Chitarra: Libero Tosoni; pianoforte: Armando Trovajoli; parrucchiera: Gabriella Borzelli, Anna Cristofani; doppiatrice: Isa Bellini (Anna Maria Pancani); segretario di produzione: Ugo Tucci.
Premi: Leone d’Argento al Festival di Venezia 1955; Nastro d’Argento 1956 a Michelangelo Antonioni per la Miglior Regia, a Gianni Di Venanzo per la Miglior Fotografia e a V. Cortese come Migliore Attrice Non Protagonista; Grolla d’Oro 1956 per il Miglior Film; Stella d’Oro Amici del Cinema Italiano di Buenos Aires (1958) a Valentina Cortese.
Le riprese del film si sono svolte in Piemonte e Liguria.
Film travagliatissimo, iniziato, interrotto e ripreso tra difficoltà e patteggiamenti con il produttore, Le amiche rappresenta il punto di arrivo delle opere precedenti di Antonioni e il momento in cui si delineano in modo preciso la sua poetica e il suo linguaggio. L’incontro tra la rarefazione dello stile antonioniano e il racconto pavesiano costituisce il definitivo salto del regista verso uno stile completamente personale. In contrasto aperto con le tematiche ed i modi rappresentativi neorealisti, il regista presenta una storia in cui i personaggi sono già dei “vinti”, aggrappati al loro vuoto interiore, in una situazione di crisi ambientale e sociale di cui è partecipe tutta la gretta borghesia torinese: «è l’aspetto esteriore del mondo al quale i personaggi appartengono che prende rilievo e dà al film un preciso significato» (E. Contini, “Il Messaggero”, 8.9.1955).
Qui vediamo delinearsi per la prima volta una concezione originale del tempo e dello spazio, una costruzione dei personaggi inconsueta e priva di psicologismi. La recitazione degli attori è basata sulla loro presenza fisica, sul rapporto con l’ambiente che li circonda, su comportamenti, silenzi, dialoghi apparentemente banali, più che sulla loro capacità di mimesi sentimentale. Antonioni rappresenta la realtà ponendo sullo stesso piano drammaturgico tutti quegli elementi visivi e sonori che la qualificano: ambienti, sfondi, oggetti, luci, persone, rumori, gesti, movimenti, sguardi. La bellissima colonna sonora curata da Giovanni Fusco concorre con efficacia a produrre queste risonanze.
Sono presenti nel film alcuni dei temi caratteristici di tutta l’opera di Antonioni: la solitudine dei personaggi, la loro crisi esistenziale, la “malattia dei sentimenti”. I personaggi più critici e consci della loro situazione sono quelli femminili: Clelia, Clara, Paola, Nene costituiscono quattro diversi modi di affrontare il loro “male di vivere”, mentre Rosetta soccombe al suo doloroso smarrimento. Non è solo una questione amorosa che la conduce al suicidio: ella appare sempre appartata, angosciata, incapace di vivere, per cui la delusione d’amore non è che la goccia che fa traboccare il vaso.
La struttura narrativa de Le amiche si regge non tanto su un congegno romanzesco (benché non manchi l’impianto “giallo”), ma sui “prolungamenti” degli eventi, sulle loro conseguenze. L’autore non racconta una storia, ma presenta una realtà. Parte dall’incipit dell’arrivo di Clelia e dal tentato suicidio di Momina fino ad arrivare al suicidio di quest’ultima e alla partenza di Clelia: è un circolo chiuso in cui sembra non capitare niente. Il tempo cinematografico viene dilatato dando luogo a lunghi piani sequenza, a sinuosi e avvolgenti movimenti di macchina, a “tempi morti” contemplativi e introspettivi. Con le sue lunghe inquadrature Antonioni scava dentro i personaggi, li segue fino a giungere all’esasperazione visiva. Sia gli attori, sia la macchina da presa si muovono con movimenti circolari che li riportano al punto di partenza, senza che nulla intervenga a modificare la loro esistenza; il mondo appare privo di possibilità di mutamento, oppresso da una perenne “eclisse” che rende inutili e inefficaci le azioni. Si notino due importanti panoramiche: quella iniziale su Torino e quella – splendida - sulla spiaggia (anticipatrice delle atmosfere di L’avventura), in cui «l’ambiente sembra sezionato, scomposto. Si osserva il farsi e il disfarsi delle coppie, la fragilità, la falsità dei rapporti […], l’erotismo come specchio della situazione, la coppia in pubblico» (G. Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il Castoro, Milano, 1994).
Per un verso Antonioni è in sintonia con Pavese: tra di loro c’è «una coincidenza di interessi, quasi una parentela, anzi una serie di parentele: dal vagheggiamento di un romanzo tutto narrativo ma valorizzando i fatti, alla predilezione aristocratica e problematica - mai religiosa – della solitudine, alla alienazione della realtà, alla continua ricerca di una tensione espressiva, di un linguaggio stilisticamente emozionante» (F. Carpi, Michelangelo Antonioni, Guanda, Parma, 1958). Per altri versi i due autori sono molto diversi tra loro. Antonioni è un intellettuale laico vicino all’esistenzialismo il quale si mantiene sempre sul piano di un’assoluta razionalità; invece Pavese «affonda le radici in una concezione della vita prerazionale» (C.A. Madrignani, in G. Tinazzi (a cura), Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore, Pratiche Editrice, Parma, 1985), governata da un elemento primordiale oscuro e misterioso, un vago e irrazionale senso di predestinazione. Antonioni osserva l’ambiente borghese dall’interno, e pur conoscendone l’egoismo e l’aridità, non dimostra ribellione o indignazione; è anch’egli un borghese, «uno di loro, che tutto vede e tutto descrive senza i toni del giudice implacabile» (Ibidem). Al contrario Pavese osserva la società borghese dall’esterno perché sente uno «straziante confronto tra città e campagna, fra ricchezza e povertà» (Ibidem). I personaggi pavesiani vengono dalla campagna, dalla povertà, e in città si sentono emarginati, esclusi, sentono un’oscura pulsione all’isolamento, alla sofferenza.
Sia in Pavese che in Antonioni abbiamo l’alternativa di due soluzioni al “male di vivere”: il suicidio e il lavoro. Dato che l’amore è impossibile, il suicidio è un modo per negare l’amore, il lavoro un modo di surrogarlo socialmente. Rosetta si uccide, Clelia sceglie il lavoro e rinuncia alla vita che Carlo – uomo di condizione sociale inferiore – potrebbe offrirle. «La conclusione, nel personaggio di Clelia, è di nuovo morale, ma anche tragica: il lavoro non è un modo di riempire felicemente la vita, diventa appena un mezzo per eluderla. Mi viene in mente Pavese che scriveva: “Efficacia dell’amore, del dolore, delle peripezie; si smette il lavoro, si torna adolescenti, si scopre la vita”. Antonioni ha invertito i termini: Efficacia dl lavoro… si diventa vecchi, si rinuncia alla vita. Che è il destino di Clelia» (F. Carpi, Op. cit.).
Clelia è una donna che è passata dalla povertà all’agiatezza rinunciando a cedimenti affettivi e coltivando una buona dose di cinismo e amarezza. Nel romanzo ella «nutre per i ricordi dell’infanzia povera una forma di attrazione-repulsione, che non è certo nostalgia sentimentale» (C.A. Madrignani, Op. cit.), come invece appare nel film di Antonioni. Soprattutto, Clelia per Pavese è il personaggio narrante, invece ne Le amiche cambia il punto di vista dell’autore e prevale il peso del personaggio di Rosetta. In definitiva Pavese parla della solitudine delle donne, Antonioni mostra i rapporti sociali, le relazioni di interdipendenza tra i personaggi.
Nel film appaiono molti scorci di Torino (piazza San Carlo, via Roma, porta Nuova, i Murazzi, l’aiuola Cavour, Porta Palazzo e la Galleria Umberto I, ecc.) fotografati splendidamente da Gianni Di Venanzo, ma dopo l’esordio sugli schermi i giornali torinesi pubblicano lettere di protesta per le scelte di ambientazione: Antonioni, secondo alcuni lettori, farebbe vedere solo «le vie più brutte» e non avrebbe nessun rispetto per la «grazia della città». Il regista risponde a queste critiche con la dichiarazione sopra riportata.