Suono Dolby stereo.
Opera prima realizzata con il contributo del Ministero dei Beni Artistici e Culturali e il sostegno di Film Commission Torino Piemonte.
«L'edificio qui davanti [palazzo Coardi Carpaneto in piazza Carlina a Torino] è un po' il sunto della nostra storia. Questa era "la casa di Gramsci", vi soggiornò tra il 1911 e il 1921. In una di quelle stanze operò la redazione di “Ordine Nuovo”. E adesso quell'"ostello" del socialismo, quella fucina di ideali, sta per venir trasformato in un albergo di super lusso. Una cinica, emblematica, svendita della memoria e della storia. Un po' quello che succede al nostro gruppo di amici. Che, buttato alle ortiche l'antico coraggio di sognare e progettare utopie, si ritrovano adagiati nell' acquiescenza al potere, o pronti a darsi gomitate nella corsa al denaro e al successo. Ogni tanto i ricordi di quell'età dell'innocenza riaffiorano, proprio come le parole di Gramsci dentro queste mura abbandonate. Ma solo un attimo,e poi svaniscno. […] Un film sulle trappole della vita, sul tempo perduto e mai più ritrovato, su ciò che poteva essere e non è stato, sulla visione del mondo sbiadita in una miopia egoista, incapace di andare oltre l'attimo fuggente. Agli studenti che nel '68 sfilavano a Parigi, Ionesco gridò: "Voi sarete i servi del potere di domani"» (S. Coletta, www.arteteatro-eva.blogspot.com).
«Abbiamo girato a Torino, una città misteriosa ma moderna. Ho scelto una luce realistica, contemporanea, senza riferimenti espressivi precostituiti. Essendo un film soprattutto di dialoghi, ho articolato una luce quasi invisibile, che fosse solo e soltanto funzionale alla storia, senza che diventasse essa protagonista e togliesse spazio ai personaggi. […] È un film a basso costo, con un budget inferiore al milione di euro. Abbiamo girato sei settimane, molto intense, che per me hanno assunto un significato emozionale particolare, trattandosi dell’esordio alla regia di mio nipote Stefano Coletta, peraltro già affermato autore della fotografia. […] Volevo una Torino grigia che fosse in qualche modo un involucro perfetto per la storia che raccontavamo […] abbiamo girato spesso con carrelli o con macchina fissa; solo per due giorni abbiamo usato la steadycam per alcune sequenze più dinamiche. Nel complesso abbiamo adottato, d’accordo col regista, un linguaggio semplice, lineare, senza fronzoli. Anche qui la scelta è stata quella di non distrarre lo spettatore con tecniche o preziosismi, quanto essere essenziali con la macchina da presa per descrivere la storia con la massima semplicità possibile» (F. Di Giacomo, “Imaging”, settembre 2007).