«Il cinema è documentario e finzione, ma il rapporto non è più corretto, c’è un 90 per cento di finzione e un 10 per cento di documentario, mentre quello giusto sarebbe 50 e 50. La verità è che oggi non facciamo il cinema che dovremmo fare, ma del resto non facciamo neppure la vita che dovremmo fare, altrimenti non faremmo film. Un’anziana donna tibetana e Jean-Luc Godard parlano di sé e delle loro vicende. Un film sulla memoria personale, immagini di un passato autobiografico. Un passato che non è morto, anzi non è neanche passato. Una memoria di emozioni viste attraverso altre memorie di emozioni. Ogni storia - ogni vita - ha un inizio, un centro e una fine, anche se non necessariamente in quest’ordine» (A. Ceste, www.torinofilmfest.org).
«Il film di Godard del 1966 [Due o tre cose che so di lei] ha rappresentato un punto di svolta nella sua filmografia; è la prima pellicola in cui l’elemento narrativo e quello non narrativo confliggono in maniera decisiva l’uno con l’altro. Il lei del titolo fa riferimento alla città di Parigi. Il film, interpretato da Marina Vlady, racconta con estrema intensità e forza quel particolare momento storico. Il regista francese è un vero e proprio file rouge nell’opera di Armando Ceste, che qui riprende il pensiero e le immagini di Godard dimostrando come il regista francese sia stato e sia ancora una delle menti più illuminanti della nostra contemporaneità» (S. Della Casa, trasmissione tv “La 25a Ora“, La 7, 2005).
«Nulla di quanto appartiene al film di Ceste è stato girato oggi eppure tutto è così straordinariamente presente. Bambini a una mensa. Immagini di movimento operaio. Jean-Luc Godard in corpo e voce. Fotografie di Che Guevara e le immagini del suo cadavere. Un’anziana donna tibetana. " Code" di pellicola e i colori indefiniti della memoria. Ceste lavora sulla memoria e sull’emozione. Da anni. Elabora materiali di "un passato che non è morto, anzi non è neanche passato" (Ceste). E con Due o tre cose annulla i confini tra realtà e finzione, penetra quella linea sotterranea che tocca l’attimo in cui si incontrano godardianamente il cinquanta per cento di finzione e il cinquanta per cento di documentario. Con Due o tre cose (che so di:) Ceste sovrappone testi, li fa incontrare, li ri-guarda e intervenendo su di essi mentalmente li ri-filma dopo averli già filmati un tempo (i bambini, la donna a Katmandu dieci anni fa...) oppure cercai in memorie altrui fissate su pellicola o video. Le immagini perdono la loro funzione d’archivio, testimoniano le incertezze del finesecolo, sono corpi del dolore, fisicamente presenti in un racconto naturalmente spezzato» (G. Gariazzo, “Cineforum”, n. 12/340, dicembre 1994).