Altri titoli: The Treasure of Bengal, Der Tempelschatz von Bengalen, Le Trésor du Bengale
Regia Gianni Vernuccio
Soggetto Gianni Vernuccio, Gian Paolo Callegari
Sceneggiatura Gian Paolo Callegari, Piero De Bernardi
Fotografia Renato Del Frate
Operatore Antonio Gasparini
Musica originale Italo Delle Case
Suono Giovanni Costantini, Raffaele Del Monte
Montaggio Gianni Vernuccio, Loris Bellero
Scenografia Alamanno Lawle
Arredamento Alamanno Lawle
Costumi Maud Strudhoff
Trucco Guglielmo Bonotti
Aiuto regia Carla Ragionieri, Loris Bellero
Interpreti Sabu (Ainur), Luisella Boni (Karima), Luigi Tosi (don Fernando), Ananda Koumar (Uzake), Georges Poujouly (Tomby), Carla Calò (Surama), Manuel Serrano (Burka), Pamela Palma (la danzatrice), Nino Marchetti, Rita Caruso, Raf Pindi, il ghepardo Lug, la tigre Sacha
Direttore di produzione Leopoldo Imperiali
Ispettore di produzione Ermanno Pavarini
Produzione Giorgio Venturini per Venturini Film
Distribuzione Venturini
Note Visto censura 15589 del 4.2.1953; 2192 metri. Incasso: 134.100.00 lire.
Assistente operatore: Giovanni Canavero; assistente al trucco: Romeo Fraticelli; parrucchiere: Paolo Borselli; direzione tecnica: Carlo Serrutini; segretario di produzione: Arrigo Peri.
Lo scenografo e arredatore Alamanno Lawle si firma nei titoli come Alemanno Lowley.
Gli interni sono girati negli studi FERT di Torino; gli esterni a San Rossore (in provincia di Pisa).
Sinossi
Due portoghesi, sbarcati sulle coste del Bengala, vengono a sapere che in un tempio dedicato alla dea Parvati, è custodito un prezioso rubino e decidono di impadronirsene. Stabiliscono allora un’alleanza con Uzake, il capo del vicino villaggio, il quale coglie l’occasione per cercare di liberarsi di Ainur, un pescatore del quale desidera la donna, Karima. Ainur e Karima dovranno così difendersi dalle insidie di Uzake.
Dichiarazioni
«Nel 1952 torno in Italia per le vacanze, e anche perché sentivo un po' di nostalgia, e incontro nuovamente Venturini, che mi propone di restare in Italia un paio di mesi in più e di girare per lui a San Rossore Il tesoro del Bengala. Venturíni era un grande personaggio, generoso, onesto, mi fece una bellissima impressione. Ancora prima che il film fosse finito, Giovanni Bigazzi, il direttore di produzione, entra in teatro, eravamo alle ultime riprese, e mi propone di prendere il posto di Cottafavi, che aveva rinunciato, come regista di Canzoni a due voci. Nel Tesoro del Bengala ho lavorato molto bene, Bigazzi era un grande organizzatore, come operatore avevo Del Frate, io stesso avevo scelto come protagonista femminile Luisella Boní, giovanissima, alla sua prima esperienza, mentre dall'America era venuto Sabu. Gli esterni furono tutti girati a San Rossore e gli interni alla FERT. La FERT in quegli anni era una cosa stupenda: i teatri sempre pieni, molto lavoro, ottimo equipaggiamento tecnico, non mancava davvero nulla. Ci sono tornato per fare un carosello con Aldo Fabrizi che era in teatro a Torino, parecchi anni fa, ed erano capannoni oramai adibiti a depositi di vino. Mi è venuta una grande tristezza» (G. Vernuccio, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
«Il tesoro del Bengala nasce da un soggetto salgariano. E qui conviene subito chiarire che il romanzo o il racconto omonimo di Salgari non esiste. Salgariani sono i personaggi, gli ambienti, gli sfondi, lo spunto dell’avventura, ma in realtà, soggetto e sceneggiatura sono dello stesso Vernuccio e di Gian Paolo Callegari, già in pista ad aggiustare le malefatte di Ralph Murphy negli altri due film salgariani che contemporaneamente si girano a Torino [I misteri della Giungla Nera e La vendetta dei Tughs], mentre si accredita anche Piero De Bernardi, allora alle prime prove di scrittura cinematografica. Il soggetto dunque è originale ma, ricorda Vernuccio, l’imprimatur viene da Omar Salgari in persona che seguì talvolta i lavori sul set. […] Il tesoro del Bengala non meriterebbe in aparrenza eccessive attenzioni se alla visione di oggi non rivelasse intatti ed anzi ancor più godibili tanti caratteristici stilemi di Vernuccio, soprattutto una costante cura tesa ad evitare ogni banalità, ogni sciatteria nelle inquadrature. C’è, ad esempio, un intero blocco imperniato sulla Luisella Boni, prigioniera, e legata ad una ruota di un carro. La mdp è a terra ed inquadra la ragazza e la grande ruota che diviene uno sfondo spartito dai raggi, attraverso i quali si intravede strisciare da lontano e sopraggiungere Sabu che poi libera la prigioniera. La scena è di una semplicità estrema, ma d’effetto. […] Molto pastoso è poi l’uso dei carrelli che rendono mosse e vivaci anche scene secondarie di corse altrimenti vane nella giungla, o lungo un fiume, oppure i variati angoli di ripresa di un ballo di sei baiadere, e la più curata perfomance della prima ballerina, […] nel confronto con una analoga, pessima scena di Vendetta dei Tughs [di Giampaolo Callegari], mette in risalto, a parità di mezzi, la differente mano e il livello di gusto dei due registi» (L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito, Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
«Gianni Vernuccio […] porta in Italia un’altra star minore del cinema avventuroso dell’epoca, il ragazzo indiano Sabù protagonista di una serie di film che, in epoca di eroi bambini e di piccoli sceriffi, avevano ottenuto un certo successo» (S. Della Casa, Miracolo a Torino, Editrice La Stampa, Torino, 2003).
«Nelle intenzioni questo film a colori avrebbe dovuto rivestire un’importanza superiore alla normalità. Purtroppo, per i suoi numerosi difetti, tecnici ed artistici, e per lo scarso interesse che suscita negli spettatori, quelle intenzioni sono rimaste solo sulla carta e non hanno avuto nessun sviluppo sullo schermo» (A. Albertazzi, “Intermezzo”, nn. 7/8, 30.4.1954).
Scheda a cura di Davide Larocca
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