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Lungometraggi |
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Il gatto a nove code
Italia/Germania/Francia, 1971, 35mm, 111', Colore
Altri titoli: Le Chat à neuf queues, Die Neunschwänzige Katze, The Cat o' Nine Tails
Regia Dario Argento
Soggetto Dario Argento, Luigi Cozzi, Dardano Sacchetti
Sceneggiatura Dario Argento
Fotografia Enrico Menczer
Operatore Roberto Brega
Musica originale Ennio Morricone
Suono Mario Ronchetti
Montaggio Franco Fraticelli
Effetti speciali Luciano Vittori
Scenografia Carlo Leva
Costumi Carlo Leva, Luca Sabatelli
Trucco Piero Mecacci, Giuseppe Ferranti
Aiuto regia Roberto Pariante
Interpreti Karl Malden (Franco Arnò), James Franciscus (Giordani), Cinzia De Carolis (Lori), Catherine Spaak (Anna Terzi), Pierpaolo Capponi (commissario Spini), Tino Carraro (professor Terzi), Carlo Alighiero (Calabresi), Aldo Reggiani (Casoni), Rada Rassimov (Bianca Merusi), Horst Frank (Braun), Emilio Marchesini (Mombelli), Vittorio Congia (Righetto), Ugo Fangareggi (Gigi), Tom Felleghy (Esson), Corrado Olmi (Morsella), Pino Patti (barbiere)
Ispettore di produzione Carlo De Marchis, Giuseppe Mangogna
Produzione Salvatore Argento per S.E.D.A. Spettacoli, Terra Wilmkunst, Labrador Film, Mondial Te.Fi.
Distribuzione Titanus
Note Nulla Osta n. 57.565 del 19.1.1971.
Girato in Cinemascope, Eastmancolor; assistente al montaggio: Cesarina Casini, Sergio Fraticelli; maestro d’armi: Bruno Ukmar; direttore di produzione: Angelo Jacono; amministratore: Carlo Du Bois; vietato ai minori di 14 anni.
Gli interni del film sono stati girati a Cinecittà; gli esterni in parte a Roma e in parte a Torino.
Sinossi
Franco Arnò, un ex giornalista che ha perso la vista, vive con l’amatissima nipotina nei pressi della clinica Terzi, specializzata in ricerche genetiche. Testimone una sera di un colloquio ambiguo e di una misteriosa effrazione, decide di affiancarsi nelle indagini a un giovane e intraprendente giornalista, mentre la direzione della clinica e la polizia minimizzano. Ma uno dopo l’altro vengono uccisi uno dei ricercatori, la sua compagna, un fotografo… L’indagine parallela del giornalista e del cieco, aiutato dalla nipotina, rivela la doppia vita della clinica, dove si effettuano ricerche sull’ereditarietà del comportamento criminale del suo proprietario, che ha un rapporto morboso con la spregiudicata figlia di uno degli altri ricercatori…
Dichiarazioni
«Il primo a farmi capire il peso che il contributo di un attore può avere in un film è stato Karl Malden, che ha lavorato con me nel Gatto a nove code. È un attore straordinario e una persona di grande spessore. Mi fece capire che un attore può aggiungere forza al personaggio di un film. In realtà, avevo sempre pensato il contrario. Mi sembrava inevitabile che un personaggio fissato sulla pagina della sceneggiatura, un personaggio pensato, non potesse che indebolirsi, una volta che un attore lo materializzava sul set» (D. Argento, in D. Costantini, F. Dal Bosco, Nuovo cinema inferno: l'opera di Dario Argento, Pratiche, Milano, 1997).
«Il film è stato girato a Torino per via di una promessa che mi ero fatto adolescente, quando venni per la prima volta in questa città con mio padre: sentii che era molto interessante da descrivere, mi impressionò molto. In seguito sono diventato regista e ho scritto il mio primo film come tale, L’uccello dalle piume di cristallo; chiesi di girarlo a Torino ma non mi fu permesso perché girare a Roma costava meno che trasferire qui tutta la troupe, dal momento che all’epoca Torino aveva perso un po’ della propria professionalità: le maestranze, i teatri, gli studi, i macchinari... erano molti anni che non si faceva cinema. Mi convinsero a non farlo. Il primo film ebbe molto successo, anche negli Stati Uniti, allora dissi che il secondo film, Il gatto a nove code, l’avrei girato a Torino perché era lì che volevo farlo. Così incontrai Carlo [Leva] e altri collaboratori […]. Sono stato molto felice di scoprire questa città con le sue architetture, le sue piazze, le sue leggende, le sue leggende metropolitane... È una città bellissima e interessantissima, per me è come Cinecittà con scenografie già costruite. […] Il gatto a nove code lo girai con entusiasmo, ma dopo la fine del film, quando finalmente arrivò la prima copia, la montai, la visionai e pensai: "Non mi piace. Non mi piace proprio, non so perché". Cominciai ad arrovellarmi sul perché non mi piacesse, senza riuscire a capirlo. Ho cominciato ad apprezzarlo di nuovo quando l'ho rivisto per intero a Los Angeles durante una rassegna dei miei film organizzata da una cineteca. La sala era molto grande e prima della proiezione avevo detto al pubblico che purtroppo quello era il film che meno amavo tra quelli che avevo fatto; alla fine pensai che non era per niente brutto. Si alzò uno spettatore a dirmi: "Non so perché non le piaccia, è un bel film, proprio un bel film, pieno di idee..." Risposi: "Lo sa che lei ha ragione?" È bello, molto bello, anche scenograficamente. Mi sono molto impegnato per farlo ed è stato anche difficile. Leva [lo scenografo del film, N.d.r.] lo sa: abbiamo fatto una lunga preparazione, giorni e giorni in giro per Torino; all'epoca il cinema si faceva con più libertà, si era più liberi, adesso in pochi giorni bisogna fare tutto» (D. Argento, “Mondo Niovo 18-24 ft/s” n. 2, 2006).
«Dario è una fonte inesauribile di idee. Con Il gatto a nove code ha scoperto in Torino una città mitteleuropea che pochi conoscevano. Ha creato lui i luoghi, li ha rielaborati con la sua fantasia. Gli esterni della GAM, ad esempio, sono diventati quelli della grande industria chimica che è al centro dell'intreccio. Oppure ha voluto modificare il terrazzo che sta in cima alla Torre littoria in piazza Castello: proprio lì, mentre parlano tra di loro, Catherine Spaak e James Franciscus capiscono chi è l'assassino. Secondo Dario la scenografia era troppo "nuda", per cui dovevo costruire un bar sul terrazzo. Era il 14 agosto, ma riuscii a trattenere un falegname pugliese che stava per partire con la moglie per le vacanze, acquistai in cartoleria della carta autoadesiva color metallo e mi feci imprestare da un bar vicino sedie, suppellettili, bottiglie. In poche ore era tutto pronto. Dario girò la scena come se il bar in cima al grattacielo fosse sempre esistito. Smontammo il bar quella sera stessa. Come vedete, si tratta di una Torino irreale, immaginata da noi quel giorno e mai esistita. La sequenza ove si svolge lo scontro finale venne in parte girata a Pomezia. Ricordate che il cieco interpretato da Karl Malden butta giù l'assassino in un lucernario. Dario diede disposizione di costruire questo grande lucernario sul tetto di un edificio industriale a Pomezia, appunto, ma naturalmente lo stesso lucernario visto da sotto, con l'uomo che precipita tra i vetri rotti, è stato ricostruito in teatro di posa. Nella tromba di un vero ascensore riprendemmo la caduta di un manichino, poi disegnai sopra un'enorme rotolo di carta i muri e le porte così come appaiono all'interno della tromba dell'ascensore; sistemammo due corde di alluminio unte di grasso che sembravano i cavi d'acciaio dell'ascensore; l'attore che interpretava il ruolo dell'assassino, con i capelli scompigliati da un ventilatore per simulare la caduta, doveva aggrapparsi a queste due corde e le sue mani sprigionavano fumo grazie ad una sostanza particolare predisposta; alle sue spalle scorreva la pellicola disegnata per simulare la tromba dell'ascensore: la sensazione della caduta era perfetta. Giuro che il montaggio di tutti questi pezzi, realizzati giorno per giorno nel corso di una settimana ma montati in pochi secondi, mi impressiona ancora oggi» (C. Leva, “Mondo Niovo 18-24 ft/s” n. 2, 2006).
L’uccello dalle piume di cristallo, fortunatissimo esordio alla regia di Argento, dà vita a una via italiana al thriller, dopo i primi esperimenti di Mario Bava con La ragazza che sapeva troppo (1962) e Sei donne per l’assassino (1964), rimasti nell’ambito delle produzioni a basso costo, con maggior riscontro sui mercati esteri e presso la critica francese più attenta. Argento, in modo simile a quanto Sergio Leone fa con il western, perfeziona un paradigma in cui al thriller di derivazione anglosassone si intrecciano elementi propri dell’horror, accentuando la visionarietà nella regia e nella fotografia, spingendo sulla rappresentazione delle efferatezze, giocando con lo spettatore tra false soggettive, particolari spiazzanti e suspense abilmente dosata. Non secondariamente, Argento esplicita gli elementi sessuali solitamente nel sottotesto, la concentrazione sulla figura femminile e sui legami familiari e sessuali come nodi tematici intorno a cui esplode la violenza.
«[…] il rapporto con il cinema del passato mi sembra diverso da quello di altri registi. Umberto Lenzi fece per esempio un film che si intitolava Spasmo, dove Mario Bava veniva citato, copiato, saccheggiato; invece il modo in cui Argento pensa o sembra pensare a Bava mi pare racchiuda qualcosa di diverso. Ne Il gatto a nove code l'insistenza con cui si passa dal corpo vivo all'inanimato, l’insistenza dello sguardo mi fa pensare immediatamente al Bava di Sei donne per l’assassino. Mi sembra che Dario Argento, in un'epoca in cui non esistevano videocassette e dvd, avesse comunque presente il cinema di Bava, quello di Fritz Lang, di Hitchcock... In una sequenza de Il gatto a nove code appaiono bicchieri pieni di latte avvelenato: evidente è l'omaggio a Il sospetto di Hitchcock dove Cary Grant portava un bicchiere di latte minaccioso, illuminato con una lampadina. Intendo dire che Argento parte dai classici cinematografici del passato, ingloba il repertorio stilistico di Bava e di Hitchcock, e lo fa diventare qualcosa di suo e di totalmente personale. Anche in questo si vede la differenza rispetto al cinema di genere dell'epoca, che ignorava completamente la storia del cinema, non era metacinematografico, mentre quello di Dario Argento è un cinema più consapevole, che sembra fatto da chi conosce benissimo la storia del cinema e quindi si può permettere anche di prendere, di inglobare, di trasformare. Tutti questi elementi (l'invenzione formale, l'invenzione tecnica, il rapporto col cinema del passato) pongono il cinema di Dario Argento come qualcosa di diverso rispetto al cinema italiano di genere di quegli anni» (A. Pezzotta, “Mondo Niovo 18-24 ft/s” n. 2, 2006).
Mentre registi e produttori si gettano nell’imitazione, dando vita per alcune stagioni a un ricco filone (battezzato thrilling, o sex-thrilling), Argento prosegue il suo percorso nel genere con un film in cui ritorna il respiro internazionale (non solo per quanto riguarda il cast) e l’alto livello di realizzazione. Si precisa la capacità di alternare il fascino dell’indagine e del mistero, i momenti ironici o apertamente comici (come la scena del barbiere, o i personaggi di contorno), le sequenze di tensione (come quella del cimitero, che richiama gli incubi di Edgar Allan Poe) e i veri e propri shock visivi. Il modello hitchcockiano, di norma richiamato dalla critica, si dilata secondo la ricerca di una propria poetica cinematografica in cui la solidità e la verosimiglianza dell’intreccio, o lo scavo sociologico in un’alta borghesia dove le apparenze rassicuranti nascondono un nido di vipere, sono in fondo questioni secondarie. Il lavoro di regia è concentrato soprattutto a spiazzare e inquietare lo spettatore in uno slittamento percettivo continuo, creando un’atmosfera avvolgente e disturbante attraverso fluidi movimenti di macchina o bruschi stacchi di montaggio sui particolari e utilizzando con grande intelligenza le geometrie urbane e architettoniche, gli spazi visivi e sonori.
«Argento è certamente un regista della sperimentazione, a tratti perfino underground. La sequenza del furto all’Istituto di genetica, in Il gatto a nove code, in cui l’assassino percorre il corridoio dell’edificio con la pila che muove, con lo sguardo e l’incedere del personaggio, un fascio luminoso sui colori, le linee e le forme quasi astratte del décor dell’ambiente, è una sorta di piccolo film underground o videoarte ante litteram. E piace anche notare che, in quel film non amato dal regista, ma in realtà ricco di intuizioni, la presenza dell’assassino si identifica con il dettaglio di un occhio umano talmente ravvicinato da perdere la fisicità più oggettiva e realistica, per assomigliare all’occhio psichedelico di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968, di Stanley Kubrick)» (F. Villa, in G. Carluccio, G. Manzoli, R. Menarini, a cura, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino, 2003).
Nel film appaiono molti edifici, strade e piazze del centro di Torino (via Maria Vittoria dove abita il protagonista, via Cavour, via Carlo Alberto, via XX Settembre, via Roma, piazza Vittorio, piazza Castello, piazza Statuto, piazza Crimea, i Giardini Reali, Porta Nuova, la GAM), luoghi che Dario Argento “reinventa” mostrandoli immersi in un’atmosfera misteriosa e inquietante. Lo scenografo piemontese Carlo Leva ha lavorato in grande sintonia con il regista ed ha fornito la soluzione visiva perfetta di alcune scene fondamentali, come quella nella cappella del cimitero, o quella della lotta finale sul tetto e la caduta dell’assassino nella tromba dell’ascensore.
Scheda a cura di Franco Prono
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