Regia Manuele Cecconello
Fotografia Manuele Cecconello
Operatore Manuele Cecconello, Claudio Pidello
Musiche di repertorio J. S. Bach, Giulio Monaco
Suono Manuele Cecconello
Montaggio Manuele Cecconello
Produzione Prospettiva Nevskij
Note Documentario girato il 27 giugno 2007, dalle ore 10,00 alle 15,00.
Location manager: Claudio Pidello; consulenza al montaggio: Enrico Terrone; assistenza tecnica: Riccardo Giletta.
Location: Valle Elvo (Biella).
Premi: Menzione speciale all’VIII Tekfestival, Roma 2009.
Olga e il tempo. Parte seconda: equinozio del pomeriggio è la seconda parte di una trilogia che comprende anche: Olga e il tempo. Parte prima: epica minima del mattino (girato il 26 giugno 2006, 56’) e Olga e il tempo. Parte terza: elegia della sera (girato il 27 giugno 2008, 50’).
Sinossi
Secondo capitolo dell’”epopea minima” di Olga Valcauda, pastora dell’alto Biellese.
«Sordevolo paese, 600 metri. Fine aprile. Olga e l’anziana madre, Elisa, sono nella cascina di Sordevolo. Con loro, alcuni amici. Si prepara la transumanza delle poche vacche. Olga pianta i paletti per tendere il filo elettrificato posto a vincolare il percorso di uscita degli animali dalla proprietà. Elisa apre e chiude i cancelletti che danno sull’orto e la travà, controlla gli ultimi dettagli, questiona con la figlia sulla sequenza di azioni da seguire nell’aprire la stalla. Bevuto un bicchierino di genziana fatta in casa, i conoscenti radunati per l’evento preparano le mucche. I muggiti si moltiplicano, si fanno nervosi. Legate le campane ai colli, risuona il concerto della montagna. Gli animali, sovraeccitati, smaniosi, escono con folle trambusto dal buio caldo della stalla. Partono con la piccola mandria per l’alpeggio Pissa, 950 metri. Elisa torna in cucina, segue con lo sguardo la figlia che si allontana, urla gli ultimi ordini. Olga tornerà a fine settembre. Il percorso per la prima tappa dell’erba buona è breve. In meno di un’ora le bestie sono condotte a destinazione, tra sentieri ciottolati, cappelle votive, fonti. Olga offre il vino agli aiutanti. Si beve seduti sul mare d’erba. […] 27 giugno 2007. Elisa, in basso a Sordevolo, appronta il necessario per fare il sapone: grasso di maiale, soda caustica, pece greca, caolino. Il fuoco dà seguito alla lunga bollitura. Olga è all’alpeggio, gli animali accasati in stalla. Di nuovo sola. Attinge l’acqua dalla vasca. Taglia le zucchine, le fa soffriggere. Mette l’acqua sul fuoco. Elisa comincia a mescolare l’intruglio maleodorante. Il suo cagnolino guaisce in cerca di attenzioni. Olga sminuzza l’aglio nel corpo della ricotta disposta ad accogliere anche peperoncino e olio. Versa la farina di polenta nel paiolo. Il fuoco reclama suoni. Elisa rimesta e rimesta. Bolle ed effluvi densi salgono dentro la cucina dell’anziana donna. Elisa versa il liquame in un grosso stampo. Olga trae la massa gialla dal fuoco. Elisa seziona cubi regolari di sapone rappreso, color uovo, pesanti. Olga affetta meridiani di polenta profumata. È mezzogiorno. Olga siede a tavola, manipola pugni di polenta che accompagna alle zucchine. Le mucche pigre ruminano nella stalla. Olga carezza Baldi a lungo: è la prima sosta della giornata. Siede in silenzio su uno sgabello; lo sguardo è sempre pensoso, occupato e denso. Puntellato di tenui sorrisi. Come trascendente rispetto alla materia che plasma quotidianamente. La donna solca i suoi prati con in braccio fascine, attrezzi, tubi, cavi. Apre un piccolo canale di scolo per l’acqua. Mantiene il pascolo. Lentamente, si approssima un temporale. Sale la musica sacra; si raggrumano gli interrogativi, la luce indolente e dolce del principio d’estate si fa grigia e poi nera sotto le nubi. La pioggia rallenta i pochi gesti rimanenti per finire la giornata. Il paesaggio della valle raggiunge la baita con grande ritardo. Come la luce differita delle stelle. Olga è felice?» ( http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).
Dichiarazioni
«Tornata al secondo alpeggio dopo la pausa invernale, Olga viene ripresa dal racconto durante il lungo pomeriggio di lavoro. L’inanellarsi dei gesti, della azioni – più diluite nel tempo quelle del pomeriggio - recupera con poche variazioni il mantra del mattino (la Parte prima). Olga respira, suda, lavora, ascolta la radio, parla – certamente corrisposta – con Baldi. La musica sacra moderna, il bianconero sgranato e vignettato sono la risposta del regista al senso del tempo costruito dalla donna e dalla natura. Una eternità molle, una circolarità involontaria richiamano alla macchina da presa un sospeso protagonismo, una volontà significante per dare corpo e densità ottica all’ineffabile mutevolezza del corpo, alla minima coreografia dei gesti, al disegno incantato del paesaggio.
Il regista vede nelle ventiquattro ore di Olga un moto universale, una orologeria fine che conta i gradi di inquietudine e desiderio là dove regna silente l’apparente stolidità della mucca, il lento ondeggiare del fogliame, la nube che scorre sui tetti di pietra. Pur nella sua consanguineità con la Natura, Olga si accomuna all’umano dibattersi che cerca di fuggire. Giù in pianura, alveo di autostrade e metropoli, regna un caos inconsapevole che ha eletto la velocità come potere assoluto. Olga risponde con la dignità di un eremitaggio ereditato, l’assiduità di una simbiosi con il respiro della Terra. La donna conosce in fondo la sua Scelta, e la vive con l’accettazione lenta, con la cura per la sua misura definita. Il film domanda infine: è questa una forma nobile di rassegnazione? C’è un senso tragico nell’atarassia del volto di questa donna? Si tratta di disincanto? Dio c’entra qualcosa? Oppure è il metodo della lentezza che rende alieni i suoi praticanti agli osservatori distratti provenienti dalla pianura? È la donna forse il tratto d’unione con la Madre Terra? Intanto si approssima il temporale e Olga si appresta a chiudere la stalla» (M. Cecconello, http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).
«Le tre parti di cui si compone il documentario raccontano una giornata qualsiasi – il 27 giugno – di Olga Valcauda, pastora del Biellese. Girato in tre anni consecutivi – 2006, 2007, 2008 – il film lascia scorrere la vita di Olga con il suo metodico operare come se ogni istante replicasse un granello di eternità. Dalla trasformazione del latte al pascolo delle mucche, dalla manutenzione della proprietà alla mungitura, dalla preparazione del pranzo alla realizzazione del sapone artigianale (per mano dell’anziana madre Elisa), dalla pulizia della stalla alla cena e al riposo, la quotidiana epica di questa donna quarantenne e sola viene intagliata in un bianco nero sgranato e profondo, come nelle fotografie amatoriali degli anni’70, e la millenaria vicenda del mondo contadino si fa ritratto intimo, minimale vibrazione alla ricerca di verità antiche e immanenze eloquenti. La trilogia nasce senza progetto. L’autore non conosceva la protagonista. Non vi sono state ricerche né sopralluoghi. Le cose si svolgono davanti alla camera come se fosse la prima volta. Olga e il tempo è la testimonianza di una scoperta: quella dell’autore nei confronti della propria poetica. E, infine, questa poetica parla agli uomini e tramanda il tempo di Olga.
L’epopea di Olga si consuma così: in silenzio e solitudine, seguendo un ritmo ferreo staccato sul levare del sole. I gesti scandiscono un sapere intatto, il tempo stilla su di un orologio naturale. Il tempo necessario alle vacche per pascolare, il tempo per la giusta cagliata, il tempo per la bollitura, il tempo della colazione, il tempo del siero che cola dalla forma di formaggio compiuta. E la fatica intaglia nell’aria una sacra ineluttabilità. E, insie-me, la sua contraddizione. Ha scelto Olga il suo destino? È la solitudine dei mesi estivi una dimensione appagata o un dovere trasmesso geneticamente? L’ombra della tradizione famigliare è per lei, figlia unica, una guida o una catena? L’eredità del padre (l’alpeggio, la terra, gli animali…) è ciò che Olga attendeva dalla vita? Olga traccia il segno dell’uomo sulla natura come era all’inizio: ad impatto nullo. Ogni gesto, materia, azione, strumento sono calibrati in un progetto di completo equilibrio tra le parti. L’attento cane Baldi, le mucche e Olga pari sono dentro una società dagli intenti dichiarati, dai diritti garantiti. Il latte, l’erba vigorosa, l’acqua di fonte – incessante, e, dopo, il burro saporito, la toma fragrante di latte e fuliggine, sono un DNA ritornante, imperituro. Sono la sempiterna tabella degli elementi della civiltà contadina. Olga non è sovrana né invasore di questo Eden minimo; è la garante di un’armonia dovuta, di un destino circolare. Olga fa da testimone fedele al tempo indifferente della Terra.
La musica sacra e moderna, il bianconero sgranato e vignettato sono la risposta del regista al senso del tempo costruito dalla donna e dalla natura. Una eternità molle, una circolarità involontaria richiamano alla macchina da presa un sospeso protagonismo, una volontà significante per dare corpo e densità ottica all’ineffabile mutevolezza del corpo, alla minima coreografia dei gesti, al disegno incantato del paesaggio. L’autore vede nelle ventiquattro ore di Olga un moto universale, una orologeria fine che conta i gradi di inquietudine e desiderio là dove regna silente l’apparente stolidità della mucca, il lento ondeggiare del fogliame, la nube che scorre sui tetti di pietra.
Pur nella sua consanguineità con la Natura, Olga si accomuna all’umano dibattersi che cerca di fuggire. Giù in pianura, alveo di autostrade e metropoli, regna un caos inconsapevole che ha eletto la velocità come potere assoluto. Olga risponde con la dignità di un eremitaggio ereditato, l’assiduità di una simbiosi con il respiro della Terra. La donna conosce in fondo la sua Scelta, e la vive con l’accettazione lenta, con la cura per la sua misura definita. Il film domanda infine: è questa una forma nobile di rassegnazione? C’è un senso tragico nell’atarassia del volto di questa donna? Si tratta di disincanto? Dio c’entra qualcosa?
La trilogia di Olga vuole essere un film sul Biellese ancora rurale, sulla necessità di fare memoria attiva della scomparsa civiltà contadina e del suo inestimabile retaggio. Sul finire del 1700 questa ascosa parte di Piemonte ha dato i natali all’industria tessile nazionale; la globalizzazione incalzante ha sconvolto i mercati al punto da far vacillare la vocazione industriale del Biellese, oggi al centro di una crisi di trasformazione di particolare entità. Gli Enti Locali hanno avviato da quasi un lustro un novero di iniziative volte a collocare cultura e creatività al centro di un ampio movimento di interpretazione del cambiamento e di valorizzazione del territorio. Olga e il tempo vuol essere la risposta artistica a queste istanze; la vita quotidiana di una pastora nascosta e silente – e depositaria di un sapere granitico ed emblematico – può costituire un anello di quella catena virtuosa che cinge e garantisce l’unicità di un territorio, l’elevazione delle eccellenze a cultura di comunicazione, il motore per la diffusione di valori affettivi intorno ad un paesaggio caratteristico. L’eredità che Olga rappresenta è il viatico per un viaggio nel tempo alla riscoperta dell’identità di tutta una comunità: da quei medesimi monti popolati di uomini e animali si dipartono i ricchi corsi d’acqua che hanno costruito l’industria della modernità» (M. Cecconello, http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).
«Dopo un prologo che ci mostra lo spazio siderale dell’alpeggio innevato e disabitato, […] assistiamo […] a una sequenza di transumanza, dove si consuma il distacco fra Olga e “quelli di laggiù”; quindi si arriva al corpo centrale dell’opera, “l’equinozio del pomeriggio”, un blocco unitario di esistenza silenziosa che la macchina da presa sottrae furtivamente allo scorrere del tempo. Ma la distanza assoluta fra la protagonista e la realtà sociale, che era il tratto essenziale del primo film, qui, per il momento, non è ancora raggiunta. La fase iniziale dell’equinozio risulta infatti dominata da un ampio montaggio alternato: da una parte Olga cucina il pranzo nella sua baita; dall’altra la madre, giù al paese, lavora alla preparazione del sapone. L’alternanza fra queste due serie di immagini è complicata da un terza linea visiva, più sporadica, nella quale vediamo Olga all’aperto, intenta a raccogliere il fieno: questa interferenza suggerisce l’ipotesi che il montaggio al quale stiamo assistendo non rappresenti tanto una simultaneità (Olga cucina mentre la madre prepara il sapone), quanto piuttosto un’introspezione (Olga, mentre cucina, pensa a ciò che ha fatto o che farà, e a ciò che sta facendo sua madre). Soltanto all’uscita da questo andirivieni nello spazio, nel tempo e nella memoria, Olga potrà riguadagnare la sua condizione originaria di perfetta solitudine. Rispetto alla formidabile compattezza del primo film, questo secondo scomparto si caratterizza per una maggiore tendenza alla pluralità e alla frammentarietà: non si tratta più di celebrare la perfetta armonia della vita solitaria in mezzo alle montagne, ma di attivare una dialettica fra natura e cultura, fra la realtà sociale e la sua negazione. […] Olga consuma progressivamente il suo distacco dal mondo degli uomini, e affronta solitaria una natura che è lucidamente rappresentata senza conciliazioni, sia nel suo recto affascinante e benevolo sia nel suo verso ostile. Il cielo si fa scuro, iniziano a sentirsi i tuoni, ma questa battaglia quotidiana in uno spazio sidereo, questa sfida contro il tempo e il temporale, ancora una volta Olga dovrà combatterla da sola, con la sua casa-astronave e il suo equipaggio di cani e di mucche. Al momento decisivo la macchina da presa muove vertiginosamente verso l’alto, ristabilendo finalmente quella che è la vera distanza fra il nostro mondo e il mondo di Olga: infinita» (E. Terrone, “Segnocinema”, in http://filmprospettivanevskij.blogspot.com).
Scheda a cura di Franco Prono
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