella visiva, con le musiche di Carlo Crivelli che descrivono uno scenario metafisico e surrealista, richiamando alla mente le musiche contemporanee di Ligeti (con ossessivi cori di archi ai posto delle voci) o di Goffredo Petrassi. Il risultato è un prova di insieme quasi da trip allucinato e allucinante in cui questa Antigone (come l'ha definita il regista stesso) ondeggia nell'acquario di un Bellocchio che sembra quasi un Fellini inquieto, ma perennemente alla ricerca - com'è nel suo stile - di un cinema che si fondi su “immagini nuove”» (W. Vescovi, “Il Secolo d'Italia”, 20.5.2009).

«Marco Bellocchio continua a battere sui nervi tesi della storia italiana, e lo fa con coraggio e senza sconti (nemmeno a se stesso), con una generosità che gli riconoscono più i critici stranieri che non gli italiani. […] Bellocchio sceglie la strada del melodramma, privilegiando così nell'intento la follia amorosa a quella storica. Questa seconda la lascia raccontare per intero ai documenti dell'Istituto Luce che da metà film in poi sostituiscono completamente la parte del duce-finzione con quello reale. Nell'opera si crea una frattura tra la potenza dell'invenzione e la freddezza del documento. Frattura che non si sana e che - a nostro avviso - impedisce la nascita del capolavoro. Ma poco importa, la densità di Vincere rimane in gran parte intatta. Rafforzata proprio dal soggetto, dal disvelamento storico, dall'intenzione - peccato, poi tradita - di vedere la grande tragica storia di un paese attraverso gli occhi di una piccola, fragile, potentissima, innamorata, tragica donna che alla fine delle sue pene è capace di scrivere al suo Benito: “Va' là Duce che sei solo un pover'uomo”» (R. Ronconi, “Liberazione”, 20.5.2009).

«Vince solo il regista che ha fatto un gran film diverso da tutti, innovativo, dinamico, affascinante. Nuovo narrativamente […]. Nuovo stilisticamente: è perfetta la fusione tra film e documenti visivi del primo Novecento; è magnifica la maniera in cui l'autore illustra la cultura pre-fascista con un'esattezza che diventa satira; è divertente il suo modo di raccontare il giovane Mussolini socialista-interventista-fascista, esemplare trasformista all'italiana e di accompagnare il ritmo veloce degli eventi con grandi scritte esclamative alla futurista. Sono bellissime le scene di passione carnale tra Mussolini e Ida, venate di brutalità. E bella l'atmosfera precedente e seguente la guerra. […] Gli attori sono impeccabili: Giovanna Mezzogiorno esprime bene la coerenza ostinata e orgogliosa di Ida Dalser; Filippo Timi, che interpreta Mussolini giovane e suo figlio adulto, è bravissimo. Ma non c'è dubbio che il più bravo sia e continui a essere Marco Bellocchio» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 20.5.2009).

«Ida è una donna dalle reazioni esplosive, incapace di accettare compromessi. Disconosciuta, sorvegliata, pedinata, non si arrende, protestando la sua verità, scrivendo lettere a chiunque: alle autorità, ai giornali, al Papa. Rinchiusa in manicomio lei - in un istituto il bambino - per oltre undici anni, tra torture e costrizioni fisiche, non ne uscirà mai più e mai più rivedrà suo figlio, a cui toccherà la stessa disperata sorte di esistenza cancellata. Bellocchio racconta il giovane Mussolini; visto con gli occhi dell'amante Ida, mescolando sogno e follia. Il corpo del giovane Mussolini guizza furente e occupa lo schermo, vestito da rivoluzionario o nudo nelle notti dell'amore. Il regista lo guarda con gli occhi appassionati della sventurata Ida Dalser […], una delle donne che lo amò sino a farsi male. […] Vivere è un film esasperato e imperfetto, ma affascinante per la forza con cui Bellocchio mescola l'ora di storia e l'ora di religione, il sogno e la follia. Nell'Italia di ieri i matti non furono slegati; e per il domani non si sa» (C. Carabba, “Corriere della Sera Magazine”, 28.5.2009).
«Un film assai elaborato, complesso e stimolante, ancorché alterno sul piano dell'emozione e della comunicativa; ma certo un film dotato di una cifra stilistica rara e raffinata. Vincere conferma, innanzitutto, come Marco Bellocchio da una parte resti fedele ai temi-chiave della propria personalità artistica (l'autoritarismo delle istituzioni e la rabbia antiborghese) e dall'altra tenda sempre a rimettersi in gioco, sperimentare, provocare cortocircuiti tra gli input della storia e della realtà e quelli dell'immaginazione e dell'iconografia. La sfida del film sta tutta nel sottile, arduo equilibrio che si stabilisce tra narrazione e/o finzione, inserti documentaristici e riflessioni personali ad ampio spettro metaforico. […] I riferimenti […] sono indirizzati all'estetica futurista (soprattutto per quanto riguarda i principi della scomposizione del colore e della forma), ma anche ai valori plastici del cinema muto sovietico e alla dinamica del montaggio di Ejzenstejn: la fotografia di Daniele Ciprì, in questo senso, conferisce al tutto un magico “tempo sospeso”» (V. Caprara, “Il Mattino”, 23.5.2009).
 
«In Vincere Marco Bellocchio racconta da quali infamie possa essere segnata l'esistenza di un vincente […]. Ma, nonostante tutto, la storia straziante e crudelissìma come un'opera lirica italiana non è l'elemento più interessante del film di coproduzione ítalo-francese: piuttosto, lo stile è nuovissimo, dinamico, divertente. […] Per Giovanna Mezzogiorno è sinora la migliore prova d'attrice; Filippo Timi, che interpreta Mussolini giovane e il figlio adulto, è bravissimo. Un'immagine indimenticabile la donna arrampicata sull'inferriata del manicomio, tra la neve, che getta all'esterno, senza speranza eppure sperando sempre, le infinite sue lettere al papa, alle autorità, ai parenti, all'assassino suo e d'Italia, Mussolini» (L. Tornabuoni, “L'Espresso”, 28.5.2009).
 
«È quasi il Novecento di Marco Bellocchio. Non un affresco epico contadino, bensì un duetto “da camera” metropolitano, di oltre due ore. Una tragedia rigonfia di passione e sentimento, come un mélo di Raffaello Matarazzo, mai di sentimentalismo. Vincere è un poema dark sul duplice omicidio legalizzato, mandante il duce, di Ida Dalser e Benito Albino Mussolini. Ovvero la moglie e il figlio “segreti” annichiliti con ferocia terragna dal leader massimo del fascismo. Eppure a “vincere”, irreversibilmente, è stata propria Ida. […] Il film è la metafora di come un intero paese fu diseredato, cancellato dalla vista e dai mass media, reso sadicamente impotente, con l'uso di squadracce psicotiche. Fu isolato, scisso, internato e disfatto nella mente. Infine “assassinato”. E le donne subirono una sorte ben peggiore, congelate vive e mostruosizzate nel loro innaturale ruolo di “casalinghe”, “madri”, piccole italiane e “credenti”. […] Insomma il film racconta un misfatto di cronaca politica per decenni tenuto nascosto o rimosso. Finché a gettare la prima luce sulle sensazionali rivelazioni dei primi anni 50 considerate fantasie o bieca propaganda rossa fu il libro di Marco Zeni (2000) e il bellissimo documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, Il segreto di Mussolini (2005), voluto da una fronda intelligente che ancora si aggira per i sotterranei della Rai. Il documentario, cui Bellocchio deve tutto dal punto della sostanza conoscitiva, fu venduto ovunque, perché scodella prove, testimoni, moventi, “senso”, carte e responsabilità di quel doppio calvario. […] Strana quella dittatura ritagliatasi, a poco a poco, elezioni impresentabili dopo elezioni farsa, leggi disgustose dopo leggi aberranti, dentro una monarchia, a sua volta controllata da una teocrazia. E oggi?» (R. Silvestri, “il manifesto”, 20.5.2009).
 
«Vincere è figlio della tradizione che mira alla modernità. Cinema rivoluzionario e sornione, a suo modo di verdia­na musicalità, che scava nel passato non per accomodarvisi, semmai, ove possibile, per ribaltarlo. Bellocchio forse sarebbe stato anche un grande compositore di poemi sinfonici e di musica a programma. Vincere spri­giona la densità e la viscosità di tutto il suo cinema precedente, in bianco e nero o in tinte smaglianti, come una tela ad olio o ad acquerello. Stratificante è la dialettica tra primi piani e campi lunghi, privato e pub­blico, interni ed esterni, finzioni e "reperti". E le parole vanno di pari passo, incastonandosi negli impasti cromatici con l'esattezza di un intar­sio: non solo nella foné, s'intende, ma negli umori e nei significati. In un rigoglio di scarti logici e di virate brusche tipiche, che attesta la piena del sentire e dà al cinema una frantumata consequenzialità: sonora, pittorica, filmica> appunto» (L. Lardieri, “Filmcritica” n. 596/597, giugno-luglio 2009).
 
«”Questo è il tempo di tacere, di essere attori. Oggi bisogna essere grandi attori. Il suo personaggio deve essere la massaia, la brava fasci­sta, anche per suo figlio" con fermezza, lo psichiatra del San Clemente suggerisce ad Ida […] la menzogna, l'ipocrisia, il passaggio dalla realtà insostenibile alla finzione consolatoria. Le consiglia non solo di assumere una parte, ma anche la parte del­l'unico personaggio che lei si può permettere di interpretare senza pericolo, le raccomanda di recitare il silenzio e la rassegnazione; del resto, anche Benito […] interpreta un ruolo: è il ruolo di un personaggio di potere, con un'evidente origine cinematografica, quel­la dell'eroico Maciste che vediamo in uno spezzone di film mentre si diverte a prendere a calci alcuni ufficiali austriaci» (I. Gatti, “Filmcritica” n. 596/597, giugno-luglio 2009).
 
«Per buona parte del film lo sguar-do è circospetto e cospirativo: lo spazio è diviso in piani di profondità, il punto di vista è collocato negli interni, gli eventi osser­vati dall'oscurità, i personaggi visti di spalle, quasi titubanti di fronte alle accelerazioni della storia. I fatti stanno sul fondo, in luce sì, ma a dominare è il buio del primo piano, sono le barriere, i muri, le finestre, le grate, i porticati che in qualche modo separano l’atto del guardare dall'oggetto della testimonianza, in un continuo, sofferto e umano, confronto tra l'inquietudi­ne soggettiva e il precipitare della tragedia. In questa distanza, che da spaziale diventa introspettiva, si materializza la riflessione che il cinema fa di se stesso circa i limiti della rappresentazione e la veridicità della messa in scena. Qui non si tratta, infatti, di ricostruire la storia quale situazione prettamente realistica, ma piuttosto di interpretare singolarità, attese, emozioni, toccando diversi campi di significato: quello materiale senza dubbio, perché la collocazione scenografica è comunque inevitabile, ma anche quelli culturale, ideologico, estetico, psicologico Perciò il film di Bellocchio contiene un problema di stile, e, tra le tante domande, quelle foudamentali che riguardano le maniere di riprodurre vicende orinai depositate con abbondanza in testi e documentazioni storiografiche, il ricorso al fantastico e alla costruzione narrativa, l'inevitabile pressione del presente e del lavoro di autocoscienza autoriale, l'esperienza cinematografica dello stesso regista. Il fascino del film sta anche in questi tracciati interrogativi, che sono necessariarnente chiaroscurali se chi li disegna si muove tra le opportunità dell'elabo­razione linguistica, tra i rischi della scrittura e dell'impaginazione visive» (A. Signorelli, “Cineforum” n. 485, giugno 2009).
 
«II tema del po­tere e quello della sofferenza psichica si coniugano in un melodramma che diventa la metafora esplicita della condizione di un popolo. violentato, negato nella sua identità, condannato all'o­blio quanto Ida Dalser, donna e madre. Melodramma e storia che s'intrecciano con titoli e stili che oscillano tra Matarazzo e Marinetti, usando gli inserti dei cinegiornali come violente pro­vocazioni, sparando titoli sullo schermo nella migliore tradizio­ne futurista e accompagnando il tutto con una colonna sonora in cui la musica di Carlo Crivelli ha un valore fondante, testua­le, mai invadente, ma assolutamente esplicativa del dramma, più spesso del melodramma» (M. Gottardi, “Segnocinema” n. 158, luglio-agosto 2009).
 
«Per Vincere il regista si è avvalso di Carlo Crivelli (Roma, 1953), un musicista dalla formazione classica ma dalla sensibilità moderna. I suoi studi sulla etnomusicologia, fra l'altro, lo hanno aiutato nella selezio­ne. e nel "taglio" degli svariati materiali sonori che avvolgono e contrappuntano la vicenda del giovane Mussolini. Abbiamo qui una mescolanza sapiente di pagine originali e di citazioni, e ambedue queste dimensioni (per non dire del doppio registro: musica diegetica/musica di commento) si amalgamano bene non per fornire un'eco agli avvenimenti o semplice­mente per ambientarli sonoramente (nulla a che vede­re con le compilation facili tipo vintage Anni Sessanta, anni Ottanta e simili), ma per caratterizzare, definire, "giudicare" sia tali avvenimenti che i personaggi coin­volti. […] Le pagine originali di Crivelli appaiono a tutta prima un po' fuori quadro in un film italiano d'auto­re, musicato per di più da un compositore dalla forma­zione accademica: oltre che richiamare l'insistenza rit­mica di un minimalisrno superficiale esse si imparen­tano cori le colonne sonore dei blockbuster tipo X Men, Batmen, Spidermen, e insomma Supermen, con rombi elettronici tonitruanti ad alto volume, di quelli che fanno vibrare lo spazio, e con soluzioni elettroni­che equivalenti allo scialo degli effetti speciali. Eppure, poi capisci che è quella l'atmosfera che respira, fin dalla sfida iniziale a Dio, quell'isterico provocatore e dominatore che è quel Mussolini. Quello visto da Bellocchio, intendo, che magari non è esattamente quello storico (alcuni osservatori puntigliosi hanno messo in rilievo anacronismi e sfasature) ma che sce­glie, sottolinea, mette in rilievo, inventa quando è il caso un "condottiero" che suggestiona, conquista, sot­tomette il prossimo, non rifuggendo da mascalzonate vili come il trattamento che infligge alla donna cui l'ha unito un rapporto vorace e volento e a suo figlio. Grottesca, anzi mostruosa, appare per contro la lan­guida esecuzione della Ninna-nanna di Brahms di Mussolini col violino» (E. Comuzio, “Cineforum” n. 485, giugno 2009).
 
«Tra le tante meno sfacciate, vi sono in Vincere due citazioni pittoriche straordinarie e emblematiche: la prima, fascistissima, durante la scena del duello, col recupero fiammeggiante delle ciminiere che popolano le bellissime periferie milanesi dipinte da Mario Sironi a partire dai primi anni Venti, quando lascia Sassari per raggiungere il capoluogo lombardo e unirsi al movi­mento futurista (solo per un po'); l'altra, di segno con­trario, ma che fa esplodere l'eco metafisica dell'omaggio a Sironi, compare invece nella seconda parte del film, quando il testone bianco marmoreo di Berrito Mussolini cade a terra (spinto dal figlio) e si sistema, nello spazio potentemente prospettico di un corridoio, come una testa staccata in un quadro del De Chirico anni Dieci/Venti. Del resto, poco prima, con entusiasmo tutto onomatopeico - Pum Pum! Bam Bam! - il Benito Mussolini di Bellocchio (che avrebbe voluto fare il pit­tore ma sapeva che, a prender quella strada, sarebbe rimasto per sempre un mediocre) ha visitato una mostra futurista e s'è eccitato e caricato, com'è giusto che acca­da, di fronte ai Balla e ai Boccioni. E metafisica è l'ulti­ma immagine del film, col testone mussoliniano - que­sta volta di ferro - stritolato come un rottame ormai inutile da un ingranaggio meccanico (decisamente futu­rista) […]. Il rapporto costruttivo tra immagine e realtà, gli scivolamenti imprevedibili dall'una e all'altra, il montaggio incessante dell'una dentro l'altra e il gioco della "proprie­tà" dell'immagine rende Vincere una riflessione non ideo­logica sul cortocircuito tutto novecentesco (e già passato di moda) tra storia e rappresentazione, col cinema al cen­tro di tutto: Timi, nei panni di Benito Dalser, che imita il Mussolini dei cinegiornali che a sua volta è la versione ripresa del Mussolini interpretato da Filippo Timi, è l'im­magine perfetta di questa spirale senza via d'uscita» (L. Malavasi, “Cineforum” n. 485, giugno 2009).
 
«Il riferimento a Marinetti è fondamentale non sol­tanto per comprendere la dipendenza dell'estetica cinematografica fascista dal Futurismo, con le sue ana­logie, simultaneità, compenetrazioni, sovrimpressioni sonore, frasi e slogan cinematografati su cui il film di Bellocchio insiste. Ma anche per affrontare il sottotesto erotico-ideologico, in chiave psicanalitica. Al Marinetti di Mafarka il Futurista, ove si legge che “Possedere una donna non è strofinarsi contro di essa, ma penetrarla”, e “Non vi è di naturale e di importan­te che il coito il quale ha per scopo il futurismo della specie”, appartiene il proverbiale disprezzo verso la donna. Disprezzo che il protagonista di Vincere aveva manifestato anche sessualmente nei confronti della donna penetrata con forza, fungendo allora da ogget­to sacrificale e. mezzo erotico ed economico di un desti­no mistico e cinematografico. Il destino tragico di un Duce-Dio, massimo divo cinematografico dell'epoca, che inizialmente aveva sfidato direttamente Dio e più tardi guardava il Cristo del film muto di Antamoro, proprio perché immobilizzato in un letto d'ospedale. Ancora una volta come l'Alex di Arancia rneccanica, aduso a sua volta a esercitare l'immaginazione violen­ta su soggetti biblici e cristologici mutuati dai kolossal di De Mille. Disprezzo tipicamente marinettiano è dunque quello del Mussolini bellocchiano. Disprezzo verso l'irriducibile Ida, la donna-moglie d'ostacolo alla inesorabile marcia di uomo-Duce. E condannata per­ciò ad essere rimpiazzata dalla remissiva Rachele, moglie-donna, ben accetta al regime che nel frattempo si è consolidato» (A.G. Mancino, “Cineforum” n. 485, giugno 2009).
 
«In un film che vuole essere anche di grande, comuni­cativa, Bellocchio si trova vicino alle sperimentazioni di Gianikian-Ricci Lucchi o di Syberberg (l'idea di intrecciare la politica con quel che sta sotto, eros o mito: Mussolini in piedi con le proiezioni alle spalle è a un passo dalle retroproiezioni di Hitler). Il film mostra tangibilmente il nesso tra cinema e fascismo, tra propaganda, masse e funzionamento del dispositi­vo cinematografico. […] Vincere è sì una riflessione sulle radici profonde del fascismo, e sul rapporto tra immagini e fascismi, ma è anche un amaro rendiconto dello statuto delle imma­gini oggi; della difficoltà di trovare le immagini "giu­ste". Dopo il momento altissimo, che poteva essere il finale del film, con Ida ridotta a silhouette nell'auto sui cui vetri urtano i volti della folla, Bellocchio sceglie di non chiudere ma di proseguire con immagini di reper­torio, tra cui la testa bronzea di Mussolini schiacciata in una pressa (immagini, simulacri, ancora). Ma potrebbe continuare ancora, in un montaggio ormai labirintico, con il furore e la passione di chi sente quel­le immagini come qualcosa di decisivo, che continua a pesare e a scavare, e insieme con l'urgenza di chi crede ancora nel cinema, quasi a dispetto della sua storia, come mezzo di critica e di ribellione» (E. Morreale, “Cineforum” n. 485, giugno 2009).




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