«Quel film nasce dall'idea di trasmettere la realtà, la mia realtà di ebreo cresciuto a Torino. Sono le voci e i volti dei protagonisti del tempo che accompagnano alla scoperta delle bellezze artistiche delle Sinagoghe. Ma soprattutto fanno rivivere l'atmosfera di un mondo e di una cultura che sono patrimonio importante» (D. Segre, 28.11.1999).
«La storia degli insediamenti ebraici è stata per me lo spunto per rappresentare l'identità e la cultura dell'ebraismo piemontese, all' interno di una carica emozionale che riguarda la mia storia personale. È stata un'occasione per contarmi, un pezzo del mio essere di italiano ed ebreo. Il nostro è stato un secolo segnato da ferite non ancora rimarginate. Alludo alle leggi razziali, alle deportazioni, ai campi di sterminio. Per costruire l'ebraismo del Duemila, dobbiamo lavorare tutti insieme nel rispetto delle reciproche identità» (D. Segre, “la Repubblica”, 30.11.1999).
«Il film di Segre sottolinea in 53 minuti di proiezione intensa il ricordo degli avvenimenti e delle esistenze collegate da quel filo unico che lega gli ebrei attraverso le sinagoghe. Luoghi, dice Segre nella presentazione, ma anche persone che si aggregano per l'esercizio di piccoli commerci o attività di studio, insieme nei ghetti separati dagli altri cittadini, uniti per il culto nelle sinagoghe che rappresentano quanto di più specifico e intimo appartiene all'ebraismo. È l'occasione per andare alla scoperta di una cultura, una religione, uno stile di vita percorrendo i luoghi che ne hanno determinato l'esistenza attraverso tante sofferenze, persecuzioni e conquiste di libertà. [...] Il patrimonio ebraico piemontese rappresenta una situazione unica in Europa per la ricchezza e la bellezza. Frutto dell'impegno della comunità torinese nell'ambito di un progetto per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio artistico. E per il recupero di quelle testimonianze che passano attraverso la memoria di chi può ricordare. Per due anni, durante l'estate, le sinagoghe piemontesi si aprono ai visitatori sotto la guida di esperti della Cooperativa Artefatta che insieme alle bellezze artistiche illustrano anche le strade in cui gli ebrei furono costretti a vivere, nei ghetti prima del riconoscimento dei diritti civili sanciti nel 1848 dallo Statuto di Carlo Alberto. E poi dopo la crescita sociale e civile fino al 1938, quando le infami leggi razziali riportarono terrore, fughe, morte» (M. Valabrega, “La Stampa Torinosette”, 26.11.1999).
«Segre che, figlio di un rabbino, ha vissuto la sinagoga come una casa, sa bene cosa mostrare, che luce scegliere per rendere più significativo il racconto di un luogo, quando far scorrere le immagini e quando soffermarsi sui riccioli barocchi e rococò o portarci in alto seguendo le influenze gotiche o i tradimenti antonelliani. Un atto di fede quello del regista, che sottintendendo parecchi temi peculiari della religione ebraica, suscita interesse e curiosità anche in chi le parole Shabbat, Kippur e Pesach hanno un significato vago, lontano, poco comprensibile e di non facile interpretazione. Le persecuzioni hanno senza dubbio preservato una certa fratellanza tra gli ebrei. Segre analizza il livello di sviluppo delle varie comunità partendo dalla concessione dei diritti di cittadinanza di cui hanno beneficiato in tempi diversi. [...] La paura e il dramma vissuto dagli ebrei si riflette ampiamente nel film, dove il senso di morte e la consapevolezza di essergli sopravvissuti danno vita ad un viaggio tanto appassionato quanto doloroso» (A. Monti, www.FilmFilm.it, 10.2.2005).
«Segre non nasconde il proprio corpo come chi ha l\\\'obiettivo di occultare l\\\'identità per trasformare la realtà ed imporci il proprio punto di vista, al contrario la sua negazione diventa fondamentale per mettere in contatto il suo cinema con la durata. Anche in Sinagoghe, il corpo di Segre si sottrae alla storia, alle testimonianze, ai volti che vi compaiono. Questo mediometraggio del 1999 rappresenta il percorso che ha portato il Popolo ebraico dalla vita alla sofferenza, e dalla sofferenza alla dimenticanza. Le comunità sembrano giganti in uno stato avanzato di disgregazione, la memoria orale conservata e tramandata di generazione in generazione non sembra avere un grande seguito in un futuro in cui ogni legame è interrotto. Solo qualche comunità nei centri urbani maggiori sembra promettere una minima continuità con un futuro soltanto prossimo. Le sinagoghe rimangono sfondo di uno scenario in cui i rituali del tempo ciclico di un popolo si sfaldano nel tempo pseudociclico della moderna società globalizzata, silenziose, imponenti, in perenne lotta con la propria dissoluzione, immagine tempo di un passato di cui sono le gelose custodi. L'autore invisibile, diventa pittore impressionista e gioca con i movimenti di luce di quelle cattedrali misteriose, ricche di una spiritualità altra, di una mistica sacralità. L'oscurità si fa palcoscenico, e su di questa danzano gli spiragli di luce che colorano di viola di bordò, di blu scuro gli spazi vuoti delle sinagoghe» (A. Falconi, www.cinemavvenire.it, 19.10.2005)
«Ritrarre questi luoghi particolari del Piemonte, talvolta piccoli e appartati, talvolta grandi e appariscenti, è ritrarre la presenza ebraica nel territorio, dai primi insediamenti alla fine del 1300 (in seguito alle espulsioni da Spagna, Francia, Germania) alla aggregazione e segregazione nei ghetti; dalle importanti conquiste di uguaglianza dello Statuto Albertino del 1848 all’infamia delle leggi e delle persecuzioni razziali sotto il fascismo e il nazismo. Ritratto di una Comunità ebraica piemontese attraverso i suoi luoghi e i segreti anche, indirettamente, ritratto di una regione e del suo incontro con altri popoli e culture. Sinagoghe, ebrei del Piemonte inizia lo spettatore alla conoscenza di una storia antica e affascinante che è storia e patrimonio di tutti» (AGI, www.cinemaoggi.it, 15.3.2005).
«Assistendo alla proiezione del film di Daniele Segre Sinagoghe - Ebrei in Piemonte, una cosa mi pare certa: l\\\'autore è convinto che l'ebraismo piemontese sia cosa morta. Le immagini sono certamente suggestive, ma andando oltre il risultato puramente estetico comunicano un senso di passato, più o meno remoto, magari perfino recente, ma morto. Scale buie, vuote; corridoi vuoti; sinagoghe splendide nella loro bellezza discreta, vuote. O peggio che vuote: con dentro una persona sola, intento custode di ricordi. Mi si dirà che le sinagoghe di Biella, Saluzzo, Cherasco sono realmente questo: vestigia del passato che oggi non possono che essere musei. È vero. Ma parafrasando il detto "è il tono che fa la musica" si potrebbe dire, trattandosi di un film, che "è l' immagine che fa il messaggio": non è il testo, non è la bellezza dell'immagine, ma il suo taglio e soprattutto il suo insistente reiterarsi che fan sì che perfino ciò che è indiscutibilmente vivo appaia altrettanto morto. E fra tanto "passato" è difficile recepire il "presente" come tale. [...] Last but not least: perché la musica klezmer? Perché quel clarinetto che, con i suoi aspri suoni di risa e lamenti lontani nel tempo e nello spazio, contrappunta incongruamente il barocco piemontese della sinagoga di Casale o il falso moresco delle cupole del tempio torinese? Perché quel viso, intenso e stralunato, che pare capitato lì per caso dal set in cui si girava un film su Singer? Non è troppo facile ricorrere all'equazione stereotipata e di moda ebrei=musica klezmer? Il fatto che si ascoltino anche alcuni canti locali, intonati da Rav Weiss Levi e da Franco Segre, non fa che rendere ancora più stridente la scelta precedente» (R. Moffa Bosco, “Ha Keillah”, 10.2.2000).
«È difficile dissentire da Rosy Moffa. Anch'io avevo pensato cose nella sostanza non diverse sull'accompagnamento musicale giocato su accattivanti registri estranei al nostro mondo sonoro, sull'irreale splendore chagalliano delle immagini e sui limiti di una lettura mortuaria del Piemonte ebraico. Ma è anche difficile negare che le sinagoghe piemontesi, filmate da Daniele Segre con struggente partecipazione, vuote di ogni pratica di culto, siano da contemplare solo più come archeologia religiosa e bellezza di ambienti e decoro. A Mondovì, per fare un esempio, nella sinagoga di recente mirabilmente restaurata, si vede un solo vecchio ebreo che racconta; ma è proprio così, quello è l'ultimo ebreo rimasto ad abitare quei luoghi. Sinagoghe è dunque il vissuto e la rappresentazione di un artista che rivolge all'ebraismo piemontese il suo sguardo, che è accorato, barocco, nostalgico e anche impietoso, si considerino i volti dei testimoni scrutati a distanza ravvicinata in un feroce iperrealismo. E in questo contesto esso si giustifica e si comprende. Esso invece non è un documento esaustivo sull'ebraismo piemontese (ma lo voleva essere?), perché di esso non offre una storia leggibile e attendibile per quanto riguarda il suo percorso e il suo presente. Comunque perché non discuterne con l'autore?» (E.J., “Ha Keillah”, 10.2.2000).
«Mi ha fatto molto piacere leggere su “Ha Keillah” di Febbraio alcune impressioni sul film Sinagoghe, ebrei in Piemonte, ma mi ha fatto ancor più piacere constatare che il film ha creato "stimoli forti" sul significato delle forme e dei linguaggi espressivi che ho utilizzato per raccontare un viaggio non solo di luoghi ma anche di volti, che in un certo senso mi appartengono da quando sono nato e con i quali, in modo molto personale, ho voluto riprendere contatto. Riprendere contatto, come quando, dopo un lungo viaggio, c'è bisogno di guardare dove sei e che cosa stai facendo, non solo con i pensieri ma anche con le azioni di tutti i giorni. Per lungo tempo nella mia adolescenza la sinagoga è stata una vera e propria casa: mio padre e mia madre hanno lavorato per la Comunità Ebraica di Torino e abitavamo in Comunità; molto tempo l'ho passato a osservare mio padre che preparava la sinagoga per Io Shabbat e mia madre che spolverava le panche del tempio. Insomma casa e sinagoga, come d'altronde i miei avi rabbini, responsabili religiosi di Comunità, come quella di Casale Monferrato e non solo. È chiaro che chi si aspettava un film "istituzionale" non può che essere rimasto deluso: il film non lo conforta e non lo appaga. Infatti vedere le sinagoghe deserte e talvolta inattive non fa certo piacere, il mio è stato un viaggio anche doloroso che mi ha fatto riflettere su cosa può essere oggi l'ebraismo piemontese, sicuramente non morto ma in una fase di grande e complessa trasformazione che lascia dietro a sé un passato "forte" al contrario di un presente "debole" di cui anch'io, espressione di una generazione di ebrei piemontesi "di mezzo", mi sento responsabile. La scelta delle musiche klezmer è una libertà poetica necessaria e funzionale all\\\'architettura visiva, ho scelto di sacrificare aspetti di filologia stretta per valorizzare la visione e il ritmo del racconto, senza però trascurare i "canti locali", interpretati con grande intensità e rispetto della tradizione ebraico/piemontese da Rav Weiss Levi e da Franco Segre e gli aspetti d'integrazione linguistica degli ebrei con il territorio del Piemonte attraverso la sequenza delle "voci giudaiche/piemontesi". Livelli di rappresentazione diversi e intersecati per offrire spunti di arricchimento narrativo e interpretativo (ognuno, per fortuna, è libero di leggere il film come vuole), tutto comunque per attivare una comunicazione per un pubblico il più ampio possibile, al quale si racconta, tra l\\\'altro, attraverso testimonianze significative una parte della storia degli ebrei italiani riferita alle leggi razziali e alla deportazione nei campi di sterminio, alle lotte per l'emancipazione e il rispetto dei diritti di cittadinanza. [...] Non mi sono mai posto l'obiettivo di realizzare un documento esaustivo sull'ebraismo piemontese, non ne sarei stato capace e comunque non è mai stato il mio intendimento. Il film lo considero innanzitutto un atto d'amore e di fedeltà ai valori con i quali sono cresciuto» (D. Segre, “Ha Keillah”, 10.4.2000).