Altri titoli: The Bandit, Le bandit
Regia Alberto Lattuada
Soggetto Alberto Lattuada
Sceneggiatura Oreste Biancoli, Mino Caudana, Alberto Lattuada, Tullio Pinelli, Ettore Maria Margadonna, Piero Tellini
Fotografia Aldo Tonti
Operatore Giovanni Fontana
Musica originale Felice Lattuada
Suono Mario Amari
Montaggio Mario Bonotti
Scenografia Guglielmo Borzone
Aiuto regia Aldo Buzzi
Interpreti Amedeo Nazzari (Ernesto Bruneri), Carlo Campanini (Carlo Pandelli), Carla Del Poggio (Maria), Anna Magnani (Lydia), Mino Doro (Mirko), Folco Lulli (Andrea), Eliana Banducci (Rosetta Pandelli), Gianni Appelius (Calligaris), Amato Garbini (Faustino il tenutario), Ruggero Madrigali (il Negriero), Mario Perrone (il Gobbo), Thea Aimaretti (Tecla, la tenutaria)
Direttore di produzione stripslashes(Maggiorino Canonica)
Produzione Dino De Laurentiis per Lux Film - R.D.L.
Distribuzione Lux Film
Note Direttore d'orchestra: Ugo Giacomozzi.
Amedeo Nazzari ha vinto il Nastro d’Argento nel 1947 come Miglior Attore Protagonista.
Sinossi
Dopo anni di guerra, di sofferenze e solitudine, Ernesto ritorna in Italia e a casa, a Torino, ma lo attende una realtà desolante: la madre è morta e la sorella è scomparsa, all’Ufficio Reduci trova soltanto egoismo e cinismo e la ricerca di un lavoro è vana. Per una casualità Ernesto conosce una signora elegantemente vestita, Lydia, con cui nasce un momento di passione, interrotta da Mirko, amante e complice della donna. In una Torino sempre più notturna e spettrale l’uomo trova poi la sorella, diventata prostituta. Nel cercare di convincerla a lasciare la casa di tolleranza scoppia una rissa con il tenutario, un colpo di pistola uccide la ragazza ed Ernesto trova rifugio da Lydia, che lo accoglie nella banda di malviventi che capeggia. Ernesto diventa il suo amante ma cerca di mantenere, anche da bandito, certi principi morali, finché donna, che si sente defraudata del proprio ruolo, decide di andarsene e denunciare tutti alla polizia. Il gruppo in fuga si scontra con la polizia. Il destino fa incontrare a Ernesto la nipotina del compagno di un tempo, con cui c’è stata una tenera corrispondenza. Ernesto abbandona la banda e riporta a casa la bambina.
Dichiarazioni
«Girando per le strade ascoltavo i discorsi e pensavo allo “choc” dei reduci che trovavano l’Italia ribaltata dopo la prigionia e trovavano rovesciati tutti i valori precedenti, perciò Il bandito nacque dai dialoghi ascoltati all’angolo della strada. Questa specie di desiderio di farsi giustizia da sé, questa insofferenza e lo scivolare fuori dalla legge: l’uomo che non riesce più a inserirsi. […] Il soggetto de Il bandito l’ho portato da Ponti, ma lui non l’ha voluto fare. Allora sono andato da De Laurentiis che mi disse che l’avrebbe fatto lui. […] mi disse: “Sai cosa faccio? Do un assegno a vuoto all’Anna Magnani, e poi vado da Gualino e gli spiego che cos’è questo film”. Così il venerdì sera diede un assegno alla Magnani. La mattina del giovedì dopo aveva concluso con Gualino e Rovere. Rovere diede un po’ di ossigeno a Dino perché aveva capito che Dino era un esplosivo. A Torino lo appoggiò moltissimo. Ci diede dei mobili, delle cose della sua falegnameria, ci procurò dei mezzi, delle conoscenze… poi noi, attraverso il Ministero della Guerra che aveva una sezione cinematografica che sopravviveva, ottenemmo un’Ascania muta da 120 metri. Non si trovavano manco più le macchine da presa. Le avevano rubate tutte» (A. Lattuada, “Filmcritica”, n. 158, giugno 1965).
«La storia di Il bandito […] mi piacque subito molto perché rispondeva al mio modo di vedere il cinema all'epoca: un'Italia sconfitta, che usciva dall'occupazione tedesca e americana, dava modo di trovare delle storie umane che, come si dimostrò, potevano interessare tutto il mondo. […] Dissi a Bianca [la moglie] che in vista di realizzare il film era opportuno spostarci a Torino, al Sitea, dove mi facevano credito. Là avrei potuto […] guardarmi intorno per vedere come organizzare le cose. […] Lattuada vuole Andrea Checchi e io non sono d'accordo. Dico: "È bravo, l'ho avuto in Malombra, come attore non lo discuto, ma non lo conosce nessuno. Non possiamo fare il primo grande film del dopoguerra con un nome che non sia appetibile per il pubblico". E allora propongo ad Alberto un esperimento: "Andiamo giù in strada, al mercato, dove vuoi e interpelliamo la gente. Vediamo chi conosce Checchi e chi conosce Amedeo Nazzari". Era facile prevedere il risultato. Io ho sempre cercato di convincere i registi senza imporgli la mia volontà, non è nel mio stile. Tento di far capire il mio punto di vista, così come sono disponibile a farmi convincere. Morale, Nazzari uscì plebiscitato e facemmo il film con lui e Anna Magnani, a Torino, per le strade, negli ambienti veri, con mezzi tecnici limitatissimi; e continuamente senza pellicola, dovevamo stampare sul negativo perché il positivo non esisteva. […] Un giorno che stavo alla Lux dissi all'ingegner Gatti: "Qua bisogna inventare qualcosa per promuoverlo, questo film". Sono sempre stato dell'opinione che puoi fare il più bel film del mondo, ma se non hai la promozione giusta e non lo fai uscire al momento giusto, crolla dopo una settimana. Allora l'unica forma di pubblicità erano i manifesti. La mia idea fu questa: c'erano i banditi per le strade d'Italia e rapivano la gente. In particolare ce n'era uno, non mi viene in mente il nome, che agiva sulla statale fra Napoli e Roma e sequestrava i personaggi di spicco chiedendo il riscatto. Io come un folle (ero parecchio giovane) cosa ti penso? Ora mi metto in macchina, faccio Roma-Napoli di notte, quello mi rapisce e sulla stampa esce "Il produttore del Bandito rapito dal bandito taldeitali". Poi col mio savoir-faire lo convinco a rilasciarmi, magari raccontandogli tutta la storia. Ma il mio piano non funzionò: pur facendo più volte avanti e indietro Roma-Napoli di notte, non mi rapì nessuno» (D. De Laurentiis, in T. Kezich, A. Levantesi, Dino. De Laurentiis, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2009).
«I detriti della guerra, affiorati dai carrimerci, di lunghe tradotte alle desolate prode dei paesi percorsi dalle bombe, sono gli eroi della prima parte del film; essa, pur nella concitazione di una drammaticità troppo voluta, ha una sua consistenza. Ma che cosa è accaduto a Lattuada, quando s'è trattato di metter mano alla seconda parte? Il racconto vi si fa incredibile, la sceneggiatura raffazzonata, la recitazione balbettante. L'eroe del film, il bandito, agisce all'americana, da gangster un po' feroce e un po' filantropo: tutto l'odioso romanticismo attribuito da una letteratura deteriore al brigante cuor d'oro si accolla al Nazzari, tramutato in zuccheroso protettore di bambine. Decisamente, del Bandito contano solo le sequenze d'inizio; alle altre né Nazzari né la Magnani né Campanini danno classe e attrattive» (A. Lanocita, “Corriere della Sera”, 7.11.1946).
Terzo film di Alberto Lattuada dopo Giacomo l’idealista (1942) e La freccia nel fianco (1943-44), Il bandito rappresenta la prima delle due prove neorealiste – la seconda sarà Senza pietà (1948) –, che il regista propone nell’immediato dopoguerra.
Il bandito è un film dall’architettura narrativa complessa e articolata, con una prima parte di osservazione documentaria dove viene messa in risalto la condizione vissuta dal reduce al suo rientro in patria, una seconda parte debitrice agli schemi del romanzo poliziesco che si costruisce su un’affastellarsi di colpi di scena e di rocambolesche avventure e finale melodrammatico di forte carica emotiva che il regista dichiara di «aver appositamente scelto». Il bandito raccoglie così lo spirito dei tempi – basti citare Roma città aperta, Sciuscià e Paisà –, ripropone i modelli americani sui quali Lattuada ha formato la propria cultura cinematografica negli anni Trenta e Quaranta e sfrutta la vena didascalico-moralistica già presente nelle due precedenti prove registiche, risultando una sorta di film summa per il regista.
Il bandito ha dunque una natura composita e appare strutturato in tre parti diverse tra loro le quali hanno però «percorsi ed esiti analoghi: dal desiderio, attraverso l’agnizione, fino alla morte. Documentario, noir e melodramma, le sezioni del film “ben distinte” presentano quindi un andamento molto simile, provocando quasi un effetto ecolalico. Ciò che in realtà muta, producendo un raffinato ricamo di varianti, è appunto la ragione dell’occhio: su un tessuto narrativo che, seppur presentando personaggi e ambienti differenti, viene a definirsi quasi come un trittico, ciò che muta è la modalità di definizione dello sguardo sulle cose. […] Ma è anche vero che le tre parti si caratterizzano sostanzialmente per tre registri visivi differenti: allo sguardo oggettivo, segnato dalla predominanza di carrelli, subentra nella seconda parte una visione soggettiva, giocata spesso sul campo-controcampo e sul frequente uso del dettaglio, chiude la terza parte, che coincide con l’epilogo, dove troviamo il sopravanzare delle ampie panoramiche che arrivano a caricare emotivamente il tragico finale» (F. Villa, Botteghe di scrittura per il cinema italiano. Intorno a Il bandito di Alberto Lattuada, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2002).
La fotografia di Aldo Tonti contribuisce a riprodurre il clima inquietante del dopoguerra; alcune inquadrature ricordano da vicino – per illuminazione, scenografia e angolazione di ripresa - certi modelli del cinema muto degli anni Venti: «Lattuada ha inteso affermare la possibilità di un recupero di un “genere” come l’espressionismo che, soprattutto con l’oggettività della Neue Sachlikheit, tendeva a dare un contributo consapevole alla spiegazione della realtà. Quelle strade di Torino devastate, sconvolte, […] come apparivano agli occhi del protagonista, sono più importanti della stessa necessità di un approfondimento psicologico del personaggio» (E. Bruno, Lattuada o la proposta ambigua, Filmcritica Editore, Roma, 1968).
Il montaggio, d’altra parte, «ritmato nella prima pare su tempi lunghi (il ritorno dei reduci, la scoperta della città semidistrutta, i tentativi di riprendere una vita normale), si fa stringato in quella centrale (le imprese dei banditi) per ridistendersi elegiacamente nel finale (la morte del protagonista). La musica diventa nel Bandito elemento integrante dell’espressione cinematografica e dimostra l’impiego attento da parte di Lattuada di tutti i segni del linguaggio filmico; nella sequenza in cui tenta una rappresentazione documentaria, il regista si serve di motivi di repertorio, americani e italiani (A Tisket a Tasket, Solo me ne vò per la città ecc.); affida invece al mestiere e alla vena intimista del padre (Felice Lattuada) il commento d’atmosfera della seconda parte del film» (A. Zanellato, L’uomo (cattiva sorte): il cinema di Lattuada, Liviana Editrice, Padova, 1973).
Ricordiamo che la troupe del Bandito aveva a disposizione soltanto una cinepresa che non permetteva la registrazione del sonoro; pertanto il film viene «girato senza “colonna guida”: la sorella di Lattuada, Bianca, al suo esordio come segretaria di edizione, stenografa i dialoghi durante le riprese» (C. Camerini, Alberto Lattuada, La Nuova Italia, Firenze, 1981).
Il bandito esce in Italia nel novembre del 1946, dopo la sua prima mondiale al Festival di Cannes dove è accolto con entusiasmo da parte di una delegazione sovietica, dal poeta Paul Eluard («le film que j’ai gôuté le mieux est Il bandito») e da Georges Sadoul, che afferma di rinvenire nell’opera di Lattuada «il grande merito di essere significativo d’un temperamento, d’un paese, di un’epoca, di una scuola, di uno stile nuovo». Va ricordato che fino a quell’occasione il pubblico francese non aveva ancora avuto l’opportunità di conoscere i film del neorealismo, mentre a Venezia erano già stati presentati Paisà di Rossellini e Il sole sorge ancora di Vergano, ed erano già nelle sale italiane Un giorno nella vita di Blasetti, oltre s’intende a Sciuscià e a Roma città aperta). Il successo si espande immediatamente anche in Belgio, in Germania e in Brasile, dove Il bandito supera per incasso ogni altro film straniero nella stagione 1947-1948. In Italia la situazione scatena reazioni negative in parte della critica e nel mondo politico; ad esempio l’onorevole Paolo Coppa poco dopo lo svolgimento del Festival di Cannes invia una lettera al Presidente dell’Associazione degli Industriali del Cinema (A.N.I.C.A.) Alfredo Proia, suo compagno di partito, in cui si dichiara scandalizzato per l’abuso «di elementi drammatici e… spettacolari non raccomandabili dal punto di vista morale. […] Il tema del banditismo e dei fuorilegge, la pratica delle case di tolleranza, il rilievo eccessivo di fatti sessuali e morbosi riempiono i nostri film».
Per quanto riguarda il pubblico, l’accoglienza non appare molto differente rispetto a quanto avviene all’estero: Il bandito, costato a De Laurentiis 11 milioni, prevenduto a Gualino per 18 milioni, incassa sul mercato italiano 184 milioni (quando il prezzo medio del biglietto era di 54,6 Lire), risultando quarto nella classifica degli incassi dei film usciti durante la stagione 1946-47. Un grande successo commerciale.
«[…] arriva da Roma uno scalpitante Alberto Lattuada, con il progetto di un film, Il reduce, che il produttore Carlo Ponti gli ha appena rifiutato. A Dino [De Laurentiis] invece piace la storia di questo alpino che, tornando a Torino dalla guerra, trova la casa distrutta dai bombardamenti e la sorella ridotta alla prostituzione; quando la ragazza viene uccisa, lui per reazione si trasforma in bandito e vive fino in fondo una tipica tragedia del dopoguerra come se ne leggono tante sui giornali. […] Dino […] trova rapidamente un socio nella figura di Luigi Rovere, nativo di Acqui, un mobiliere e gran galantuomo che vuole entrare nella produzione cinematografica, benché la moglie sia contraria. Verso di lui Dino prova un'istintiva simpatia. Si tratta di un altro che si è fatto da sé: nato in una famiglia operaia, a vent'anni era già un artigiano provetto e poco dopo metteva su una fabbrichetta lanciando il mobile-bar con radio incorporata. I due costituiscono una società, la Rdl (Rovere-De Laurentíis) e subito cominciano la preparazione di Il bandito. […] Le riprese cominciano a Torino in maggio, sempre dove capita e tutto muto, decifrando poi il dialogo sugli appunti della segretaria di edizione e ricostruendolo labialmente alla moviola. Della fortunosa lavorazione si tramandano aneddoti vari, come quello riguardante il bravo operatore Aldo Tonti il quale, impegnato a Milano in un altro film, tarda ad arrivare: cosicché Dino, forte del contratto firmato, manda da Torino due carabinieri a prelevarlo. C'è chi sostiene che si trattò di figuranti travestiti. La macchina da presa da centoventi metri, in prestito dal ministero della Difesa, va a batterle che ci sono un giorno sì e l'altro no in quanto mancano i soldi per acquistarle. Tonti è costretto più volte a girare la manovella come ai tempi del suo apprendistato. Sa per esperienza che il ritmo dei ventiquattro fotogrammi viene scandito bene sui tempi di Giovinezza: sicché la ripresa della scena più tragica del film, quando la sorella del protagonista muore uccisa, avviene con l'operatore che canticchia l'inno del passato regime. Qualche inciampo non smonta il neoproduttore, impegnato a sfoderare tutta la sua grinta: di fronte a uno sciopero delle maestranze, per non perdere nemmeno un'ora, si improvvisa capoelettricista; e per far presto, o per risparmiare, si presta anche come comparsa, lo si vede verso l'inizio del film mentre esce da un bar. Né lo intimidiscono le esplosioni incontenibili della Magnani, stanca e più nervosa del solito perché la sera recita al Teatro Carignano nella rivista E Scampolo sognò... di Garinei e Giovannini. Dino non batte ciglio neanche quando, al terzo o quarto bicchiere di finta vodka che riceve in faccia dal "bandito", Anna si avventa come una furia contro Nazzari, verso cui per tutto il film ha manifestato un'accesa competitività, accusandolo di volerla accecare. Ciò che interessa al pilota dell'operazione è arrivare in fondo, fare un film valido e di successo. Sa bene che su quel risultato si sta giocando l'intero suo avvenire ed è pronto a tutto. […] Uscito sugli schermi in ottobre, il film ebbe successo […] e rilanciò Nazzari in un ruolo completamente nuovo, amaro e problematico, facendogli vincere il Nastro d'argento e rigenerandolo per una lunga ulteriore stagione. L'attore, che fino alla caduta di Mussolini era stato il divo numero uno e temeva di non riuscire a reggere il primato, rimase sempre grato a Dino. Fece con lui parecchi altri film, incluso Le notti di Cabiria in cui, nella chiave autoironica propostagli da Fellini, si arrischiò a prendere in giro se stesso» (T. Kezich, A. Levantesi, Dino. De Laurentiis, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2009).
Scheda a cura di Franco Prono
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