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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Noi credevamo
Italia/Francia, 2010, 35mm, 170', Colore


Regista
Mario Martone

Soggetto
liberamente ispirato a vicende storiche realmente accadute e al romanzo di Anna Banti “Noi credevamo”

Sceneggiatura
Giancarlo De Cataldo, Mario Martone

Fotografia
Renato Berta

Operatore
Renaud Personnaz

Musica originale
Hubert Westkemper

Suono
Gaetano Carito, Maricetta Lombardo, Silvia Moraes

Montaggio
Jacopo Quadri

Costumi
Ursula Patzak

Trucco
Vittorio Sodano

Aiuto regia
Paola Rota, Raffaele Di Florio

Casting
Paola Rota, Raffaele Di Florio

Ispettore di produzione
Andrea Alunni

Scenografia
Emita Frigato

Direttore di produzione
Erik Paoletti

Interpreti
Luigi Lo Cascio (Domenico), Valerio Binasco (Angelo), Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Francesca Inaudi (Cristina di Belgiojoso Giovane), Luca Barbareschi (Antonio Gallenga), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Guido Caprino (Felice Orsini), Renato Carpentieri (Carlo Poerio), Ivan Franek (Simon Bernard), Anna Bonaiuto (Cristina di Belgiojoso), Pietro Manigrasso (Detenuto), Pino Calabrese (Maresciallo Del Carretto), Enzo Salomone (Barone Pica), Andrea Bosca (Angelo Giovane), Andrea Renzi (Sigismondo di Castromediano)

Produzione
Carlo Degli Esposti, Conchita Airoldi, Giorgio Magliulo, Serge Lalou per Eskimosa, Palomar, Rai Cinema

Distribuzione
01 Distribution

Note
Dialoghi: Mario Martone; suono in presa diretta; ricerca iconografica e musicale: Ippolita Di Majo; musiche di repertorio eseguite da: Orchestra Sinfonica della Rai diretta da Roberto Abbado; coordinatore di post-produzione: Gianni Monciotti; montaggio del suono: Silvia Moraes; acconciature: Aldo Signoretti; altri interpreti: Franco Ravera (Antonio Gomez), Stefano Cassetti (Carlo Rudio), Michele Riondino (Saverio), Roberto De Francesco (Don Ludovico), Alfonso Santagata (Saverio o’trappetaro), Peppino Mazzotta (Carmine), Giovanni Calcagno (Attore della Vicaria), Vincenzo Pirrotta (Attore della Vicaria), Edoardo Natoli (Domenico Giovane), Luigi Pisani (Salvatore), Fiona Shaw (Emilie Ashurst Venturi); segretaria di edizione: Fiorella Giovanelli; organizzatore generale: Patrizia Massa; produttore associato: Carlo Cresto Dina; collaborazione alla produzione: Rai Cinema, Rai Fiction, Feltrinelli; coproduttore: Serge Lalou per Les Films d'Ici con la partecipazione di Arte France.
 
Il film è stato realizzato con il sostegno di: Ministero per i Beni e leAtività Culturali (MiBAC) - Direzione Generale per il Cinema, Film Commission Torino Piemonte, Apulia Film Commission, Regione Puglia (contributo alla Ospitalità dell’Assessorato Regionale al Turismo e Industria Alberghiera), Comitato Italia 150, Comune di Torino.
 
Locations: Torino, Saluzzo (TO), Savigliano (CN), Santa Maria di Castellabate (SA), Bovino (FG).
 
Premio Fac, Comitato per la diffusione del film d'arte e cultura 2010 a Mario Martone.
 
Dopo la proiezione al Festival di Venezia, il film è stato distribuito nelle nelle sale italiane in sole 30 copie, ma a causa del grande successo di pubblico dopo una settimana ne sono state distribuite altre 25.




Sinossi
Tre ragazzi del Sud Italia, in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l’unità d’Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore vengono segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche. Sullo sfondo, la storia più sconosciuta della nascita del Paese, dei conflitti implacabili tra i “padri della patria”, dell’insanabile frattura tra Nord e Sud, delle radici contorte su cui sì è sviluppata l’Italia in cui viviamo..





Dichiarazioni
«Leggevo Pianura proibita di Cesare Garboli. Attraverso una noticina scoprii che Anna Banti aveva scritto il romanzo Noi credevamo. Il titolo mi colpì. La Banti raccontava di suo nonno, un mazziniano che nel romanzo parlava in prima persona e tirava in ballo Domenico Lopresti, un calabrese imprigionato per cospirazione. Per compagno di prigionia Domenico aveva Sigismondo di Castromediano, un salentino anti borbonico. Insomma, una nota a piè di pagina di Garboli mi ha stimolato una catena di curiosità. Ecco come una lettura senza scopo si è trasformata in uno strumento di lavoro» (M. Martone, “La Stampa”, 10.5.2008).
 
«Riflettendo sulla caduta delle Torri Gemelle e sui fatti seguiti all'11 settembre, m'è parso di capire che, a differenza di quanto sostiene la Lega, l'Italia non è un paese spaccato in due tra nord e sud per il quale occorre un federalismo egoista, ma un paese diviso verticalmente tra chi voleva e vuole un regime autenticamente democratico e chi ha voluto e ne vuole uno autoritario. È successo già in passato, succede adesso» (M. Martone, “La Stampa”, 10.11.2010).
 
«”Farebbe un film sul terrorismo?” Lo farei sulla memoria del terrorismo in Italia. Non inteso come Anni '70, ma come le azioni compiute dai martiri del Risorgimento italiano che noi celebriamo retoricamente. Tendiamo a dimenticare che l'Unità d'Italia si è formata grazie a una cospirazione. […] Però, e dico però, bisognerebbe avere una maggior consapevolezza dei processi storici e renderci conto che la tragedia palestinese è scritta dentro un processo della storia. È stata scritta nella storia la tragedia del Risorgimento con i tanti morti e le azioni violente. Non possiamo credere che la storia si fermi dove uno vuole credere che si debba fermare. lo non ho nessuna forma di benevolenza, sia ben chiaro, con il terrorismo che considero un a piaga tremenda. Ma avremmo bisogno di una realtà e di una attenzione più seria alle guerre di indipendenza e di liberazione. […] L’arte è al di sopra della politica, ma l'arte è anche politica. Nell'Edipo a Colono di Sofocle è impressionante quanto siano stretti insieme i temi politici cari a Sofocle, che era un uomo coinvolto nella politica, accanto ai grandi temi religiosi, spirituali estetici e poetici che fanno di questo testo un capolavoro. Dovremmo sapere quanto politica e creatività sono mescolate. L'abbiamo nel nostro Dna» (M. Martone intervistato da A. Elkann, “La Stampa”, 16.5.2004).

«M'interessava raccontare del Risoimento tutto quello che non ci hanno mai raccontato quando eravamo studenti. Nessuno ci ha fatto capire che quella è stata una stagione epica, romantica, e anche terribilmente crudele. […] Uno scrittore non deve avere confini, deve essere libero di cambiare scenari. Vagabondare mi è sempre piaciuto e così mi sono imbattuto in quel periodo. […] Il virus me lo ha passato Mario Martone, è stato lui a trasmettermi l'attrazione per quella fase storica, abbiamo lavorato insieme alla sceneggiatura del suo film Noi credevamo, e io, dopo, sono andato avanti. Adesso sto rivedendo il mio nuovo romanzo che parla appunto di quegli anni. […] Il film è del regista, e lo affermo con grande orgoglio. L'ho visto in versione integrale e posso dire che è meraviglioso. […] Mi sono innamorato di Mazzini. […] L'ho visto fuori dalle solite rappresentazioni, è un personaggio che, a mio parere, contiene tutto quello che gli italiani hanno sempre rimosso di se stessi» (G. De Cataldo, “La Stampa”, 6.3.2010).
 
«Sarà un film appassionante, parla di tradimenti, congiure e dell’amor di patria. Non sarà noioso, c’è molta azione tra bombe e sparatorie. […] forse non piacerà ai piemontesi»,  […] ho detto piemontesi, ma intendevo piuttosto leghisti e tutti quelli che oggi remano contro l’Unità d'Italia. Si parlava di Barbarossa, film che i leghisti hanno fatto a loro misura, se la suonata e cantata. E poi non sono andati neppure loro a vederlo. Insomma un film sull’Unità d'Italia farà storcere il naso a più d'uno che non si sente italiano» (D. Riondino, “La Stampa”, 6.3.2010).





«Noi credevamo che 30 copie o 3000 non dovessero fare alcuna differenza. Noi credevamo che i premi veneziani non dovessero decidere del valore di un film. Noi credevamo, e crediamo ancora, che Noi credevamo fosse e sia un capolavoro. Scusate il ripetuto gioco di parole, ma è determinato dalla volontà di tornare al film e al suo significato profondo. Intorno all'affresco risorgimentale di Mario Martone si sono agitati venti di polemica che non servono a nessuno. Detto che le 30 copie sul territorio nazionale sono una vergogna – di chiunque sia la colpa: di Raicinema che ha prodotto, di 01 che distribuisce, degli esercenti che aspettano i cinepanettoni di Natale con la bava alla bocca –, noi possiamo solo invitare i nostri lettori a formare file fuori dai cinema, a dimostrare ai mercanti che si sono impossessati del tempio che c'è ancora domanda di qualità. […] La Rai è ormai un commando suicida votato all'autodistruzione, per preciso diktat di chi ci governa: noi spettatori abbiamo solo la forza delle nostre scelte per dimostrar loro che sbagliano. Noi credevamo esce in una copia lievemente ridotta rispetto al film visto a Venezia. Martone giura di esserne soddisfatto: “Il film è migliorato, ho asciugato soprattutto la prima parte: se prima era un andante, adesso è un allegro”. Il regista pensa al film come ad una sinfonia in 4 movimenti, piuttosto che ad uno sceneggiato tv in 4 puntate. Non ha torto, se si pensa che sinfonie e melodrammi (assieme ai feuilleton) erano gli intrattenimenti popolari dell'Ottocento. […] Non siamo molto lontani dal lavoro di De Cataldo per Romanzo criminale: protagonisti immaginari ma molto vicini al vero, contesto reale e documentato al mille per mille. […] Ci si interroga: l'Italia deve essere monarchica o repubblicana, meridionale o piemontese? È la dialettica dei “due Risorgimenti” che per Martone è il cuore speculativo del film. Fin da prima di Garibaldi e dei Mille, l'Italia nasce divisa: chi la vuol repubblicana (Mazzini) e chi persegue l'annessione del Sud al Piemonte (Cavour), e questa – passateci il paradosso mancanza di unità sul progetto di Unità è alla radice dell'Italia di oggi, e fa di Noi credevamo una riflessione sul nostro presente» (A. Crespi, “l’Unità”, 12.11.2010).
 
«Per rimanere su quel "noi", che nel film di Martone appare, scompare e ricompare come un soggetto storico perennemente in bilico, ci teniamo a dirlo subito: Noi abbiamo pianto. Tanta e tale è l'intima commozione di fronte ad un possente monumento nazionale come Noi credevamo. Soprattutto in quel finale quando le parole di un protagonista risuonano in un parlamento italiano vuoto. Cinema fuori durata che scandaglia ed esplora il Risorgimento italiano nascosto, sfiorando le icone (Mazzini e Garibaldi) quasi fossero comparse. E più che la nozione scolastica di patria, o le sopracciglia imbiancate di qualche repubblicano del secolo passato, Noi credevamo racconta dell'idealità e coerenza che hanno contraddistinto le lotte politiche contro l'ingiustizia e l'oppressione di ogni tempo. […] Centosettanta minuti (il director's cut veneziano era di duecentoquattro) per entrare in un mondo ottocentesco minuziosamente ricostruito, recitato con impeto da un cast inarrivabile e girato in stato di grazia da Martone cineasta. Noi credevamo è il film italiano più politico di questo inizio secolo: saggio ragionato e lucido sulle storture che resero l'Italia unita e di cui ancora oggi subiamo le conseguenze culturali; sentita e ispirata messa in scena del fallimento di ogni sacrosanta utopia democratica. In alcuni momenti sono solo le candele ad illuminare la scena, la nuca eburnea di Inaudi, gli occhi infervorati di Binasco o è solo il fuoco a screziare visi, camice rosse e fucili puntati in alto degli arrembanti garibaldini, simbolico telone rosso da Novecento di Bertolucci. Più utile di un manuale di storia o di un pistolotto moralista sulla corruzione che tanto vende oggi» (D. Turrini, “Liberazione”, 12.11.2010).
 
«Il Risorgimento come "passato che non passa", radice se non specchio deformato del nostro presente, album di famiglia già dotato di tutti i tipi e le tendenze che popolano la vita pubblica italiana. Idealisti e traditori, trasformisti e cospiratori, terroristi e uomini forti, esuli e prigionieri politici. Noi credevamo non è solo un magnifico affresco che rovescia come un guanto ciò che credevamo di sapere sulla nascita della nostra nazione rendendo queste figure più vive che mai. È una rassegna commossa e insieme spietata di intrighi ed orrori, occasioni mancate e lotte fratricide, che scava nell'eterna distanza fra Nord e Sud, aristocratici e borghesi, estremisti e moderati, monarchici e repubblicani. […] Ambizioso, tumultuoso, appassionante. Un calcio salutare a retoriche e Bignami. Cast espanso e strepitoso» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 12.11.2010).
 
«Pugnace tentativo d'affresco antiretorico, kolossal autarchico dalla travagliata gestazione e libera rivisitazione del libro omonimo di Anna Banti, Noi credevamo fa una certa fatica a districarsi dalle polemiche che ne accompagnano l'uscita. Lo strano è, però, che la maggior parte di queste schermaglie extra-testuali sono alimentate proprio da Mario Martone, il regista e cosceneggiatore insieme a Giancarlo De Cataldo: prima d'interrogarsi sul fervore del racconto, sulla sua presa emotiva e spettacolare o sull'originalità delle soluzioni stilistiche adottate, lo spettatore rischia, in effetti, di doversi per forza confrontare con la conclamata carica eversiva dell'interpretazione, per così dire, martoniana del Risorgimento. Non sarà un peccato grave, ma di solito i grandi film producono questo tipo di riflessioni, anziché farsene precedere come se fossero altrettanti test d'ingresso (per non dire autodafé cui far seguire l'abiura o la condanna degli eretici). […] Certo lontano dai procedimenti viscontiani (da Senso a Il gattopardo) che mescolano il fattore storico con quello umano nel crogiuolo fiammeggiante dell'epica e del melodramma, Martone gioca la posta drammaturgica sulle scelte e le esclusioni: dei padri nobili del Risorgimento, emerge per esempio quasi solo Mazzini, al quale sono peraltro attribuite le discutibili stimmate del terrorista ante-litteram; di Garibaldi s'intravede in extremis solo la silhouette, circonfusa da un'ammiccante luce celestiale; Cavour risulta abrogato del tutto e Crispi è utilizzato per farne un topico esemplare del voltagabbana italico. Tutto bene, se dal complesso di storie, ricostruzioni e suggestioni non finisse per promanare un che di didascalico e d'impettito, da fiction tv: sia pure applicati e diligenti, i bravi attori funzionano non a caso come portaparola dell'autore, pedine di un teorema per immagini, figure sempre un tono “sopra” a un genuino afflato narrativo. Forse perché l'encomiabile sforzo compositivo ritorna sempre - come abbiamo detto - al doping del messaggio, all'ossessione del collegamento del presente col passato (e non viceversa) che include facili anacronismi (un fabbricato abusivo vista mare, vetri antiproiettile in prigione, un'insegna al neon parigina) per sottolineare al colto e all'inclita la continuità dei presunti “disastri” risorgimentali» (V. Caprara, “Il Mattino”, 12.11.2010).
 
«Opera piena di energia, di ardita gente giovane, di ragazzi rivoltosi; e insieme storia di una sconfitta, film tragico. Noi credevamo (il titolo è di Anna Santi) di Mario Martone, realizzato per la Rai nel molto celebrato centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, arriva a compiere un'impresa molto difficile, intellettualmente onesta: raccontare il Risorgimento senza esaltazioni d'occasione ma per quanto fu per i protagonisti: una delusione profonda. Ancora oggi resistono i conflitti mai superati di allora: conflitto tra Nord e Sud del Paese, tra conservatorismo autoritario e democrazia libertaria, tra padronato e proletariato. La lìnea del potere temporale dei papi e la nascita della Repubblica, unici sostanziosi mutamenti istituzionali, hanno preteso molto tempo e restano imperfetti. Il lavoro culturale compiuto da Martone è davvero ammirevole. Il film, basato su tre personaggi e diviso in quattro periodi, parlato in molti dialetti e diverse lingue, mutilati di circa mezz'ora rispetto alla versione originale, di stile ineguale, non ha nulla di scolastico nè di esaustivo (mancano gli austriaci e l'Austria, mancano il 1848 e il I860 delle Cinque Giornate di Milano e dell'impresa dei Mille)» (L. Tornabuoni, “L’Espresso”, 25.11.2010).
 
«Anna Banti pubblicò, nel1967, un romanzo che oggi potremmo ben definire di matrice storico-fantastica: Noi credevamo - divenuto a distanza di 43 anni un ampio film “in costume” diretto da Mario Martone […] -, è un racconto limpido e struggente, arioso e ondulato, vestito a festa da una lingua che oggi definiremmo superata, ma che risulta semplicemente il prodotto di una precisone culturale ancora adesso invidiabile. […] Se il film ha una sua vita ancora da percorrere, il romanzo - disponibile negli Oscar Mondadori con una postfazione del compianto Enzo Siciliano - torna a galla in una tradizione di recupero storico che vanta tasselli remoti e incursioni di recente fattura: Piccolo mondo antico di Fogazzaro, Il diavolo al Pontelungo di Bacchelli, fino al ponderoso Le armi, l'amore di Emilio Tadini, per arrivare alle tentazioni neo-risorgimentali in chiave postmoderna di Antonio Scurati e Giancarlo De Cataldo, con Una storia romantica e I traditori. Noi credevamo sorprende innanzitutto per la costruzione narrativa, moderna, scaltra e ben calibrata in un lungo percorso a ritroso nella storia mancata di certi piccoli eroi del Risorgimento. Nella Torino ostile - almeno agli occhi del vecchio protagonista morente - del 1883, il calabrese Domenico Lopresti ripercorre le sue memorie di rivoluzionario fallito, da un capo all'altro di quell'Italla che - egli per primo lo intuisce - non sarà mai un unico ceppo di luoghi comuni condivisi. Repubblicano un po' anarchico, ostile ai Borboni ma anche a certe pseudo-rivolte ideologiche mai concretate - dalla Carboneria a un Mazzini più ideologo velleitario che solido manovratore politico -, Lopresti è figlio di un Paese lacero, ignorante e caciaroso ma pronto a offrire le terga a chiunque lo invada con una divisa sgargiante. Impoverito, vinto, padre già anziano di due figli che saranno. adulti nel Novecento, Lopresti vive i suoi ultimi giorni torinesi - una Torino vista in tutti i suoi difetti provinciali d'antan - con il rimpianto di non aver portato a termine una missione epocale, quella di dare vita a un'Italia libera, moderna e repubblicana. […] L'eroe mancato della Banti attraversa un'epoca di determinanti transizioni giungendo alla conclusione che ogni tentativo di unificare l'Italia sia destinato a rimanere un'utopia. La dolente epopea del progressista calabrese diventa l'occasione mancata della Storia, in un romanzo ancora oggi - questo il suo pregio in tempi di becere ambizioni secessioniste - scomodo e attuale. […] Un Risorgimento, quello della Banti, che ancora oggi continua a tentare di ricucire gli strappi, in questa Italia da reality in cui annaspiamo, con tante autostrade ma senza più indicazioni e mete comuni» (S. Pent, “La Stampa”, 6.11.2010).
 
«”Il mio è un film tragico e insieme catartico. La prospettiva è critica, ma dire verità scomode non significa levare peso e autorità alle grandi figure del Risorgimento. Anzi, calarle in questa dimensione serve ad avvicinarle, mi auguro che gli spettatori, soprattutto quelli più giovani, trovino nella rappresentazione la spinta per penetrare meglio la storia della nostra unità”. Il film, dice Martone, è tutto rigorosamente basato su lettere e materiali originali, non ci sono deformazioni e non si strizza l'occhio all'attualità”. I riferimenti all'oggi sono “visivi”, corrispondono a tre scene girate nel presente, la più suggestiva è quella di una costruzione incompiuta di cemento, uno di quegli scempi che chi conosce il Sud è abituato a vedere, magari incastonati dentro paesaggi da favola. Nella figura di Giuseppe Mazzini (Toni Servillo), tormentato, febbricitante, eppure lucido e preciso negli ordini da impartire all'esercito dei rivoluzionari, Martone vede germi d'integralismo molto attuali: “La sua è una figura shakespeariana, amletica, straordinaria. Mazzini aveva immaginato l'Italia unita in un momento storico in cui era impossibile prefigurarla, la sua idea laica passava per Machiavelli e per il Rinascimento, dava corpo all'immagine dei futuri italiani”. Forse “ciclotimico”, sicuramente “ricercato dalle polizie di tutt'Europa”, Mazzini, dice il regista, “allevava generazioni di giovani pronti a immolare le proprie vite. Era anche profondamente religioso e la sua idea di martirio fa pensare all'integralismo islamico”. Marx e Engels non lo amavano: “Ne parlano come di un terrorista, ne contestano le strategie, ma la guerra di un Paese in cerca dell’indipendenza non poteva non essere cruenta”. […] “Insieme al Risorgimento non c'è stato il rinnovamento morale in cui si sperava, il sogno si è realizzato a costo di patimenti e di misfatti, ma poteva anche andare in un altro modo. Accanto all'ansia di giustizia c'era il desiderio di pane, lavoro e istruzione per tutti. L'unione non doveva essere solo geografica, doveva corrispondere a un rinnovamento morale, e quello invece venne meno”. Luca Barbareschi recita nei panni di Antonio Gallenga, scrittore e giornalista, sostenitore delle politiche repressve di Crispi: “Questo è un film importante, perché è fatto da un artista, perché ci sono i 150 anni dell'Italia e perché c'è un Paese che sta andando in pezzi. Il Sud rischia di essere abbandonato, è un momento rischioso, solo uno psicotico può immaginare la Padania, l'Italia deve restare coesa”» (F. Caprara, “La Stampa”, 8.9.2010).
 
«Il film, tagliato di mezz'ora rispetto alla presentazione veneziana pur se resta diviso in quattro parti, sarà in sala dal 12 novembre in 30 copie. Ed è proprio su questo punto che si accende la polemica. Il produttore Degli Esposti dice che scriverà ai vertici Rai per ottenere un maggiore appoggio pubblicitario: “È un film (budget 6 milioni di euro) che ha avuto una genesi sofferta. La Rai ci ha messo 3 milioni, un po' meno del compenso del direttore del comitato dei 150° dell'Unità d'Italia, Giovanni Minoli, con il quale non ho avuto il piacere di intrattenermi sul film. Noi credevamo, è un dramma complessivo che riflette il disastro del momento attuale”. Risponde per l'Azienda Paolo Del Brocco, direttore generale di RaiCinema: “Il problema è squisitamente di mercato. Che ci possiamo fare se i giovani vanno a vedere solo cinepanettoni?”» (S. Robiony, “La Stampa”, 10.11.2010).
«”Il film Noi credevamo del regista Mario Martone dà una visione distorta del Risorgimento. Presenta i Piemontesi come un esercito di massacratori di meridionali. Mentre tace sui sacrifici e sugli atti di valore che le truppe e la nazione sabauda compirono a favore dell'unità italiana. Noi, discendenti delle famiglie che pagarono con il sangue e sacrifici economici quelle imprese, vogliamo dirlo ad alta voce”. Sono parole di Filippo Pralormo, presidente della sezione Piemonte e Valle d'Aosta dell'”Associazione Dimore Storiche italiane”. Risponde a Martone con una mostra, allestita all’Archivio di Stato di Torino» (M. Lupo, “La Stampa”, 19.11.2010).
 
«Chi siamo? Cosa ha fatto e cosa fa dell'Italia l'Italia? Noi credevamo non è solo un film sul Risorgimento è un film del risorgimento. Il film di Martone proclama che - se pure fummo mai un popolo di poeti, navigatori e santi - gli italiani di ieri e di oggi sono stati e sono un popolo di scenografi, costumisti e truccatori. E bisognerebbe aggiungere: di registi inventivi, bravissimi attori, talentuosi coreografi, fotografi, parrucchieri, macchinisti e illuminotecnici. Rimettendo in scena i decenni del processo di unificazione, il film rivendica e riscatta il patrimonio storico della Nazione e lo fa dimostrando che si tratta innanzitutto di un patrimonio artistico. Ma la cosa confortante, addirittura entusiasmante, è che dimostra che si tratta di un patrimonio vivente. La continuità che questo film bellissimo stabilisce con l'epoca lontanissima da esso narrata è una continuità di mezzi artistici. A farlo splendere è quell'insieme di abilità, saperi e mestieri legati alle arti della scena. Le stesse che ebbero tanta parte - una parte attiva, generativa, secondo alcuni addirittura propulsiva - nel movimento risorgimentale da cui scaturì l'unità d'Italia. L'Italia di Mario Martone è ancora l'Italia di Giuseppe Verdi. O, almeno, quella che ebbe Verdi come padre della Nazione. In questa brillante espressione dell'estro artistico italiano c'è, forse, anche una diagnosi della crisi presente e, forse, addirittura una strategia per il futuro. […] E le arti che rivivono e risplendono in questo film sono, per l'appunto, quelle della più radicata e risorgimentale tradizione italiana: le arti della scena e dello spettacolo dal vivo. Non a caso, l'impianto teatrale del film si esalta nei suoi due medaglioni centrali, quando la storia si rinchiude negli interni claustrofobici di una prigione borbonica o negli interni non meno asfittici della paranoia complottistica e bombarola degli attentatori alla Felice Orsini. Insomma, tu una sera vai a vedere Noi credevamo e scopri, incredulo, che il Risorgimento arriva fino a te. Scopri che quelle abilità, quei mestieri quelle arti che hanno prima contribuito a fare l'Italia e poi a farla grande nel mondo (Rossini, Verdi e Puccini sono ancora oggi tre dei principali motivi del nostro residuale prestigio internazionale) sono vive e lottano insieme a noi. […] Un Paese in grave crisi economica e sociale come l'Italia, in un cronico declino da decrescita industriale e morale, dovrebbe forse risollevarsi puntando proprio sull'immaginazione creativa, la cui prima formidabile invenzione fu l'Italia stessa» (A. Scurati, www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali, 23.11.2010).
 
«Noi credevamo (il titolo viene dal libro di Anna Banti, che solo in minima parte è poi confluito nel film) è la ricerca di un altrove che stia al di là delle geografie della Storia, il viaggio in un'Italia da immaginare, da trovare nella visibilità del desiderio. Al di là dell'apparato storiografico e del solco celebrativo dei 150 anni, questo è un film che ha il coraggio di parlare di Storia e di Italia guardando alla sua integrità, all’interezza del suo essere corpo che immagina se stesso nel sogno di una gioventù che idealizza. Tre ragazzi del sud, di diversa estrazione e diverso destino nel cuore della Giovane Italia mazziniana, spinti dalla repressione borbonica nel pieno di un’idealità antimonarchica e popolare che si concretizza in differenti fughe. Al loro movimento Martone contrappone la staticità delle figure sagomate nella Storia, a partire dal Mazzini di Toni Servillo, ceroni di una concezione della Storia come luogo di ideali sacri, lontani dal vibrare della vita, chiusi nella penombra dei salotti, spinti nell’altrove dell’esilio. Al di là di tutto quello che si è detto e che si può dire degli aspetti storici e politici di Noi credevamo, ciò che resta determinante ai nostri occhi è il rapporto estremo che Martone ha costruito con lo spazio nazionale: a fronte dell’estraneità, dell’extraterritorialità delle sagome storiche, c’è il radicarsi dei tre protagonisti immaginari nella flagranza del territorio, nella pulsione delle geografie attraversate dai loro corpi desideranti. Corrono, Angelo Domenico e Salvatore, agiscono, finiscono in prigione, laddove i nomi della Storia sono astratti nel loro pensiero, nella funzione che assumono. E poi Martone lavora su un’Italia che è cinema nella nostra memoria rosselliniana, praticando il dissidio tra la statuaria prassi dell’ultima stagione e il pragmatismo neorealista: Noi credevamo sta in Paisà e Anno uno, vivendo nel dolore di Roma città aperta la disillusione di un tempo che non si trasforma in Storia se non per virtù delle singole storie»
 
«Ci sono voluti ben sette anni di lotte, delusioni, timori e speranze, prima che Mario Martone riuscisse a portare a termine Noi credevamo, il suo film sul risorgimento italiano che nell'arco di tre ore e mezza affronta nodi ancora ampiamente irrisolti della nostra storia nazionale. Reduce a mani vuote dal Festival di Venezia, com'era prevedibile d'altronde, il film di Martone, proprio com'è già accaduto a Vincere di Marco Bellocchio, è stato accolto con una reazione quintessenzialmente italiana. Da un lato, inevitabilmente, si è lodato lo sforzo, il tentativo, il cimento erculeo del regista partenopeo, dall'altro i numerosi distinguo, sia degli storici che dei critici cinematografici, hanno espresso benissimo il senso di disagio che Noi credevamo suscita. Proprio com'era accaduto con Vincere, lodando il tentativo si prendevano le distanze dal progetto attaccandone inevitabilmente il senso. Infatti, eliminati i convenevoli festivalieri, sia a Bellocchio che a Martone non si perdona di avere osato affrontare la storia del nostro paese secondo modalità che non la danno affatto per "passata". Infatti sia Bellocchio che Martone commettono con straordinaria audacia due crimini in uno, stando ai tutori dell'ordine intellettuale (anche quelli – più o meno – insospettabili). Entrambi affrontano, infatti, non solo la storia italiana al presente, ma lo fanno attraverso l'agone della forma cinema, lontanissimi dalle semplificazioni prodotte dal pensiero unico televisivo; sia esso declinato in forma di mero intrattenimento che calato nella dimensione classica della fiction "impegnata". […] Noi credevamo è probabilmente il miglior film italiano degli ultimi decenni. Uno dei pochissimi sussulti di dignità e vitalità che, per citare Domenico Starnone (cfr. Almanacco del cinema), possono contribuire a creare "un contesto di vivacità democratica". Cosa di cui il nostro cinema, come evidenziato da tutti gli interventi raccolti nell'Almanacco del cinema, ha un bisogno tremendo. Perché, sempre Starnone, "rischiamo di essere un paese dove anche quando ci si sente ‘fuori’, ‘nuovi’, in realtà si è ‘dentro’ fino agli occhi". […] Raramente un film italiano chiama alla vigilanza critica. Noi credevamo è uno dei pochissimi titoli degli ultimi decenni del cinema italiano che merita di essere amato e difeso a spada tratta. E che deve diventare patrimonio condiviso non solo del pubblico cinematografico ma della cultura italiana tutta. Se ciò non accadesse, il nostro paese avrebbe nuovamente perduto un'occasione importante non solo per ragionare su se stesso ma, soprattutto, per ricreare quegli ambiti di confronto poetico e democratico che in questa particolarissima congiuntura sono ridotti a pochi cenacoli abitati da ancor meno resistenti. […] Noi credevamo è un film necessario. Un film che pone delle domande precise al cinema italiano e, soprattutto, all'Italia. La qualità e la forza delle domande è ineludibile. È auspicabile che tale sia anche la qualità delle eventuali risposte. Se ci saranno. Noi credevamo non è ancora un Noi crediamo. È un tentativo di dire "noi". Un'operazione non certo facile. Non in questo paese» (G.A. Nazzaro, http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-film-della-settimana-noi-credevamo-di-mario-martone/ 22.9.2020).
«Code pazienti e partecipi sotto la pioggia che sta funestando una parte della nostra penisola, sale esaurite, applausi e commozione: tutto questo sta succedendo da venerdì nella trentina di sale della penisola in cui viene proiettato non l'ultimo cinepanettone o il blockbuster a stelle e strisce zeppo di effetti in 3D, ma Noi credevamo di Mario Martone, affresco risorgimentale di tre ore, visto dal punto di vista dei mazziniani, i più delusi dalla stagione risorgimentale […] il pubblico ha risposto, tanto che si pensa di aumentare il numero delle copie distribuite, visto che in città come Genova e in Regioni come Marche ed Abruzzo nessuno può vedere le avventure di Domenico, Angelo e Salvatore, tre ragazzi amici nonostante la diversa provenienza sociale che decidono di affiliarsi alla Giovine Italia: la Storia li dividerà, quella storia d'Italia a cui si pensa che gli italiani non siano interessati più di tanto. Ma le code di questi giorni sembrano dimostrare proprio il contrario» (E. Romanello, www.nuovasocieta.it/spettacoli/9373, 16.11.2010).
 
«Dall’aspirazione velleitaria di giovani meridionali antiborbonici ai circoli intellettuali di esuli e patrioti a Parigi e a Londra, dal terrorismo risorgimentale alla repressione sudista dei Savoia, dal romanticismo nobiliare alle plebi rivoltose, dalle esecuzioni in piazza ai salotti aristocratici, dalle sonate di Bellini alle imboscate sull’Aspromonte, dalle prigioni cavernose alle baie scintillanti, da Mazzini a Crispi, il Risorgimento destrutturato da Martone e De Cataldo somiglia a uno sceneggiato quanto la Divina Commedia a un romanzo di fantascienza. […] Un coro possente in un teatro antico e secolare dai velluti consunti, gli specchi opachi, le macchie d’umido sulle pareti, che intreccia voci e volti di Toni Servillo, Luca Zingaretti, Valerio Binasco e Luigi Lo Cascio, sopra tutti gli altri. A parte la sferzata dell’interpretazione storica (Gadda rimproverava Monicelli per La grande guerra, chissà cosa avrebbe detto di questo film), a parte la creatività dei set (era dai tempi dei migliori Taviani o del Germi del Brigante di Tacca del Lupo o del Rossellini dell’Amore che la campagna meridionale non ispirava un cinema così interessante e misterioso), a parte la personalità dell’occhio e la compostezza dei gesti e la fissità degli sguardi (tra il Rossellini della Presa del potere di Luigi XIV e De Oliveira), ciò che veramente colpisce è la densità e la continuità del sentimento in cui è in immersione tutto il film, quel senso di aspirazioni disattese, di destino avverso, di ideali andati a male, di violenta rassegnazione e rancore nichilista, di ingiustizia e indifferenza, di intrigo e disfatta, di rammarico e fallimento» (M. Sesti, www.film.tv.it/recensione.php/film/4248/noi-credevamo).
«Il verbo all’imperfetto contiene in sé il carattere di indeterminatezza: è il tempo sospeso, degli stadi liminali, che non ammette il raggiungimento finale dell'azione. Generalmente definito come il tempo del semplice tentativo, l’imperfetto serve a indicare  un  qualcosa che  poteva  o doveva succedere ma non è successo. Queste non sono soltanto suggestioni che il titolo Noi credevamo potrebbe evocare, ma il vero e proprio tema centrale dell’ultima regia di Mario Martone. […] Il processo d’unificazione è mostrato come un lungo procedere di tentativi falliti e di cospirazioni logoranti. I suoi personaggi, costretti in un frustrante isolamento che li rende incapaci di riporre fiducia l'uno nell'altro, sono in balia di molte idee altrettanto confuse. A  Martone non interessa mettere in scena gli eventi risolutivi, vuole lavorare sui quei momenti, quelle situazioni poco affrontate dalla storiografia istituzionale che è solita promuovere un Risorgimento moderato e annessionista. […] Così come i grandi eventi dell’epopea risorgimentale sono trattati a mo’ di echi lontani, allo stesso modo i protagonisti del periodo sono solo nomi, ombre, presenze fantasmatiche lontane dal centro dell’azione, chiusi nella penombra dei salotti, spinti nell’altrove dell’esilio. […] A differenza di Angelo, Domenico e Salvatore che corrono, agiscono, finiscono in prigione, le grandi figure della Storia sono ritratte da Martone in maniera statica, distanti dal vibrare della vita e della lotta. Il regista sceglie di affidarsi ad un percorso antiretorico e antieroico, si smarca dai toni enfatici dell’epica risorgimentale, così come dalla diligente rievocazione cronologica, e cerca piuttosto di far emergere lo spirito controverso dell’epoca. Noi Credevamo è un saggio di storiografia non ufficiale, che affonda nelle pieghe e nelle piaghe di un’Unità d'Italia già tarata nelle sue fondamenta dai molti equivoci di fondo, ma soprattutto dal mancato amalgama delle tante forze che vi contribuirono. […] Nel suo procedere, la Storia è fotografata con travolgente cupezza, i luoghi si fanno sempre più angusti e tormentati, gli ambienti, da nascondigli dove si prepara l’azione, diventano tane in cui ci si ritira dopo il fallimento. È così che appare il parlamento nella splendida sequenza finale. […] L’analisi storica di Martone è impietosa ma necessaria, per lui è nella mancata rivoluzione risorgimentale che bisogna rintracciare le ragioni per cui anche oggi l'Italia è un paese in lotta con se stesso» (M. Marelli, www.effettonotteonline.com/news/index).


Scheda a cura di
Franco Prono


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