Regia Pupi Avati
Soggetto Pupi Avati
Sceneggiatura Pupi Avati
Fotografia Pasquale Rachini
Musica originale Lucio Dalla
Suono Piero Parisi
Montaggio Amedeo Salfa
Scenografia Giuliano Pannuti
Costumi Steno Tonelli
Interpreti Diego Abatantuono (Al), Pierpaolo Zizzi (Taddeo), Laura Chiatti (Marcella), Fabio De Luigi (Gian), Luigi Lo Cascio (Manuelo), Neri Marcorè (Bep), Luisa Ranieri (Ninni), Claudio Botosso (Zanchi), Gianni Ippoliti (Sarti), Gianni Cavina (nonno), Katia Ricciarelli (madre di Taddeo), Niki Giustini (Pus), Bob Messini (Mentos), Caterina Sylos Labini (maestra Scaglioni), Maria Pia Timo (Beatrice)
Direttore di produzione Gianfranco Musiu, Tomaso Pessina
Produzione Antonio Avati per Duea Film e Rai Cinema
Distribuzione 01 Distribution
Note Altri interpreti: Gianni Fantoni (padre di Gian), Lucia Modugno (merciaia); coordinamento finanziario: Diego Raiteri.
Locations: Cuneo, Bologna.
Sinossi
Bologna, 1954. Taddeo, un ragazzo di 18 anni, sogna di diventare un frequentatore del mitico Bar Margherita che si trova proprio sotto i portici davanti a casa sua. Con uno stratagemma, il giovane diventa l'autista personale di Al, l'uomo più carismatico e più misterioso del quartiere. Attraverso la sua protezione, Taddeo riesce ad essere testimone delle avventure di Bep, innamorato della entreneuse Marcella; delle peripezie di Gian; delle follie di Manuelo; delle cattiverie di Zanchi e delle stranezze di Sarti. Ma alla fine, Taddeo che tutti chiamavano "Coso" ce la farà ad essere considerato uno del Bar Margherita.
Dichiarazioni
«Amo troppo il cinema per non farlo più possibile, con caparbietà e insistenza. Il cinema ha pervaso di sé l’intera nostra esistenza (intendo quella mia e di mio fratello) permettendoci di farlo con la continuità che ci segnala tra i più prolifici. Questa continuità la si alimenta soprattutto con nuovi stimoli, nuove suggestioni, con la necessità di essere condotti al termine di ogni vicenda sempre dall’altra parte del mondo. In un altrove. Così oggi spalanco le finestre di quel tetro appartamento di via San Vitale dove il papà di Giovanna ha vissuto la sua dolorosa vicenda umana e la luce piena del giorno che inonda l’appartamento è accompagnata da una nuova colonna sonora fatta dal rombo delle utilitarie e delle canzonette della neonata San Remo dell’incombente boom. Siamo nel pieno degli anni Cinquanta e io sedicenne somiglio nella sfrontatezza delle mie aspettative a quell’Italia in cui nessuno si prenda la briga di richiamarmi alla ragionevolezza. Ho l’età dei miei sogni che è l’età della città in cui vivo e della sua gente. Tutti insieme condividiamo le stesse attese nei riguardi di uno sconfinato futuro. Perché non rammentare quegli anni se è sufficiente traversare la strada per raggiungere il Bar Margherita, quel santuario nel quale la società dei maschi, che teneva ancora asservita la donna in qualsivoglia suo ruolo, regnava impunemente? Perché non alzare la saracinesca di quel locale nel quale la mia memoria ha trattenuto intatti, preservati dalle ingiurie del tempo, quell’insieme straordinario di eroi sciocchi, che tuttavia furono per gran parte della mia giovinezza i modelli ai quali mi ispirai?» (P. Avati, dal Pressbook della Produzione, 2009).
«Questo film deriva da una necessità di raccontare la mia città ancora una volta al passato ma attraverso una luminosità ed una gioiosità dell’insieme che contraddicessero totalmente il clima struggente e doloroso del mio film precedente, Il papà di Giovanna. Riandando indietro anche solo di una cinquantina di anni ho ritrovato nella Bologna degli anni ’50, soprattutto nella cultura dei bar, un atteggiamento nell’interpretazione della vita da parte dei giovani di allora che oggi sarebbe considerato arcaico e deplorevole. Nel bar Margherita di via Saragozza - come io verificavo quotidianamente trovandosi dirimpetto a casa mia - i ragazzi di allora investivano la loro creatività nel più assoluto disimpegno e nel totale disinteresse degli adulti verso di loro. Ho messo insieme così una serie di suggestioni, che non riguardano solo me, ma un momento del Paese in cui le adolescenze erano spensierate e sperperate con disinvoltura e lo stupire e il divertire gli altri era un modo per dare senso alla vita. […] Il mio bar Margherita è una sorta di Pantheon di campioni del mondo dell’innocenza, quel mondo che io adolescente guardavo aspirando il prima possibile di entrarne a far parte. I suoi avventori furono infatti gli eroi di quel tratto della mia vita e ancora un poco, se vado indietro nel tempo, lo sono rimasti. Mi è difficile oggi poter circoscrivere quanto del vero bar ci sia in questo mio film e quanta parte invece sia frutto della mia fantasia. Quanto insomma io abbia detto come era davvero o quanto avrei voluto che fosse stato» (P. Avati, www.gliamicidelbarmargherita.it/download/press, 2009).
«Ho subito aderito idealmente a questo personaggio perché la sua vita è speculare alla mia: a partire dalla seconda metà degli anni '60, io ho trascorso più tempo al bar che a scuola... L’epoca che raccontiamo nel film è precedente alla mia, ma la sostanza dei valori è quella: i bar in passato rappresentavano per tante persone una sorta di seconda casa, nascevano dei rapporti paralleli, quasi integrativi e compensativi rispetto a quelli che si avevano con i genitori e i fratelli maggiori, esisteva un’etica destinata a scomparire nel tempo perché si giocava un po' tutti alla pari. Se oggi sono gli extracomunitari ad esser emarginati, all’epoca la stessa diffidenza era destinata ai meridionali, ma sia il bar raccontato da Pupi che quelli che ho frequentato in seguito io a Milano, per esempio, svolgevano una funzione di integrazione e di raccordo tra categorie sociali differenti. La vita del locale serviva a socializzare davvero con l’intersecarsi di meridionali e settentrionali, benestanti e squattrinati, anziani e giovani, tipi strani ed altri più che omologati. La differenza è che diversamente dai primi anni '50 del Bar Margherita nei caffè degli anni successivi che ho frequentato io erano ammesse anche le donne che iniziavano a farvi tappa all’interno di comitive di amici che si organizzavano per la serata… […] Per Pupi ho una grande passione, mi ricorda tante figure che sono venute a mancarmi col tempo, tra di noi esiste per fortuna un asse privilegiato, è l’unico amico meno giovane di me in grado di farmi sentire un po' figlio, quello che per un verso mi toglie un po’ di responsabilità e per un altro mi rende più responsabile, perché mi stimola a fare sempre e comunque bella figura» (D. Abatantuono, www.gliamicidelbarmargherita.it/download/press, 2009).
«Quel locale di via Saragozza è stato un epicentro, un punto di riferimento di una certa borghesia di una tipica città di provincia (sia pure capoluogo) come Bologna, il cui nucleo sociale era attraversato però da varianti assolutamente popolari per cui vi si formava un linguaggio che andava dal medio verso l’alto ma anche dal medio verso il basso: è stato il concentrato di una serie di iniziative legate anche al linguaggio, allo slang bolognese, perché ogni tipologia di società che frequentava quel bar dava il suo contributo a modi di dire e di fare che poi rappresentavano un “imprintig” per l’intera città. Io non l’ho frequentato nello stesso periodo di Pupi Avati ma un po’ dopo, data la piccola differenza d’età tra di noi, ma era cresciuto in quel contesto ad esempio Tobia Righi, un mio grande amico un po’ meno giovane di me che è poi diventato il mio amministratore e che mi ha sempre raccontato le vicende speciali che lo hanno legato a quegli anni irripetibili descritti nel film: quando Pupi, gratificandomi moltissimo, mi ha chiesto di occuparmi della colonna sonora mi sono sentito perciò non solo adatto ma anche autorizzato a “musicalizzarlo”. Si tratta di musica interamente inedita, tranne la canzone dei titoli di coda Dark Bologna che ho cantato e suonato cambiando leggermente il testo per adattarlo ai primi anni ’50 (si parlava ad esempio di autostrade che all’epoca non esistevano); poi c’e uno skat che è un momento portante nel racconto. Tutti i vari momenti di sonorizzazione sono stati concordati di comune accordo con Pupi che conosce bene la musica. Mi sono sentito subito ispirato, ho scritto piuttosto in fretta, è venuto fuori tutto molto “di getto” e lavorare intorno al film ha rappresentato per me una coperta per quando c’è freddo, il piacere e l’uso che ho fatto di questa esperienza è stato davvero rigenerante […]. È un film secondo me particolarmente riuscito sia nella scrittura che nella cinematografia, una delle caratteristiche vincenti di sempre di Pupi è quella di saper raccontare una storia apparentemente piccola facendola diventare grande ed universale. È una prerogativa del cinema essere una volta lente e un’altra caleidoscopio e Avati è un vero, grande illusionista» (L. Dalla, www.gliamicidelbarmargherita.it/download/press, 2009).
«Regole del Bar Margherita del 1954
a) Al Bar non si portano mogli, madri, sorelle, figli, nipoti.
b) Se vuoi essere considerato al Bar Margherita ci devi arrivare la sera tardi. Comunque sempre prima che chiuda.
c) Se ti metti con una che non ti fa più venire al Bar, si avvia l'organizzazione per fartela mollare.
d) La squadra del Bar Margherita è il Bologna Football club e tutti ci tengono a sentire le partite alla radio, quando vince e quando perde. La bandiera del Bologna è appesa ogni domenica a una colonna del portico.
e) Quelli del Bar Margherita ci credono alla Messa e al Rosario ma non ci vanno o se ci vanno non si fanno vedere.
f) Anche se piove forte nessuno va al Bar Margherita con l'ombrello.
g) Nella classifica degli imbarcatori di donne, che nel codice del Bar si chiamano penne, quarti sono i finocchi, terzi i democristiani, secondi i comunisti, primi quelli che invece di parlare tanto cercano una che gliela dà.
h) Le penne che la danno a quelli del Bar sono tutte segrete, spesso sposate, che quelli del Bar hanno conosciuto nelle balere e hanno solo il nome del quartiere dove abitano, quella di Casaralta, quella della Bolognina, quella della Dozza... Forse esistono, forse no.
i) A quelli del Bar è proibito andare in gita ai santuari sui pullman con il mangiare nelle sporte e la bottiglia dell'acqua e limone.
l) Quelli del Bar Margherita quando stanno seduti ai tavolini e passa una penna la debbono guardare con desiderio e fare qualche “tirino”. Sempre. Anche se è un gran cesso le debbono sussurrare: “Che fisico!” oppure “sai cosa ti farei!”. È una regola di quelli del Bar Margherita.
m) La Santa protettrice del Bar Margherita è la Madonna di San Luca che viene giù dal suo Santuario una volta all'anno e che anche gli atei del Bar Margherita la ammirano molto» ( www.gliamicidelbarmargherita.it/download/press, 2009).
«Il cinema di Pupi Avati è spesso (e sempre più) un viaggio nel passato giocato sul filo di un'autobiografia segreta che con il tempo si è fatta più esplicita. Prendiamo la Bologna del 1954 vista attraverso lo spaccato di Gli amici del Bar Margherita, ovvero il posto più bello di quella “città grande e lunga, soleggiata o piovosa nei giorni giusti” che c'era una volta e non c'è più. […] Attraverso un susseguirsi di frammenti di vita che hanno la consistenza lieve ed effimera dei ricordi, emerge nell'acquarellato affresco corale il disegno di quattro storie, che pur piccole mettono in gioco cose grandi: sentimenti travolgenti come l'amore o la disillusione ed eventi gravi come un matrimonio saltato, l'incarcerazione e addirittura la morte. Ma il filtro della memoria in Avati funziona in modo speciale e paradossale. […] la chiave del film lungi dall'essere nostalgica è quella di uno sguardo che, partendo dal disincanto, ricava una visione affettuosamente assolutoria della natura umana» (A. Levantesi, “La Stampa”, 3.4.2009).
«Parliamo del contenitore, dell'ostinato tentativo di Pierpaolo Zizzi che vuol farsi accogliere nel clan. Svelto e simpatico, ma anche un po' canaglia come confessa di essere stato alla sua età l'autore, il giovinetto ce la fa ed è pronto a figurare nella rituale foto di gruppo dei clienti del bar. Ma al momento dello scatto si mette invece accanto al fotografo e risponde all'appello dei compagni dicendo: “È più bello da qui”. Se ci fosse un premio per la più significativa battuta del cinema italiano d' oggi non si potrebbe scegliere meglio. Si tratta della sintesi, intensa e poetica, di un atteggiamento che sposa il culto delle memorie alla tenerezza e al pragmatismo; e comporta una distanziazione che autorizza perfino qualche sfumatura di crudeltà. […] Ogni volta alla vigilia di un nuovo film di Avati gli fa da battistrada il romanzo (Mondadori) in cui lo stesso autore l'ha accuratamente premeditato. Leggerlo o vedere prima il film? Comunque si decida, una cosa non sostituisce l'altra. Piuttosto c' è da chiedersi come mai i critici letterari, potendo godere della priorità, non prendano nella giusta considerazione queste pagine. Che vivono di vita propria; e presentano un regista il quale (rara avis in una categoria che allo scrivere preferisce far scrivere) sa cos' è un romanzo. Ricco di invenzioni, personaggi e storie di vita, Avati sembra a volta l'emulo del compianto Piero Chiara, cioè il narratore nato che fra ricordi e invenzioni scorre beato come un rubinetto aperto. […] Ho frequentato molto Fellini e di nuovo posso garantire che le affinità elettive con Avati ci sono e come. […] E sarà fatale che la critica accosti la felsinea via Saragozza alla Rimini dei Vitelloni (tutte e due reinventate altrove, Bologna addirittura a Cuneo). Ma le differenze si avvertono. Fellini se ne andò dalla città nativa prima di potersi unire ai vitelloni, tutti più grandi e adusi a far parte per se stessi; Pupi si imbrancò invece nella cerchia che rievoca, pur considerandosi il testimone “fuori dalla foto”. E poi il film riminese è metastorico, si svolge in un tempo non identificato o addirittura al presente, mentre Gli amici del bar Margherita è agganciato a una data precisa, il 1954. Chi c' era la riconoscerà, chi è venuto dopo visiterà un periodo della nostra storia in cui si era passati dalla miserie del dopoguerra all' alba della dolce vita. Aleggia, fra quel bancone del bar e il biliardo, anche un non so che di Proust» (T. Kezich, “Corriere della Sera”, 3.4.2009).
«Povera provincia italiana. Gli amici del bar Margherita sono solo dei vigliacchetti pieni di nulla. Pupi Avati li pone al centro della sua Bologna, nell'anno di grazia 1954: poche, invidiatissime automobili, lunghe partite a biliardo, l'attesa infinita di un avvenimento che possa cambiare il corso della vita. Ma può davvero cambiare una vita così? No, perché in realtà è il massimo a cui quei maschi mai cresciuti ambiscono. Tanto che il giovanissimo narratore ha un unico desiderio: entrare anche lui a far parte del gruppo. […] Di tipi strani ce n'è a bizzeffe, tutti accomunati da un pensiero unico: le "penne", ovvero le donne. Fantasmi che si materializzano sotto i portici, presunte vergini o vere prostitute, argomento fatale di ogni chiacchiera serale. Un mondo vuoto, amaro, che gira su se stesso. Vitelloni di città, senza però nessun Moraldo, stavolta, pronto a prendere il volo» (L. Paini, “Il Sole – 24 Ore”, 12,4,2009).
«Nel bel amarcord di Pupi Avati, sotto i portici bolognesi dell'Italia povera ingenua, ma bella, del '54 ante dolce vita, i suoi vitelloni amici del bar (tra cui un Casanova a zero intelletto) vivono by night, parlano con la voce della Luna e fanno bidoni. Chi sovrintende? San Fellini, certo. Avati riapre il libro autobiografico delle jazz band, al capitolo nostalgia, ma con una dose di crudeltà in più, senza alcuna retorica. Il puzzle con situazioni divertenti e personaggi riusciti guarda il passato a debita distanza. Disillusione? Avati prende il meglio di Avati e ancora una volta dirige il suo clan di attori, nessuno escluso, in stato di grazia sociologica e soprattutto auto ironica» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 10.4.2009).
«Vogliamo rischiare. Anche quando ambienta le sue storie nella sonnacchiosa, apparentemente amichevole Bologna anni 50, quella della sua adolescenza, Avati cova lo spirito "gotico", un po' inquietante, che ne ha fatto l'autore di ottimi horror. È la versione nostrana, felsinea di quello che un discepolo di papà Freud, Otto Rank, definì il "perturbante": l'in-famigliarità del famigliare, l'elemento inatteso che, d'improvviso, entra nella rassicurante quotidianità e la stravolge. Solo Avati, nel nostro cinema, sa mostrarlo così bene, insinuando una sottile inquietudine nelle situazioni più quotidiane, più "normali". Poi la vita va avanti, riprende il suo corso: il regista distanzia gli eventi con la cornice del racconto (l' Io-narrante), che li purifica, e col correttivo dello humour, il migliore ritrovato di sempre contro l' emotività. Senza permettere, però, che tutto torni come prima; ma lasciando che un piccolo disagio resti lì, latente. Fino al prossimo film» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 3.4.2009).
«Come molti registi prolifici, Pupi Avati sembra fare i film a due a due. Ogni titolo della sua ricca filmografia ne ha (almeno) un altro più o meno gemello. Ogni volta che sceglie un mondo, un punto di vista, un sentimento, sente il bisogno di riprendere il discorso da un angolo o con un tono diverso. Così Gli amici del bar Margherita è quasi il "gemello", o meglio il rovescio, di Ma quando arrivano le ragazze, una delle sue commedie corali più interessanti e sottovalutate. Là infatti gli anni 50 della sua adolescenza venivano camuffati da presente, con effetto straniante e sottilmente inquietante. Qua la Bologna del 1954, con la sua inesauribile galleria di tipi buffi e simpatici idioti ("gli eroi sciocchi" li chiama Avati), diventa il motore di una memoria tutta privata che sceglie e deforma, sfuma ed esalta, completa e ricrea. Seguendo un disegno apertamente nostalgico ma anche sottomesso fino in fondo al gioco dell'immaginazione. Gli antipatizzanti diranno che il regista emiliano si ripete, che è regressivo, non giudica, non sceglie, si limita a rievocare e probabilmente abbellire quei personaggi, le loro vite, la loro mentalità oggi superata (ma ne siamo così sicuri?), senza aprire nuove prospettive nemmeno alla luce della distanza storica. Chi sta al gioco apprezzerà queste variazioni sul tema senza troppe pretese per il senso dei dettagli, il brio del racconto, l'affiatamento del cast. E soprattutto la coesistenza beffarda di sorriso e crudeltà che inchioda ogni personaggio alle sue piccole ossessioni, alle sue patetiche incapacità, o a un destino segnato dal gusto misogino e goliardico per la bravata» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 3.4.2009).
«Il piccolo mondo antico di Avati assomiglia, più di sempre, all'album delle “buone cose di pessimo gusto” di Gozzano e forse non è un caso che la poesia più celebre del cantore dell'Italietta ingenua e provinciale termini con un accenno ai poteri evocativi della fotografia. Proprio in questo film, infatti, lo scatto in extremis di un'istantanea ai ribaldi habitués suggerisce una chiave di lettura interessante: lo snobbato narratore diciottenne ce l'avrebbe fatta a mettersi in posa nel gruppo, ma all'ultimo istante si tira fuori e affianca il fotografo assicurando che da lì “è più bello”. Anche Avati scruta la familiare fauna felsinea dall'esterno, riuscendo a sorpassare il cliché dell'amarcord grazie alle sottili quanto letali iniezioni di cinismo. Ma, come ha scritto nella tesi di laurea il promettente studioso Roberto Urbani, “le sue storie di scacco non si prefigurano come la rappresentazione di un pessimismo radicale... L'uomo avatiano intraprende piuttosto un percorso di educazione sentimentale che, attraverso la sconfitta, lo porta al completamento della maturazione”. In apparenza solo rapsodico e vitellonesco, Gli amici del Bar Margherita coglie l'essenza di quei favolosi e insieme grezzi anni Cinquanta che traghettarono il cinema e il paese dal neorealismo ai mostri all'italiana. Ribadendo il primato della finzione sulla cronaca, il regista bolognese tocca la sua corda più sensibile e feconda: quella di un artigianato che sa mescolare con sapienza l'amarezza al riso, l'ottimismo alla meschinità, il massimalismo delle novità al minimalismo della tradizione» (V. Caparra, “Il Mattino”, 4.4.2009).
«Erano cinque o sei amici al bar. Non sognavano di cambiare il mondo, ma di conquistare una donna, di vincere al biliardo, al massimo di cantare a Sanremo. Con nostalgica cattiveria, Avati ricostruisce per scherzi e frammenti la Bologna del '54, vista con l'egoismo di un adolescente. Nel suo piccolo, il regista ci racconta che non siamo mai stati buoni, anche quando avevamo tanti anni di meno» (“Corriere della Sera Magazine”, 16.4.2009).
«Sotto i portici di via Roma a Cuneo, maggio Duemilaotto: si gira Gli amici del Bar Margherita, la storia della curiosa fauna umana che frequentava il Bar Margherita di Bologna, sessant'anni fa. […] Davanti alla farmacia Bertero, con le pubblicità di oggi sostituite dai cartelli degli anni Cinquanta, sotto i portici di Cuneo che ricreano Bologna del 1954, Pupi Avati è disteso, non ha fretta, si prende il tempo di parlare all'ex professore che vent'anni fa ha avuto una particina in un suo film, lo ascolta guardandolo negli occhi anche se tra dieci minuti scatta il ciak. […] Pupi Avati non ha avuto una fortuna critica pari al suo valore artistico e alla vasta popolarità che – al di là dei non infrequenti insuccessi, che lui stesso ammette con autoironico, umile orgoglio – si è conquistato nel pubblico italiano attraverso quarant'anni di cinema e quasi quaranta film, realizzati con insolita prolificità e indubbia generosità creativa. […] Cinema del bizzarro, del misterioso e dell'insolito. Cinema dell'amicizia e delle generazioni (pochi le hanno raccontate con lo stesso gusto affettuoso e graffiante). Del ricordo, della malinconia e della nostalgia. Della giovinezza e dell'attrazione d'amore. Delle avventure della carne e di quelle dello spirito. Della ricerca della consolazione negli umani affetti e della ricerca dell'orizzonte ultimo di Dio. […] Avati non si è risparmiato nulla e non ha fatto mancare nulla a noi spettatori. Soprattutto, ci ha aiutati a riconoscerci nei suoi personaggi e nelle sue piccole e grandi storie (e forse, riconoscendoci nei loro egoismi e vigliaccherie, a diventare migliori di loro)» (P. Ghezzi, in Pupi Avati, Sotto le stelle di un film, Il Margine, Trento, 2009).
|