Nulla Osta n. 9.088 del 12.12.50; 2.512 metri.
Assistente operatore: Alfieri Canavero; fotografo di scena: Luigi Bertazzini; sarta: Annunziata Piacentini; collaborazione alla regia: Erminio Macario; segretario di produzione: Piero Beldi; segretaria di edizione: Serena Benvenuti.
L’anno dopo il sonoro insuccesso di Adamo ed Eva di Mattoli, «Carlo Borghezio, forse il regista più congeniale alle qualità recitative del comico torinese, lo diresse nuovamente in una pellicola ambientata nel capoluogo subalpino dal titolo Il monello della strada, che sancì ancora una volta il feeling che intanto si era instaurato tra il comico e la macchina da presa. Il film infatti, pur ricalcando piuttosto fedelmente lo schema e la struttura degli ultimi lungometraggi, riscosse un ottimo ritorno in termini di presenza al botteghino. E anche la critica e le recensioni accolsero favorevolmente l’ultima fatica del fantasioso interprete. Pure in Il monello della strada il protagonista, un minatore in cerca di fortuna in Argentina, dimostrava il tratto caratteriale proprio del buono, dell’ingenuo e del mansueto che si scontrava di continuo, suo malgrado, con la cattiveria d’animo di chi gli stava vicino. In Sudamerica il povero minatore aveva deciso di sposare per procura una ragazza torinese. Ma al ritorno in patria scopriva che la moglie era intanto morta lasciando orfano un figlio già grandicello di cui ovviamente lui non poteva essere il padre. Il rapporto tra Macario, che intanto si era adattato a fare il fornaio, e il figlio putativo all’inizio non era tra i più facili. Quando però tra i due cominciava a farsi strada una certa simpatia, il film subiva una svolta improvvisa dovuta a una trovata del tutto originale: le favole, le storie e i racconti narrati dall’ex minatore al ragazzino per aiutarlo ad addormentarsi più in fretta prendevano forma, nelle sue fantasie notturne, in un nuovo film nel film, una via di mezzo tra il cartone animato e una pellicola tradizionale. Davanti agli occhi sognanti del figliastro, i personaggi immaginari assumevano forma e corpo di quelli reali nei quali s’imbatteva quotidianamente. Il patrigno assumeva invece le sembianze di Arizona Kid, eroe forte, audace e generoso che sconfiggeva i feroci pellerossa il cui volto ricordava in maniera impressionante i parenti avidi e cattivi. Oltre alla solita convincente interpretazione di Erminio, il film si caratterizzava anche per la originale (e per i tempi audace) sovrapposizione tra cartoon e attori in carne e ossa: il fido cavallo ad esempio era il risultato della sapiente matita di un disegnatore, così come i cactus, le caverne e gli animaletti che facevano da sfondo alla parte più spettacolare del racconto» (M. Ternavasio, Macario. Vita di un comico, Lindau, Torino, 1998).
Un difetto del film è il suo eccessivo rifarsi al modello chapliniano: Il monello della strada «rifà il verso al più famoso “monello” di Charlie Chaplin. Anche se non si tratta di vera e propria copiatura, e malgrado le trovate a volte intellingenti, l'ombra del capolavoro chapliniano è troppo grande perchè il film possa reggere il confronto» (G. Santarelli, “Rivista del Cinematografo”, n. 3, 1951).
«Ne è venuta una farsetta piuttosto grossolana, falsamente patetica, corriva e provinciale; tranne l’ultimo episodio (la vita d’una città si arresta per quindici minuti, tutto è immoto, tutti sono di pietra nel loro ultimo atteggiamento): un episodio ben condotto e ben sfruttato, che stranamente spicca nella mediocrità di tutto il resto» (M. Gromo, “La Stampa”, 22.12.1950).