Altri titoli: Giacomo the Idealist
Regia Alberto Lattuada
Soggetto dal romanzo omonimo di Emilio De Marchi
Sceneggiatura Emilio Cecchi, Aldo Buzzi, Alberto Lattuada
Fotografia Carlo Nebiolo
Operatore Salvatore D’Urso
Musica originale Felice Lattuada
Montaggio Mario Bonotti, Alberto Lattuada
Scenografia Fulvio Paoli
Arredamento Ascanio Coccé
Costumi Gino C. Sensani
Interpreti Massimo Serato (Giacomo Lanzavecchia), Marina Berti (Celestina), Andrea Checchi (Giacinto Magnenzio), Giulio Tempesti (don Lorenzo), Giacinto Molteni (il conte Magnenzio), Domenico Viglione Borghese (padre di Giacomo), Armando Migliari (il signor Mangano), Elvira Bonecchi, Paolo Bonecchi, Dina Romano, Nelly Morgan, Giselda Gasperini, Attilio Dottesio (Battistella), Silva Melandri (Lisa), Adele Baratelli, Piero Piero Palermini, Felice Monotti, Anna Lelli
Direttore di produzione Ferruccio De Martino
Produzione Carlo Ponti per A.T.A.
Note Nulla Osta n. 31.841 del 27.1.43; 2.975 metri.
Prima proiezione pubblica: 1.2.1943.
Parte del film è stata girata negli studi Fert di Torino.
Sinossi
Giacomo, un giovane professore caduto in miseria a causa del fallimento dell’azienda paterna, si vede costretto ad accettare un lavoro presso la casa di alcuni nobili: con lui porta Celestina, la fidanzata che, orfana, era stata accolta nella casa dei genitori di Giacomo. Una notte la ragazza viene violentata dal figlio dei nobili padroni di casa e, per mettere a tacere lo scandalo, la madre del colpevole caccia la ragazza. Passato qualche tempo Celestina cerca di ricongiungersi con Giacomo, ma sulla strada del ritorno incontra una bufera di neve: la ragazza muore assiderata tra le braccia del fidanzato.
Dichiarazioni
«Volli Marina Berti, una debuttante. Volli come direttore delle luci Nebiolo che aveva fatto soltanto l’aiuto operatore in Piccolo mondo antico. Insomma, fu il debutto audace di tre che non avevano nessuna carta, diciamo, da giocare [...] c’era il paesaggio dell’Adda dove io andavo a passare gli inverni perchè mia madre era nata a Vaprio. [...] mi seducevano il paesaggio e questa storia di una ragazza sequestrata e messa sotto il segno del presepe, proprio dal cattolicesimo più oscuro, perchè si trattava di nascondere il fallo. [...] Non era un film politicizzato. Però era un film che sotterraneamente discuteva la struttura ancora esistente, ancora forte, dei tabù religiosi, dell’ipocrisia cattolica, che è uno dei temi contro i quali ho spuntato varie armi. [...] Che poi io cercassi di scrivere bene, perchè pensavo che un film scritto bene ha più valore che non il tentativo di fare un semi documentario oppure di strappare la realtà con immagini magari disordinate, non mi sembra una colpa, anche se mi hanno accusato di “calligrafismo”. Volevo scrivere bene perché dicevo che sulla lunga distanza la giusta scrittura ricca e nutrita di cinema, come io amavo, avrebbe avuto la sua risposta. [...] Si è visto in sostanza che quello che era chiamato formalismo era il modo più elegante di sfuggire alla propaganda che veniva suggerita, specie a coloro che debuttavano alla regia» (A. Lattuada, in Callisto Cosulich, I film di Alberto Lattuada, Gremese, Roma, 1985).
Alberto Lattuada giunge alla regia del suo primo lungometraggio dopo un apprendistato culturale sfaccettato. Architetto, nel 1932 fonda un paio di riviste insieme ad Alberto Mondadori; l’anno dopo gira il suo primo cortometraggio ed incontra Mario Soldati con il quale collabora la sceneggiatura di Piccolo Mondo Antico, ricoprendo anche il ruolo di aiuto regista. La sua prima occasione da regista gli arriva con Giacomo l’idealista, sempre tramite la A.T.A. di Carlo Ponti; al libro di Emilio De Marchi giunge dopo aver scartato alcuni altri soggetti (tra cui Gli indifferenti di Moravia e Il Giocatore di Dostojevskij).
È il ruolo femminile fatto interpretare a Marina Berti quello che segna l’originalità del film di Lattuada e ne fa un momento di svolta, anche se non eclatante, rispetto al cinema del regime: la caparbietà di Celestina e il suo coraggio non hanno nulla in comune con le figure femminili fatue e deboli dipinte dal cinema fascista: «Celestina, personaggio di forte rilievo, [è] capace di guidare la corrente, non sempre compatta, della narrazione. Muore incompresa e tradita la dolce Celestina [...]. Nella sconfitta rivelano – questi personaggi femminili – un’austera grandezza. [...] Ma l’umiliazione più brutale è quella che subisce l’evanescente Massimo Serato nel Giacomo l’idealista (1943) adattato – ancora letteratura – dal romanzo di Emilio De Marchi per opera del regista Alberto Lattuada e dagli sceneggiatori Emilio Cecchi e Aldo Buzzi. Tornato a casa, la testa piena di pallide fantasie umanitarie, il garibaldino non vede, non comprende, non agisce nemmeno quando l’amore dovrebbe indurlo al coraggio e al sacrificio. E altro non sa fare che assistere attonito alla morte (per consunzione, come vuole il genere) della infelice Celestina, personaggio di forte rilievo, capace di guidare la corrente, non sempre compatta, della narrazione. Muore incompresa e tradita la dolce “Celestina” [...]. Nella sconfitta rivelano – questi personaggi femminili – un’austera grandezza» (F. Di Giammatteo Lo sguardo inquieto. Storia del cinema italiano (1940-1990), La Nuova Italia, Firenze, 1994).
L’architetto Lattuada, con la sua grande cura per l’inquadratura e per il décor, scatena però le critiche negative della stampa specializzata dell’epoca, che tratta il film senza alcun riguardo. L’accusa che gli viene mossa più di frequente è quella di essere un regista “calligrafico”: «Ancora una volta il Cinema italiano porge la mano, per un disutile girotondo, a quel “pretestismo” che da qualche tempo si abbevera alle fonti della nostra letteratura ottocentesca! Ancora una volta non possiamo fare a meno di denunciare come assolutamente sterile ed arida, frigida e indifferente, un’unione fra letteratura e cinema piantata su siffatti termini. Se la prima deve risultare di aiuto al secondo, è indispensabile dire che questo deve avvenire per una convinta necessità di narrare per mezzo delle immagini, non per “pretesti” di dubbia, e nella più parte dei casi, insincera ispirazione. Il Lattuada è un intellettuale, senza dubbio. De Marchi, invece, è uno scrittore umano, al quale manca proprio una preziosa educazione letteraria. De Marchi manca così di “stile”. Lattuada, al contrario, ha dimostrato di avere soltanto squisiti interessi formalistici. De Marchi in ogni suo romanzo ci ha portato una tesi morale partendo da una concezione della vita semplice e schietta. Lattuada non prende posizione precisa né di fronte all’aristocrazia né di fronte ai poveri: ambedue gli ambienti gli servono, di volta in volta, per inquadrare alcuni elementi che gli interessano fotograficamente, perché è perfettamente conscio che gli possono concedere determinati effetti. Ad esempio: il paesaggio, che è visto non nel suo valore spaziale, ma è ricreato non con modi del tutto personali, ma soltanto in quanto gli offre la possibilità di riprenderlo alla maniera di tutta una scuola pittorica ottocentesca! [...] Lattuada, trasportando De Marchi sullo schermo, ha rivoltato i termini: ha svuotato il romanzo del suo contenuto apertamente umano, e ne ha cavato fuori i motivi (tutti secondari) che hanno dato modo di dimostrare il suo talento di calligrafo o di orecchiante. La stessa fuga attraverso la neve - che è il pezzo più cinematografico e più riuscito – risulta, in definitiva, un pezzo di bravura (con tutti i compiacimenti che un regista come lui poteva trovarci: il lumino in mezzo alla neve, i bianchi e i neri ecc.), avulso e staccato dal resto della narrazione» (“Cinema” n. 161, 16.3.1943).
«Giacomo l’idealista è tratto dall’omonimo romanzo di Emilio De Marchi; ed è l’esordio di un giovane, Alberto Lattuada, come regista. Esordio di grande impegno, di fermi propositi, di non piccole ambizioni. I vari nuclei del soggetto sono stati ora sfoltiti, ora omessi, come è ormai una piccola tradizione per queste riduzioni sceneggiate; per esempio, il cosiddetto e bonario “idealismo” di Giacomo è qui più accennato che vissuto (e non aveva poi in sé nulla di trascendente, era il desiderio di vivere fra i prediletti studi, tradito dalle pratiche e non felici vicende familiari). Ma tutto ciò ha una relativa importanza. Conta il come questa sceneggiatura sia stata espressa del neo-regista. Comunque lo spettatore possa accogliere il film, e il suo ritmo lento, un po’ monocorde, la regia delle singole sequenze è sempre notevole, spesso felice, talvolta esemplare. Vi pare poco, per un esordiente? C’è una composizione del quadro molto equilibrata, e sagace, e soprattutto dettata da un gusto assai vigile; mi pare questa, finora la dote più spiccata del Lattuada, non ancora molto pensieroso, invece, di un ritmo non esteriore, di una recitazione, per i suoi attori, sempre calzante. Ma questo esordio, ripeto, è tale da suscitare le migliori speranze; e basterebbe l’ampio episodio del ritorno di Celestina da Giacomo, quel ritorno che sembra una disperata fuga, in visioni invernali della campagna lombarda, una più suggestiva dell’altra, basterebbero queste pagine a non poco nobilitare il film» (M. Gromo, “La Stampa”, 5.6.1943).
«[...] da un po’ di tempo in qua non si concepisce film intellettuale o “letterario” senza lago: c’era in Piccolo mondo antico, c’era (sfido io!), in I Promessi Sposi, c’era in Malombra, e c’è in Giacomo l’idealista. Non il mare: il lago. [...] Secondo me, Alberto Lattuada avrebbe forse dovuto - per farci vedere meglio quali sono le sue qualità - scegliere una materia meno grigia, meno oppressa, meno uniforme. O avrebbe dovuto - il che sarebbe stato lo stesso - vivificarla di più, movimentarla, avvicinarla allo spettatore. [...] Nel complesso film pulito, tecnicamente accurato, messo su con intelligente larghezza di mezzi; ben “scritto” insomma, anche se un po’ freddo e fermo» (M. Doletti, “Film” n. 10, 6.3.1943).
«Per un pezzo lo stesso Lattuada si vantava di essere riuscito, in una inquadratura, a iscrivere l’attrice Marina Berti [...] entro cinque rettangoli. Dunque composizioni squisite, angolazioni preziose; in sostanza l’eleganza stilistica come alibi, ma anche il piacere di coltivare un gusto, di curare amorosamente i dettagli della scrittura per immagini» (E. Comuzio, De Sica, Germi, Lattuada, Letture, Milano, 1977).
«Élève de Soldati, le jeune Alberto Lattuada, débuta en 1942 en tirant […] un film d'un roman de De Marchi: Jacques l'idéaliste. Entre l'esthétisme de Soldati et le réalisme de De Marchi, Lattuada introduisit quelques minutes de cinéma qui portent son empreinte persoinnelle, - grâce au rythme et à la valeur plastique de certaines scènes, à l'invention poétique de gestes chargés de sens psychologique et au choix significatif des types. Un don d'observation très vif et trés milanais réussissait parfois à compenser son excès de recherches purement formelles et de pittoresque. Là aussi, comme dans Un Petit monde d'autrefois, le paysage servait de contrepoint dramatique à l'action: étendues de neige pour la fuite de la protagoniste, rivière couverte de brume, bacs désolés dans une Lombardie mélancolique et sans fard, inquiète et discrète comme celle de Manzoni» (A, Pietrangeli, “Revue du Cinéma” n. 13, mai 1948).
« Giacomo l’idealista parve a noi giovanissimi, negli anni ’41-’42 (un periodo di grandi battaglie critiche: sulla rivista “Cinema” sui settimanali dei Guf) un’opera da difendere nei confronti dei film sciatti o evasivi della produzione corrente (i famosi “telefoni bianchi”), ma parve anche indicare una inclinazione verso la “bella forma”. Il progetto salvifico per eccellenza, era invece per noi in quella stagione, quello contenuto in Ossessione di Visconti. E rimase a lungo aperto un problema: come conciliare le immagini di quel film, con quelle crude, roventi de Il bandito e di Senza pietà, i film dell’immediato dopoguerra? Certi memorabili ritratti femminili ( La lupa, I dolci inganni, Guendalina) con un film-apologo come il gogoliano Cappotto? La Mandragola, con La Tempesta e il Mafioso?» (C Lizzani, www.fondazionebizzarri.org, 2005).
Scheda a cura di Valeriana Rosso
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