Regia Emanuela Piovano, Anna Gasco, Tiziana Pellerano
Soggetto Emanuela Piovano, Anna Gasco
Sceneggiatura Emanuela Piovano, Anna Gasco
Fotografia Elisa Basconi
Musica originale Cinzia Gangarella
Suono Cinzia Rossi
Montaggio Alfredo Muschietti
Trucco Gloria Di Muro
Interpreti Laura Betti (“l’amica dei poeti”), Ninetto Davoli, alcune detenute del carcere Le Vallette di Torino: Carmen C., Daniela A., Concetta R., Marzia Z., Rita M., Elisabetta B., Anna F., Francesca P., Morgana C., Conni F., Caterina R., Betti P., Vittoria D., Cinzia C., Antonietta P., Maria V., Antonella C.
Ispettore di produzione Fulvio Pontis
Produzione Ennio Pontis per Kitchenfilm e Airone Cinematografica
Note Sottotitolo: da una poesia di Lidia.
Didascalia iniziale: a Lidia, Ivana, Editta, Lauretta, Michi
Il film è stato girato in 16 millimetri e poi “gonfiato” a 35.
Assistente operatore: Tiziana Pellerano; riprese video: Emanuela Piovano; fotografa di scena: Marilaide Ghigliano; suono in presa diretta; microfonista: Stefania Fantini; effetti sonori: Luciano Anzellotti; programmazione e realizzazione della colonna sonora: Andrea Ridolfi; fonico mixage: Alberto Doni; assistente al montaggio: Claudia Vivenzio; aiuto al montaggio: Paola Tomassi; parrucchiera: Seba De Martino; assistente alla regia: Tina Castrovilli; segretaria di edizione: Ludovica Scandurra; segretaria di produzione: M. Grazia Pontis.
Locations: Torino (Carceri "Le Nuove"), Roma (casa di Laura Betti).
Poesia Le rose blu, scritta e detta da Lidia nel film:
«Sto parlando con la società / la società che è fuori dalle mura grigie / la società per cui abbiamo combattuto tanto. / Voi non sapete che le mura grigie esistono / esistono veramente / in tutti i centri rurali / nelle province / nelle città ovunque ovunque. / In queste mura grigie / ci sono delle rose / sì delle rose blu. / Le rose di solito hanno tanti colori / bianche rosse gialle. / Ma blu, blu fuori non ce ne sono rose blu. / Sono solo chiuse qua dentro. / Fuori passate e ci passate / così noi passiamo inosservate / così per voi. / Eppure io di sera di notte di mattina / io le sento / io sento di notte ogni cuore / ogni cuore di queste mie amiche sento battere / le sento palpitare. / Esistiamo».
Sinossi
Una rosa blu è stata portata dentro il carcere femminile con il preciso mandato di consegnarla alla detenuta Lidia da parte di “un'amica dei poeti”. Ma Carmen, la prima a ricevere la rosa, è anche la prima a dimenticarsene, sempre occupata a fare la morale a qualche ragazza. Inoltre non tutte sanno chi sia Lidia, né dove esattamente si trovi adesso, dato che i peraltro deboli tentativi di recapitarle la rosa falliscono sempre. Luisa, l'ultima arrivata, apprende da Carmen che Lidia è per tutte quante loro un personaggio simbolico e carismatico, che ha scritto una poesia proprio sulle rose blu, e che fino a quel giorno si trovava in cella di isolamento. Luisa chiede emozionata se può essere lei a riportare la rosa quando Lidia uscirà. Ma proprio mentre la porta sta per aprirsi si sente una fragorosa “battitura” di tutte le detenute, suonano gli allarmi, scatta l'emergenza. Nel suo appartamento l'amica dei poeti riceve la rosa dalla guardia che l'aveva condotta da Carmen. Come in una veggenza o un'evocazione, ritornano tra le fiamme i volti delle ragazze realmente morte nell'incendio delle Vallette del 3 giugno 1989, tra cui Lidia, delle quali restano soltanto i provini in video.
Dichiarazioni
«La nascita di questo film-operazione-impresa si colloca nella generale apertura del fenomeno carcerario in concomitanza con il nuovo codice di procedura penale. Un altro fenomeno sta dietro al movimento interno/esterno nato, credo, nel 1987 e che ha visto vari personaggi della cultura ufficiale entrare in carcere su diretta richiesta dei detenuti/detenute. Fu così che il nostro gruppo, Camera Woman, attivo a Torino dal 1984 con seminari, animazione, stage di cinema-video, fu contattato dall’area omogenea femminile nel 1987 per realizzare un laboratorio di alfabetizzazione visiva. Sono nate così il blocco delle videolettere, che, a differenza dei lavori analoghi, percorrevano il difficile e inedito percorso della reinvenzione, della fiction, del documentario visionario piuttosto che dell’inchiesta filmata e affini. Le rose blu è l’estremo punto di arrivo di questo fenomeno. L’elaborazione di una sceneggiatura di e con le detenute stavolta anche comuni è il punto di arrivo di quest’esperienza, del tutto nuova, dell’esigenza dell’universo carcerario italiano di confrontarsi e parlare al di fuori di e su se stesso [...] La critica dell'attuale sistema carcerario non è dunque espressa, ne Le rose blu, attraverso denunce o scandali, ma attraverso la metafora della sua insensatezza, messa in scena come ipertrofia dell'immaginario. [...]. Il carcere, dunque, ne Le rose blu, non è il contenitore né il palcoscenico, ma attraversa tutto il meccanismo della messa in scena: I'autismo delle scenette beckettiane, la sottile ironia del pentimento e della redenzione nelle “tirate” della protagonista più anziana e carismatica, Carmen. La camera fissa e le sequenze a teatrino sono lì ad esibire non quindi un discorso sul carcere, ma il discorso del carcere, tra assurdità, contraddizioni e barlumi di desideri. [...] II carattere simbolico e allegorico di tutta l'operazione ha la sua legittimazione nell'essere stato girato davvero dentro un carcere e con le detenute. Cosa linguisticamente esibita dall'azzeramento del linguaggio filmico, non già riportato alla candid camera ma alla messa in scena. Le detenute sanno che sono riprese e che stanno agendo una rappresentazione. In assenza di una vera e propria professionalità, I'azzeramento consiste nel scegliere il punto più facile: la camera fissa e il piano totale. Che è già linguaggio, ma linguaggio primordiale, la camera oscura e l'unico punto di fuga. Archeologia dello sguardo, e suo classicismo. II grado zero non è dunque nell'illusione di realtà, le poetiche del documentarismo. Perché semmai la verità di questa operazione è nel suo essere “messa in scena”, ma “sporca”, sfuggente, “mal recitata”, ovvero recitata nel vero senso della parola» (E. Piovano, Presentazione alla stampa, 1990).
«Lidia, e con lei Ivana, Michi, Editta, Lauretta insieme ad altre sei donne, sono morte nell'incendio del 3 giugno, lasciandoci in eredità due ore di riprese video in mezzo pollice e la consegna quasi una profezia, a realizzare il film a tutti i costi, qualsiasi cosa fosse accaduta. [...] La più agguerrita era Lidia, Lidia che ogni tanto le dicevo di non prendere troppo spazio, e quella volta che ha voluto registrare il pezzo sulle rose blu lo ha fatto dopo che io ho chiesto l'approvazione di tutte le altre, dato che quel giorno non sarebbe toccato a lei. E non gliel'avrei proprio fatto registrare se lei non fosse venuta a dirmi con tutto il suo coraggio e la sua forza, anche seduttiva, che io non potevo capire, che la sua era un'urgenza, e che io avevo il dovere, quindi, di rispettare quell’urgenza. Qualche giorno dopo di Lidia non ci sarebbe più stato al mondo che quella videoripresa» (E. Piovano, Diario, 1990).
«Per me è molto difficile parlare di quest’esperienza. Le rose blu è il film che ho progettato con più entusiasmo e che vorrei non avere mai fatto, che non potrò più dimenticare e cui non vorrei pensare mai, intrecciato com’è all’incendio delle Vallette del 3 giugno 1989. Non solo il mio discorso ma il film stesso esprime questa contraddizione, l’elaborazione di questo lutto. Tre registe per Le rose blu. Infatti sono state necessarie una grande ostinazione, una grande perseveranza: la tenacia di tre persone. L’obbiettivo era quello di gettare uno sguardo dentro un mondo chiuso; chiuso non soltanto per coloro che ci sono dentro, ma anche a quelli che sono “chiusi fuori”. Non uno sguardo voyeuristico che indagasse, che guardasse con curiosità e indiscrezioni dentro l’intimità della cella; ma uno sguardo che incontrasse altri sguardi, in un gioco di soggettività da valorizzare reciprocamente» (A. Gasco, in Città di Torino Assessorato alla Gioventù, Cinema e video a Torino 1992, E.D.T., Torino, 1992).
«È intitolato con il nome di qualcosa che non esiste in natura, Le rose blu; ha per sacerdotessa in pasoliniana memoria Laura Betti scortata dal fedele Ninetto Davoli; è dedicato alla detenuta Lidia, una delle vittime dell'incendio che il 3 giugno 1989, a Torino, devastò la prigione femminile “Le Vallette”, quella nuova più fatiscente della vecchia. È un piccolo film indipendente a 16 millimteri, gonfiato a 35, che nasce dall'ostinazione, la tenacia, il lavoro matto e disperatissimo di una cinquantina di persone, in gran parte carcerate. [...] Le rose blu è l'elaborazione di un lutto, si ispira a una poesia di Lidia e richiama alla necessità della Poesia per far luce sulla realtà. Non è un film sul carcere, opera impossibile, ricorda la terrorista Susanna Ronconi sullo schermo, citando Marguerite Duras: è un film del carcere, un piccolo teatro dell'assurdo appassionato, sconcertante, a volte irrisolto. Un'operazione di fantasia divisa in tanti capitoletti. Bagnanti al sole: la spiaggia è il duro pavimento del cortile, il mare una tinozza. Dialogo con la gallina Martina: una gentile detenuta la tira via dal suo gabbiotto ma fuori ci sono le sbarre del carcere e non cambia niente. La detenuta parrucchiera: consigli su come farsi belle per il processo e come aggiustare la permanente per l'uscita. Monologhi di solitudine, droga, liti, affetti, rituali casalinghi di pulizia della cella ovvero come rilassarsi stirando la biancheria. E una rosa blu, filo conduttore del film, che passa di mano in mano e símbolizza l'aspetto indicibile della sofferenza di esser privi della libertà» (A. Levantesi, La Stampa, 13.3.1990).
«Le rose blu è dedicato alle donne perite in prigione in un drammatico incendio. In primo luogo a Lidia, emblematizzata nella sua poetica singolarità dal fiore che, passando di mano in mano, finirà in quelle di Laura Betti, tramite onirico e sonnambolico - in uno con Ninetto - verso il corpo poetico più angariato e martirizzato dei nostri anni terribili: quello di Pasolini. Non per questo il film delle rose blu è serioso e compunto. II tono dominante è invece leggero ed ironico; crudele ed insinuante e doloroso, certo, per quel che la vicenda esprime; e sempre proteso a cogliere i suggerimenti del set, dunque risolto stilisticamente nella sciolta andatura di un linguaggio a suo modo sperimentale» (G. De Santi, “Cineforum” n. 6/295, giugno 1990).
«Il film è così straordinario perché parte da un punto lontano, un linguaggio seguito da tanti occhi, costruito da tutto un gruppo, non c'è più traccia di cinema verità, è come una poesia dove si possono anche usare parole normali perché sembrano nuove. Una scena dopo l'altra come tante celle diverse, con degli spazi che sono quasi liberi, muri buttati giù dallo stato di grazia del film. Come sulla spiaggia, come in campagna o dal parrucchiere o nella cucina di casa o alla scrivania, ricostruiti dagli assetti e complicità, come si sistema una casa in cui vivere, millenario destino, con i tanti accenti del sud velati di torinese. Un film forte e politico, drammatico nelle sue pieghe comiche, emozionante nel montaggio incalzante» (S. Silvestri, “il manifesto”, 13.3.1990).
«Titolo strano, “artificiale”. Le rose vi sono contenute in quanto fiore-simbolo dei poeti, e il film non nasconde le sue inclinazioni a una poetica pasoliniana di cui ha alcuni ingredienti fondamentali: lo sguardo fisso su uno strappo doloroso del tessuto sociale, le protagoniste dalle vite balorde, la partecipazione dei due numi tutelari della memoria di Pasolini, Laura Betti e Ninetto Davoli. Blu, invece, perchè l'oevre au bleu è l'opera impossibile e, come spiega Ia Piovano, “il carcere non si può raccontare, perlomeno non con la tecnica del documentario”. Ma Le rose blu è stato battezzato così soprattutto perchè questo era il titolo scelto da Lidia, una delle detenute morte nell'incendio, esuberante fino all'esibizionismo, che più di tutte le altre aveva voluto il film» (G. Martinat, “la Repubblica”, 30.5.1990).
«Per fortuna non abbiamo tentazioni omosessuali o rivolte fallite da romanzaccio nell'esperienza rivissuta e raccontata dalle stesse recluse secondo un'eco del cinema-verità. Semplicemente attraverso incisivi primi piani ascolteremo magari le infatuazioni per i più belli del ramo maschile che si stagliano lontani con provocatorietà involontaria o seguiremo i consigli per presentarsi semplici ma non dimesse al processo dove una buona impressione non guasta. Di tanto in tanto echeggia la rabbia dal video di Lidia, che viene alternato a pacate osservazioni delle compagne intente a inventarsi una qualche normalità nella vita di cella. Se trascuriamo l'inutile (pasoliniano?) contributo di Laura Betti e Ninetto Davoli, il film colpisce per la misura nel racconto, per un certo spirito che consente di superare i momenti più duri, per la voglia di fraternità che traspare da confessioni e battute soltanto in apparenza sarcastiche. L'intreccio delle varie vicende nel montaggio e nella colonna sonora evita ridondanze e ripetizioni» (P. Perona, “Stampa Sera”, 2.6.1990).
«Un'idea del così detto cinema civile è che sul grande schermo sia possibile portare alla luce “l'invisibile sociale”, ovvero dar voce a chi, nella vita, viene relegato ai margini o esplicitamente represso. A questo filone, caro a Pasolini (basti pensare a certi suoi film capaci di trasformare in protagonisti tragici anche i ragazzi di borgata), corrisponde una fragile e durissima pellicola intitolata Le rose blu [...].Ciò che sorprende è che, a poco a poco, la dimensione costrittoria si dilata raggiungendo un senso metafisico: tra monologhi di solitudine, litigi, illusioni, queste carcerate diventano le sacerdotesse di un collegio femminile che, passandosi il testimone di una emblematica e impossibile rosa blu (che solo la poesia cinematografica rende “visibile”) consumano la pena delle loro “vite scellerate”, pagando forse un prezzo troppo alto» (R. Binosi, “Grazia”, 1990).
«L’idea è quella di un film poetico, che si regge su storie minime [...] È ovviamente un film claustrofobico e non potrebbe essere altro essendo impostato sull'istituzione carceraria e girato quasi esclusivamente negli spazi delle carceri Nuove [...] Il tutto all'interno di ambienti che sono connotati anche dall'assenza di tonalità cromatiche forti, il colore dominante essendo il bianco-grigio dei muri e dei pavimenti, l'ocra stinta degli armadietti, il grigio ferro di brandine e sbarre. [...] Rispetto alle videolettere, si è cercato questa volta di dare una struttura unitaria pur mantenendo la frammentazione delle esperienze personali che vengono narrate: e il collante è fornito dallo spingere le situazioni, la recitazione, le storie in una dimensione onirica, ritenendo che solo la fantasia e la creatività possano garantire la sopravvivenza in una struttura chiusa e limitata quale è il carcere. Le detenute alternano dialoghi e monologhi, passaggi realistici e situazioni immaginate, autocoscienza e finzione, passato, presente e futuro inseguendo ogni barlume di vita, ogni stimolo per riempire il lungo vuoto di giorni che trascorrono implacabili e inutili. Forse il nodo irrisolto del film è proprio quello di non aver saputo puntare sino in fondo sull'aspetto visionario, di non avere insistito sulla dimensione atemporale di un mondo che ha una scansione dei tempi completamente diversa dall'esterno. (S. Della Casa, “La Stampa”, 1990).
«[...] la rosa blu destinata alla detenuta Lidia, passerà di mano in mano lungo tutto l’arco del film e non verrà mai recapitata, simbolo di una sofferenza che non ha fine e che coincide con la privazione della libertà. Nella scena conclusiva, frutto di un incalzante montaggio a mezza strada fra veggenza ed evocazione, tornano tra le fiamme i volti delle ragazze morte nell'incendio e delle quali è rimasta traccia soltanto in quei provini girati dietro le sbarre: piccole rose blu destinate a sfiorire nella generale indifferenza (L. Sandrone, “Famiglia Cristiana” n. 24, 1990).
«Non è una mimosa, è una rosa blu, ma significativamente donna – donna in lotta, donna libera anche se reclusa - molto meglio di quanto facciano rituali e simboli del calendario. Nel carcere di Le rose blu [...] la femminilità espone, un po' martire, un po' madre, i suoi petali e le sue spine. (M. Serenellini, “la Repubblica”, 26.4.1991).
Scheda a cura di Vittorio Sclaverani
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