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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Dalla nube alla resistenza
Italia, 1978, 35mm, 105', Colore

Altri titoli: From the Clouds to the Resistance

Regista
Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

Soggetto
da “Dialoghi con Leucò” e “La luna e i falò” di Cesare Pavese

Sceneggiatura
Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

Fotografia
Saverio Diamanti, Gianni Canfarelli

Suono
Louis Hochet, Georges Vaglio

Montaggio
Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

Interpreti
Olimpia Carlisi (la Nube, Nefèle), Guido Lombardi (Issione), Gino Felici (Ippòloco), Lori Pelosini (Sarpedonte), Walter Pardini (Edipo), Ennio Lauricella (Tiresia), Andrea Bacci (primo cacciatore), Lori Cavallini (secondo cacciatore), Francesco Ragusa (Litierse), Fiorangelo Pucci (Eracle), Dolando Bernardini (il Padre), Andrea Filippi (il Figlio), Mauro Monni (il Bastardo), Carmelo Lacorte (Nuto), Mario di Mattia (Cinto)

Produzione
Danièle Huillet e Jean-Marie Straub per Institut National de l’Audiovisuel, Rai2, Janus Film und Fernsehen, Artificial Eye

Note
Assistenti: Leo Mingrone, Isaline Panchaud, Manfred Blank, Rotraud Kühn, Vincent Nordon, Stéphanie de Mareuil, Paolo Pederzolli; musica diretta da: Gustav Leonhardt; parrucchiera: Silvana Todero; altri interpreti: Luigi Giordanello (il Valino), Paolo Cinanni (il Cavaliere), Gianni Toti (il parroco). Maria Eugenia T., Alberto Signetto, Paolo Pederzolli, Ugo Bertone, Gianni Canfarelli, Domenico Carosso, Sandro Signetto, Antonio Mingorne (quelli del bar).

Alla fine, una didascalia scritta a mano: “en souvenir d’Yvonne, sans qui il n’y aurait point de Straub-Films. J-M. S.”
 
Le riprese sono durate cinque settimane nel giugno-luglio 1978.
 
Locations della prima parte: Maremma, Monte Pisano, dintorni di Pisa.
Locations della seconda parte: Santo Stefano Belbo, Langhe (CN)




Sinossi
Sui testi di Dialoghi con Leucò (1947) e La luna e i falò (1950) di Cesare Pavese viene tracciata la parabola dell'umanità dal mito alla storia. Nel cielo del Mito, i destini degli umani sono soggetti alla volontà degli dèi: ed è sui temi legati al potere che si articolano i dialoghi della prima parte del film. Nella seconda parte i racconti di guerra dell'artigiano-musicista Nuto trovano un attento ascoltatore nel "Bastardo", rientrato dall'America nelle natie Langhe.




Dichiarazioni
«Pavese è il Brecht italiano. Almeno, è questo l’aspetto di Pavese che proponiamo nel film. In certi punti, è andato oltre Brecht. Intanto, Pavese, malgrado tutto, non era un ragazzo di città. E poi ha un senso del destino che Brecht non aveva. C’è anche un Pavese che è rimasto al di qua di Brecht; sono due aspetti che abbiamo voluto mettere insieme nel film e studiare l’uno in funzione dell’altro. Vedere nel Pavese interessato al mito un ritorno alle “forze oscure”, all’irrazionalità, come dicono Calvino e altri, è sbagliato. Pavese vede il mito come memoria collettiva di un pezzo di storia rimossa e lontana. Proprio dove sembra più antibrechtiano è simile a Marx e Engels che, alla fine della loro vita, andavano a studiare i rapporti di produzione sempre più lontano, fino agli Assiri. E poi ci sono episodi dei Dialoghi con Leucò che hanno una dialettica proprio brechtiana, come quando il vecchio pastore fa un falò per chiamare la pioggia e dice al figlio: “uno storpio o un cattivo non fanno niente di bene, era giusto bruciarli, sacrificarli agli dei, perché gli dei ne avevano bisogno per godere” E il figlio si alza e dice: “non voglio, fanno bene gli dei a guardarci patire, fanno bene i padroni a mangiarci il midollo se siamo stati così ingiusti tra noi altri”. E anche la riflessione di Pavese sugli dei, che sono un’invenzione degli uomini e diventano presto una nuova forma di oppressione perché apportano una legge che non esisteva. C’è da dire che Pavese vede anche il lato progressista di questa invenzione. Infatti, Eracle dice che gli dei “hanno cacciato nella grotta tutti quelli come Litierse”, che “spargevano il sangue per nutrire la terra”. Comunque il film è il più ateista che ci sia; e siccome gli dei sono anche i padroni, penso che abbiamo tirato fuori non solo il Pavese sinceramente comunista, ma anche il Pavese profondamente anarchico, nel senso storico della parola. [...] I Dialoghi con Leucò e La luna e i falò, a livello di scrittura, sembrano opposti; ma noi, insieme agli attori, ci abbiamo lavorato con lo stesso metodo. [...] Tra la prima e la seconda parte ci sono molte corrispondenze. Il vecchio contadino, per esempio, dice: “Quante case di padroni bisogna incendiare, quanti ammazzarne per le strade e per le piazze prima che il mondo torni giusto e noi si possa dire la nostra”. Nella seconda parte c’è Nuto che dice: “E se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli allo scuro, allora sarebbe lui l’ignorante, bisognerebbe fucilarlo in piazza”. [...] Noi non abbiamo fatto un film sui contadini ma per i contadini; né un film sulle comparse. È un film sulla civiltà contadina, fatto con la collaborazione di contadini, i quali non interpretano se stessi, non vengono sfruttati come comparse; interpretano dei testi di un certo Cesare Pavese, dove si parla della loro storia, Qualcuno non aveva neanche sentito nominare Pavese; lo hanno scoperto con il lavoro sui blocchi di battute, non un Pavese generico. Non abbiamo chiesto loro di illustrare delle figure, ma di fare un lavoro che consiste nello strutturare, spezzare, ristrutturare, sovvertire e recitare un testo preciso. Non dico di più. Ciò che viene da loro in più e fa irruzione nel film è come la grazia di Dio: viene da sé, però bisogna lavorarci» (J.-M. Straub, “Paese Sera”, 7.5.1979).

«Al limite, di Pavese in quanto tale non ci interessa poi molto, quando arriviamo alla fine del film. Ciò che ci interessa sono le persone qualsiasi, che recitano i testi di Pavese, ciò che fanno nella vita, come recitano questi testi, i problemi che hanno con quello che dicono, e questo fa sì che quello che dicono, tutt’a un tratto, non appartenga più a Pavese, ma all’uomo che lo dice, lui stesso non sapeva all’inizio che fosse di Pavese. Il solo interesse del testo [...] è che la persona che l’ha scritto ha fatto un certo lavoro, ha prodotto qualche cosa che ci ha colpiti e che in seguito ha resistito – ed è da questo che si giudica che ha fatto bene il suo lavoro. [...] Quello che avviene con l’uomo che recita questo testo, per quanto riguarda la sua vita, per ciò che egli è, il suo modo di reagire, di camminare, di sedersi è [...]  molto più della critica del testo. Perché egli ne fa una cosa sua e, tuttavia, qualche cosa che resta a lato…» (D. Huillet, “Cahiers du Cinéma” n. 305, novembre 1979).





«Nell'ultimo film di Straub c'è qualcosa che è chiaro come un teorema. Se esiste oggi una corrente […], questo film è davvero controcorrente. Lo è anzitutto perché ha a che fare con Pavese, un autore morto trent'an­ni fa, troppo e male letto per vent'anni, detestato prima a destra poi a sinistra e oggi considerato, da convergenti borie avanguardistiche e acca­demiche, poco meno che un decadente o ritardatario di provincia. È controcorrente perché parla della resistenza con la "r" minuscola, quan­do, nella sua accezione storica è maiuscola, la parola è sputtanata né tan­tomeno sì vuol sapere che cosa "resistere" potrebbe voler dire oggi. È controcorrente perché si pronuncia contro gli alberi zoccolanti e i cristi in sosta sulla Eboli-Battipaglia per parlare dei contadini su cui sono pas­sati (e che hanno passato a noi) tutti gli dèi, nel cammino che va appunto dalla preistorica Nefèle, la Nube, fino alle Langhe 1950 della Luna e i falò. Nel dialogo di Edipo e di Tiresia, recitato nel film, le “cose supreme” vengono dette sul brontolio, in definitiva vincente, del carro tratto dai buoi senza che mai si perda il senso dello spazio naturale circostante, del coro segreto. Nella seconda parte, Nuto e il Bastardo discorrono di quel che accadde durante la Resistenza, camminando fra le piante testimoni e le forre. Straub però va assai oltre il discorso mitologico di Pavese, que­sto davvero è fin troppo discutibile; e coglie invece il sistema di pause e di strofe, di quel suo ultimo libro, quindi la sua scansione di lamento e pietà. La irriducibilità cui invitano tutti e due i personaggi (l'uno nell'ul­tima parte, leggendo le pagine che narrano dei sacrifici umani nei roghi del 1944; l'altro, in controcampo, ascoltando) non è, mi sembra, come probabilmente è invece in Pavese, l'attonito consentimento al ciclo del tempo e alla fatalità terrestre; è la fede in una lentezza della positività - come fraterna liberazione reciproca e aiuto - continuamente affiorante sotto e oltre le sconfitte e gli errori. […] Credo che nel film di Straub si senta, voglio dire, che la Resisten­za, derisa e odiata più di trent'anni fa dal prete e dalla gente del bar (con una "verità" anche storica sulla quale sarebbe bene riflettere) è la "resi­stenza" odiata oggi, nello stesso modo, e dalle stesse persone, quale che sia la carta ideologico-politica che hanno in tasca; dico la resistenza che opponiamo, o dovremmo opporre, alla democrazia autoritaria, alle tec­nocrazie imperiali e alla tolleranza regressiva. […] I "contadini" di Straub, non sono affatto una ennesima arcadia: sono la metafora, storica - o preistorica - di qualcosa che avviene sotto i nostri occhi, a Mirafiori, a Arese, dopo essere stata studiata al M.i.t. o altrove). […]  Egli è quasi unico esempio di artista in cui si uniscano la dia­lettica del negativo secondo Adorno, quella della profezia secondo Benjamin e quella del concreto presente che porta il nome di Brecht» (F. Fortini, “il manifesto”, 6.5.1979).
 
«Straub ha “rivitalizzato” i testi dello scrittore piemontese affidandoli alla recitazione “non teatrale” di uomini e donne che con le loro diverse “parlate” realizzano l’universo del popolare come corpo più autentico della storia. […] Anche in questo film Straub risale all’origine della Storia della nostra civiltà: il suo cinema è antico, quasi pre-tecnologico. […] Ancora una volta straub-Huillet affrontano il problema della rilettura cinematografica di un testo letterario. Con molto rigore e molta libertà al tempo stesso. Rigore perché i testi vengono rispettati nella loro essenzialità […] libertà perché vengono accostati brani originalmente separati per proporre nuove direzioni e nuovi sviluppi al significato. […] La nube è il mito. La resistenza è la storia. Ma quanto c’è di storia nel mito della nube? E quanto c’è di mito nella storia della resistenza? […] mito e storia qui dormono sulla stessa terra, affondando le radici nello stesso humus, che è un humus contadino, parlano la stessa lingua, anzi lo stesso dialetto. Ogni cosa, nel film, allude ad una ricomposizione di mito e storia, anche se a prima vista sembrerebbe il contrario. […] Com’è suo solito, egli non ci mostra realmente eventi, ma persone che raccontano questi eventi conversando tra loro. La parola, il dialogo, il potere evocativo del linguaggio interferiscono con il tipo di produzione di senso che il cinema mette in gioco: Straub lo sa bene.  E gioca su questi due differenti livelli di significazione, fino a creare una specie di […] fantastico contadino, il quale possiede due qualità assolutamente incompatibili e che non ritroviamo in nessun altro cineasta: a) L’indeterminatezza del tipo di percezione dell’oggetto quando questo ci viene proposto tramite descrizione verbale. E questa è la letteratura… b) La determinatezza del tipo di pefcezione dell’oggetto quando questo ci viene proposto tramite visione. E questo è il cinema» (S. Masi, “Cineforum” nn. 7/8, luglio/agosto 1980).
 
«Era inevitabile, probabilmente, che Jean-Marie Straub nel suo cammino di regista si imbattesse in Cesare Pavese. L’aspirazione decadente, al limite dannunziana, di Pavese a creare il mito non già involontariamente e inconsapevolmente attraverso il recupero dell’esperienza del reale (per esempio come Joyce nell’Ulysses o Melville nel Moby Dick) ma volontariamente e consapevolmente attraverso un’operazione culturale, alla fine doveva interessarlo, se non altro per una questione di affinità: Pavese nella sua narrativa non può non privilegiare il metodo; e infatti, alla lettura, fra noi e Pavese si frappone sempre, come un diaframma non del tutto trasparente, questa sua volontà di una scrittura che dovrebbe essere la mimesi del discorso parlato. Ora, analogamente anche Straub antepone il metodo alla rappresentazione. Ma l’affinità si ferma qui; perché Straub, pur rifiutando anche lui il dato psicologico, non mira, come Pavese, alla monumentalizzazione estetizzante del reale; e il mito, poi, non lo interessa affatto. […] I dialoghi con Leucò e La luna e i falò […] si prestavano in maniera particolare ad essere tradotti in cinema perché appaiono fondati su una struttura di conversazione favorevole alla sua concezione di una narrazione cinematografica estraniata ed estraniante che risparmi al regista la descrizione degli eventi e gli consenta di concentrarsi su notazioni apparentemente marginali. […] Cosa voglio dire on questo? Voglio dire che, in fondo, Pavese non è che un pretesto per Straub. Ma non è forse questa la regola di sempre nel rapporto tra il regista e l’opera letteraria dalla quale ha ricavato il film? […] Straub ci mostra realmente non già gli eventi che Pavese racconta nel suo romanzo ma due persone che si raccontano questi eventi nel corso di tranquille conversazioni rievocatrici, avendo come sfondo alle loro passeggiate una certa natura, un certo ambiente di paese. […] alla fine, ciò che preme al regista è di dire certe cose che riguardano Pavese soltanto indirettamente. Come Pavese, Straub vuol farci sapere che quello che conta è soprattutto il metodo» (A. Moravia, “L’Espresso”, 8.7.1979).
 
«Dalla nube alla resistenza si apre sull’immagine un po’ irreale di una dea (ammirabile Olimpia Carlisi) e si chiude sul racconto della morte di una donna, Santa, che i partigiani hanno dovuto uccidere perché li tradiva, anch’essi. All’inizio con la nube, e alla fine con la resistenza, c’è dunque un doppio gioco, una doppia appartenenza che hanno, per due volte, figure femminili. Una figura che materializza ciò attorno a cui gli Straubfilm girano: il tradimento. Poiché al di là di queste storie di dèi oziosi e di uomini ribelli, mi sembra che Jean Marie Straub e Danièle Huillet parlino sordamente di qualcosa che rimane largamente sconosciuta (perché da questa non-conoscenza dipende la solidità del legame sociale): che c’è una indifferenza profonda delle donne per ogni credenza in un ideale. Un’indifferenza che contrasta seccamente con la pietà un po’ melodrammatica di cui sono tessuti i rapporti tra gli uomini […]. Ecco ciò che resiste all’umanesimo e di cui l’uomismo, al contrario, si nutre: la donna. La donna: ciò che resiste a chi resiste, l’uomo. La donna, la roccia. Poiché la roccia non si tocca con le parole (terzo dialogo). La roccia: elemento indistruttibile che Straub, non del tutto panteista, si guarda bene dal chiamare natura. Le cose del mondo sono rocce, dice il cieco Tiresia – che è stato donna sette anni – ad un futuro cieco – che si chiama Edipo» (S. Daney, “Cahiers du Cinéma” n. 305, novembre 1979).
 
«Jean-Marie Straub e Danièle Huillet sono, insieme a Chris Marker, gli ultimi irriducibili e incorruttibili della settima arte; restii a qualsiasi compromesso, orgogliosi della loro inattaccabile alterità, chiusi in una torre d’avorio, al riparo dalla volgarità e dal cinico mondo dei “cinematografari”, vivono in un universo a parte, nel quale è difficile penetrare. Straub e Huillet rappresentano un modo di pensare che è lontano anni luce dalla nostra contemporaneità. Essi lanciano acuminati strali contro il degrado dell’uomo tecnologico, contro la dilagante falsificazione dei corpi e delle merci, contro il mercato globale, contro il  falso sviluppo pilotato dai nuovi fascisti del capitalismo avanzato. Da circa quaranta anni gli Straub perseguono con pervicace coerenza la poetica tutta personale di un cinema scevro da ogni sensazionalismo, da ogni spettacolarità gratuita e caratterizzato da una serietà e una misura che non ha eguali. [...] Il suono, la musica e la recitazione sono solo alcuni degli elementi che rendono il cinema di Straub e Huillet lontano anni luce dalla comune produzione. L’emissione vocale degli attori si sposa perfettamente con lo scandire del ritmo musicale. La voce umana, il rumore e la musica creano un insieme inseparabile e sovente indiscernibile. [...] Siamo del parere che i film di Straub e Huillet vadano visti almeno due volte: la prima per cogliere i suoni, la seconda per capire le parole. [...] Sebbene essi minimizzino il rapporto che li lega con la parola scritta, è tuttavia innegabile che quasi la totalità dei loro film è tratta da opere letterarie. Heinrich Böll, Pierre Corneille, Bertolt Brecht, Franco Fortini, Stephane Mallarmé, Cesare Pavese, Marguerite Duras, Franz Kafka, Friedrich Hölderlin e Elio Vittorini, sono solo alcuni degli autori cari a Straub e Huillet. Il riferimento ad un’opera letteraria permette di trasformare il vissuto altrui in vissuto universale, creando un secondo grado della scrittura cinematografica che libera il testo del suo hic et nunc per renderlo universalmente leggibile e assimilabile. L’autore cinematografico sparisce così dietro l’autore letterario, attraverso una operazione di progressiva cancellazione della propria identità storico-biografica» (I. Perniola, www.agalmaweb.org)


Scheda a cura di
Franco Prono


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