Sviluppo progetto: Edoardo Fracchia, Fabrizia Galvagno; consulenti alla sceneggiatura: Alejandro de la Fuente, Susan Gray; consulente al montaggio: Niels Pagh Andersen; assistente di produzione: Antonio Casa; assistente sul set: Alessandro Castelletto; coproduttori: Eila Werning per YLE / TV1, Leena Pasanen per YLE / Teema, in collaborazione con RTSI Televisione Svizzera e con il sostegno di: Regione Piemonte, Comune di Vercelli, Comune di Nonantola, Film Commission Torino Piemonte, Emilia Romagna Film Commission.
Film documentario sviluppato e distribuito con il supporto di Progetto Media.
Premio Internazionale del Documentario e del Reportage Mediterraneo CMCA/Rai 2004 come Miglior Documentario di Creazione con la motivazione: "la giuria è stata sedotta dall'approccio originale che mette in relazione il mito di Riso amaro, film culto del neorealismo italiano, e di Silvana Mangano con la realtà raccontata oggi da donne che 50 anni fa lavorarono negli stessi campi di riso in cui fu girato il film”.
«Sento molto l’impulso a recuperare il passato e la memoria perché io stesso provo
la paura di perdere il tempo che vivo. Il mio film smentisce l’idea di vecchiaia che si possiede abitualmente: le donne di
Sorriso Amaro trasmettono una straordinaria voglia di vivere che, come non si è arresa un tempo alla durezza del lavoro, così sa resistere oggi all’incedere del tempo che passa» (M. Bellizzi,
www.stefilm.it).
«Il documentario di Bellizzi [...] racconta un pezzo di storia italiana di cui furono protagoniste le centinaia di donne che lavoravano durante l’estate nelle risaie piemontesi, piegate otto ore al giorno con l’acqua fino alle ginocchia, un’attività che richiamava manodopera femminile da ogni angolo dell’Italia settentrionale, svolta per sopperire alle indigenze della vita negli anni della ricostruzione, ed allietata unicamente dai canti corali rimati in libertà e dalle visite dei ragazzi dei paesi circostanti. Lo stesso mondo dove Giuseppe De Santis ambientò il celebre Riso Amaro (1949), con Silvana Mangano nel ruolo di procace e innocente mondina [...].Il viaggio del documentario è dunque duplice: da una parte si configura come un viaggio nel tempo, nella memoria delle donne protagoniste, un andare a ritroso rievocando pensieri, azioni quotidiane, e passioni dell’età della giovinezza; dall’altra il viaggio è vissuto anche nella sua dimensione prettamente geografica, essendo compiuto fisicamente dal gruppo di venti-trenta ex-mondine che la troupe preleva dalle proprie regioni di appartenenza e conduce nuovamente sulla strada delle risaie piemontesi, in una vera e propria gita in pullman condita dai canti di una volta. Mano a mano che il gruppo si avvicina agli ex-campi di lavoro, si assiste ad un graduale ringiovanimento di queste vecchie signore, che sembra siano tornate magicamente a cantare, sorridere e stupirsi, come delle scolarette in gita scolastica. Su un registro che alterna dichiarazioni in macchina delle protagoniste, alla cattura ontologica delle loro emozioni in diretta nel ritrovare i luoghi della propria giovinezza (alcune accennano anche ai gesti della raccolta, come un tempo), Bellizzi realizza un documentario sincero, penetrante, in grado di schiudere momenti di verità autentica. Certo, il riferimento a Riso Amaro non rimane solo una boutade del titolo, ma viene esplicitato con citazioni testuali del film, oltre al fatto che lo scenario (inteso come sfondo) dell’opera di De Santis viene promosso ad argomento centrale del documentario; dirò di più, sembra quasi di assistere ad un sequel del film del ‘49, con le giovani protagoniste ormai cresciute, invecchiate, gli stessi set segnati dal tempo, lo stesso sapore dolce e amaro nella vita delle ex-mondine. Alcune di loro ricordano anche il periodo in cui la troupe di De Santis girò il film nelle risaie di allora, raccontando di aver partecipato alle riprese come comparse e di essere state pagate per una giornata di posa l’equivalente di quindici giorni di lavoro nei campi. Una testimonianza che marca profondamente la differenza tra quel cinema – una grossa produzione firmata da Ponti e De Laurentiis – e la vita disagiata che il film, fedele ad una matrice sostanzialmente neorealistica, intendeva descrivere, analizzando quella vita con uno sguardo in buona parte edulcorato» (P. De Sanctis, 10.9.2003, www.cinemavvenire.it).
«Da centinaia di anni la campagna attorno a Vercelli si identifica con la coltivazione del riso. Enormi distese di terra ogni anno in primavera si coprono d'acqua e diventano risaie. Il riso è una pianta molto delicata e necessita di particolari attenzioni per preservarlo dal giavone, un'erba infestante che lo soffoca. Il giavone è molto simile al riso e fino a 50 anni fa era necessaria la mano dell'uomo che doveva riconoscerlo ed estirparlo con le mani. La manodopera impiegata era quasi esclusivamente femminile, si puntava sulla capacità delle donne di resistere alla fatica e sulla precisione delle loro mani che velocemente potevano individuare le erbacce e sradicarle dal terreno. La forza lavoro locale non era sufficiente e così migliaia di donne, le mondine, giungevano dalle zone povere del nord Italia (dall'Emilia e dal Veneto) per trovare occupazione nella monda del riso che durava 40 giorni; l'età minima era fissata dalla legge a 14 anni. Le donne arrivavano con i treni speciali organizzati dal sindacato agricolo: carri bestiame che le costringevano a viaggi durissimi. Ogni giorno le mondine lavoravano dalle 8 alle 10 ore; entravano nell'acqua all'alba con i piedi nudi, dovevano stare piegate per eliminare l’erba l'infestante, un cappello di paglia (diventato il simbolo di questo lavoro) le proteggeva dal solleone e gli insetti pungevano in continuazione. Alla sera, sfinite dal lavoro, le mondariso avevano il tempo di rinfrescarsi in qualche corso d'acqua per poi tornare in cascina a cenare: riso e fagioli per 40 giorni! Per riposarsi c'erano i dormitori, enormi stanzoni ricavati nel sotto tetto della cascina, con le brandine di ferro e un materasso riempito di paglia. Le più anziane crollavano per la stanchezza subito dopo il tramonto e le giovani, invece, uscivano sull'aia, dove le aspettavano i ragazzi. Qualcuno portava una fisarmonica e immediatamente si dimenticava la stanchezza e si cominciava a ballare. Per alcune la monda fu l'occasione per incontrare l'amore. Quando tutto il riso era stato ripulito e assestato la stagione di monda finiva, la paga era fatta di pochi soldi e di 40 kg di riso da portare alle famiglie bisognose. Le donne ritornavano in treno, stravolte e spesso così mal ridotte da non essere accettate dagli altri viaggiatori. A casa tanta miseria, per molte marito e figli ad aspettare: non c'era certo tempo per il meritato riposo. Contro la fatica quelle donne avevano da opporre solo la giovinezza che esprimeva nel canto tutta la sua forza liberatoria. Dalla metà degli anni 50 il progresso tecnologico permise di usare diserbanti chimici contro le erbe infestanti: un solo trattore poteva fare il lavoro di 100 mondine e non ci fu più bisogno della manodopera femminile» (www.stefilm.it).