Regia Carlo Lizzani
Soggetto Dino Gentili, Filippo Gentili, dal libro omonimo di Marco Nozza
Sceneggiatura Dino Gentili, Filippo Gentili, Pasquale Squitieri, Carlo Lizzani
Fotografia Claudio Sabatini
Musica originale Luis Enríquez Bacalov
Suono Giacomo Colajacomo, Simone Corelli, Gilberto Martinelli, Alessandro Salvatori
Montaggio Massimo Quaglia
Scenografia Tonino Zera
Costumi Katia Dottori
Trucco Enzo Mastrantonio
Interpreti Benjamin Sadler (Hans Krassler), Ursula Buschhorn (Cora Bern), Federico Costantini (Julien Fendez), Ivana Lotito (Noa Benar), Nando Murolo (Dino Fendez), Adriano Wajskol (Daniele Modi), Federico Pacifici (Alberto Moneri), Ralph Palka (Otto Spitz), Thierry Toscan (Federic), Nuccio Siano (Maurizio Scimena), Silvia Cohen (Liliana Fendez), Simone Colombari (Pierre Fendez), Marta Bifano (Camy Benar), Danilo Nigrelli (Giorgio Benar), Eugenio Allegri (Vittorio Pomas)
Casting Cornelia Von Braun, Flaminia Lizzani
Produzione Ida Di Benedetto, Stefania Bifano, Piero Amati e Jacques Strauss per Titania Produzioni, Plaza Production International, Film 87
Distribuzione Mikado
Note Supervisione alla cinematografia: Vittorio Storaro; altri interpreti: Marco Fubini (Marcus), Ernesto Mahieux (Filippetti), Majlinda Agaj (Irma Moneri), Veronica Bruni (signora Ariana), Butz Ulrich Buse (Tepper), Diana Collepiccolo (Ester Moneri), Fabio Ghidoni (Giacomo Fidani), Elia Donghi (Robert Fendez), Giancarlo Judica Cordiglia (Mario Manulli), Massimiliano Di Grazia (Nipote Someco), Fiamma Ferzetti (Blanca Fendez), Anna Maria Loliva (Signora Melloni), Franco Maino (Arnaldo Foschi), Fabio Marchese (Marcel Benar), Francesco Meoni (Aldo Pizzi), Gordana Miletic (Nonna Someco), Marco Morellini (Raoul Tomes), Lavinia Pozzi (Lisa Manulli), Andrea Redavid (Vito Coni), Johannes Robatscher (Peter), Almerica Schiavo (Valerie Tomes), Maurizio Tabani (Virginio Jamac), Gilda Postiglione Turco (Adriana); location manager: Alessandra Curti; aiuto cassiere: Maria Schirripa; collaborazione alla produzione: Rai Cinema.
Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Film ’87 d.o.o. (Serbia), Plaza Film (Francia) e con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte.
Sinossi
Lago Maggiore, settembre 1943. Un gruppo di sedici ebrei italiani alloggia all'Hotel Meina, di proprietà di Giorgio Benar, ebreo con passaporto turco che lo rende immune dalle leggi razziali. All'indomani dell'armistizio un reparto di SS viene inviato a Meina. Separati dai non ebrei, i sedici vengono reclusi: per loro, i familiari e amici, inizia una settimana di attesa, terrore e speranza. Alla fine, portati via dall'albergo a piccoli gruppi per "essere interrogati nella vicina Baveno", gli ebrei sono massacrati e gettati nelle acque del lago.
Dichiarazioni
«Questo film rappresenta per me un ritorno alla storia, che è da sempre uno dei due filoni del mio cinema insieme all'attualità. Oltre all'aspetto storico in sé, mi ha colpito il luogo in cui i fatti avvengono. In un albergo, pochi giorni dopo l'8 settembre, si ritrovano insieme ebrei e SS, tutti in attesa degli ordini. È una vicenda che diventa anche un apologo sulla condizione umana» (C. Lizzani, www.fctp.it).
«[…] vorrei prima di tutto sottolineare i valori e i significati che la sceneggiatura intende oggi trasmettere a quel pubblico del cinema e della televisione che – com’è noto – è nella massima parte indifferente alle tematiche storiche, annoiato, distratto, o troppo giovane per interpretarle. Ma è proprio a questo pubblico che bisogna ricordare, ancora e sempre, la tragedia del popolo ebraico. Non è per assecondare certi gusti facili, per esempio, che gli sceneggiatori hanno introdotto elementi d’amore e qualche momento di estrema suspense determinato da fattori esterni all’albergo. Per gli sceneggiatori e per me, la vicenda dell’Hotel Meina deve acquistare un senso metaforico al di là e al di sopra della cronaca puntuale degli avvenimenti realmente avvenuti. Anche a costo di tradirne qualche aspetto» (C. Lizzani, “La Stampa”, 25.2.2007).
«Forse Buñuel, con L’angelo sterminatore ha già raccontato sotto metafora, e in modo straordinario, una situazione di questo genere. E certamente non oserei scendere a confronto con quel capolavoro del cinema, se non fossi convinto che il mio compito è più modesto, ma che svolgerlo può essere ancora utile. Mi sono di guida un libro e una sceneggiatura che vogliono ricordare vicende realmente accadute, ma non per questo meno dense di significato. Forse in queste lunghe meravigliose giornate di Settembre apparirà ancora più misterioso (o invece finalmente decifrabile?) quello stato di inerzia paralizzante che ha impedito in tutta Europa, e a tante migliaia e migliaia di ebrei di sottrarsi tempestivamente al pericolo, di uscire dalla soglia di quell’albergo come di tante case, di tanti Ghetti. E viene alla luce, passo passo, quella capacità di inganno, di “messa in scena” che certamente fu una qualità peculiare dei tanti gregari chiamati a metter in opera la Soluzione finale. Ma, accanto al Male anche il Bene – in quelle strane giornate dell’Hotel Meina – si presenta in modo nuovo e inatteso rispetto alla drammaturgia che solitamente ha raccontato la Shoà. È il personaggio della tedesca Cora a gridare forte la sua condanna nei confronti di Hitler e della sua banda di criminali. E questo in nome dell’altra, della vera Germania. La Germania di Kant, di Goethe, di Schiller, di Mann. Della Berlino illuminista senza Ghetto, di Federico il Grande. La Germania di Bonhöfer, della Rosa Bianca, degli ufficiali impiccati dopo la scoperta della congiura del ’44, e delle migliaia di tedeschi antinazisti sterminati poco prima e poco dopo la presa del potere da parte di Hitler. Anche questa Germania ha avuto voce in altri film. Ma nel nostro caso il confronto è diretto, e l’unità di spazio e di tempo danno al conflitto quella originalità che mi ha indotto ancora una volta a misurarmi su un terreno più volte frequentato, ma sempre affascinante e denso di interrogativi e di insegnamenti» (C. Lizzani, dal Press book della Produzione, 2007).
«Dopo Monicelli (Le rose del deserto) e De Seta (Lettere dal Sahara), ritorna al cinema anche Lizzani, condividendo, con gli altri "grandi vecchi" del cinema italiano, lo stesso anelito all'impegno, al disincanto, alla realtà dura. E prova, per certi versi, ad andare oltre, cimentandosi là dove a inciampare sono stati molti. Il dramma dell'Olocausto, l'orrore da rendere in immagini, la storia misera degli uomini da provare a ridurre a messinscena. Cercando di evitare carrellate sui cadaveri (la polemica Rivette-Kapò è davvero così inattuale?) e cappottini rossi. In un austero e sensibile rifiuto di ogni estetizzazione della morte e della tragedia. Ma proprio questo sforzo, che si avverte quasi in ogni inquadratura con evidenza ma non con fastidio, finisce per partorire sottolineature simbolisticheggianti eccessivamente didattiche, e quindi innocue. Il ricorrere a Montale («Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»), scene come le unghie che graffiano l'intonaco (per dare il senso del feroce e disperato isolamento cui sono costretti gli ebrei dell'hotel), o la lunga sequenza dell'inseguimento del marito italiano dietro la camionetta nazista su cui è reclusa la moglie ebrea (in una sorta di parallelismo con Roma città aperta), anziché aggiungere pathos e scuotere lo sguardo, finiscono per suscitare l'esatto opposto, ovvero freddezza e distacco. La struttura a cerchio, sottolineata dall'immersione di Noa nelle acque chete del lago, non fa che rinchiudere la vicenda in una dimensione eccessivamente artificiosa, troppo lontana dall’incalcolabilità dell'orrore reale, Le stesse polemiche che il film ha suscitato tra i sopravvissuti mettono a nudo tutte le difficoltà di cui risente il mezzo cinema nell'accostarsi a realtà storiche così terribili e inimmaginabili. Come se l'unica possibilità fosse quella della registrazione oggettiva, senza filtri, del documento per immagini. […] La stessa scelta di raccontare una vicenda così claustrofobica e immobilizzata come quella dell'Hotel Meina, sottolinea l'intento (pasoliniano) di provare a raccontare non solo la Storia, ma più in generale i depravati meccanismi del potere, l'orrore pacato e innominabile degli uomini che lo compongono. Con Salò o le 120 giornate di Sodoma il film di Lizzani condivide non solo l'ambientazione (una raffinata villa, immersa in suggestive linee di paesaggio) ma anche la costruzione di alcune sequenze. […] Altrove, invece, Lizzani non riesce nell'intento di raccontare la sopraffazione cieca e il vortice inesorabile del potere, cadendo nello schematico e nell'ordinario. […] Così il senso di mancato e di inerme non nasce tanto dalle inesattezze storiche (i partigiani ante-litteram), né dalla prevedibilità nella costruzione di alcuni personaggi o situazioni (la stessa figura della tedesca antinazista pare poco riuscita). Piuttosto la sensazione d'incompletezza e di sostanziale inefficacia del film va ricercata in scelte registiche che, per non essere rivettianamente amorali finiscono per cadere nell'asettico, e in uno sguardo che, per non essere voyeuristico finisce eccessivamente dimesso e misurato (ma quasi mai "televisivo")» (M. Mariotti, “Cineforum” n. 2/472, marzo 2008).
«È ancora una volta il tragico sapore della Storia ad incontrare il cinema di Carlo Lizzani, che in questo caso prende spunto dai fatti raccontati nell'omonimo libro di Marco Nozza perché a distanza di anni, "ancora oggi è importante soffermarsi su quello stato di inerzia paralizzante che in tutta Europa impedì a migliaia di ebrei di sottrarsi tempestivamente al pericolo": non è un caso, dunque, che proprio la parte centrale del film - dove anche le SS presenti in albergo attendono ordini superiori, quasi "mischiandosi" alla quotidianità surreale di un non luogo prossimo alla morte - sia quella che meglio sintetizza l'importanza e l'attualità di questo lavoro, dove la condanna del Male è sì definita, ma al tempo stesso mediata dall'imprevedibilità della sua entrata in scena» (V. Sammarco, “Rivista del Cinematografo” nn. 1-2, gennaio-febbraio 2008).
«Del vecchio Hotel Meina oggi non rimane che uno scheletro di cemento e mattoni. Ma le rive del Lago Maggiore sono generose di antiche dimore affacciate sull'acqua. E non è stato difficile per Carlo Lizzani fermarsi a Baveno, scegliere sale e cantine dell'Hotel Lido spogliate di ogni argento e paramento di lusso e ricostruire qui una pagina di storia mai portata sul piccolo e grande schermo. Sul film che getta luce sul primo eccidio di ebrei avvenuto in Italia, 54 persone uccise dai nazisti a ridosso dell'armistizio, di cui 16 a Meina, nell'omonimo albergo, pesa ora anche la tristezza del caso sollevato di recente da chi quei giorni li visse in prima persona. La signora Becky Behar, allora tredicenne, non si riconosce nella sceneggiatura firmata da Dino e Filippo Gentili con Pasquale Squitieri, ma il maestro Lizzani, da ieri sul set, è positivo e tranquillo: “Questo film - dice - è anche il mio contributo nella lotta contro l'antisemitismo. Sono a mio agio, mi sono sempre occupato di storia e di cronaca. E non è la prima volta che affronto una cornice di polemica. Una sceneggiatura è come una partitura musicale. Va giudicata a opera finita. E alla Behar va tutto il mio rispetto per le ferite atroci che porta nell'anima”. Ed è puro caso, ma nel primo giorno di riprese si comincia dalla fine di quella tragica vicenda e si gira nelle cantine la fuga verso il confine svizzero della famiglia Behar, Benar nel film, ebrei di origine turca e gestori dell'Hotel Meina dove nel settembre 1943 per alcuni giorni si trovarono a convivere un gruppo di ebrei benestanti, alcuni villeggianti italiani e tedeschi e una formazione di SS. Papà Giorgio Benar (interpretato da Danilo Nigrelli) nel primo ciak controlla un passaggio segreto. Sposta un attaccapanni in un ripostiglio e scopre una rampa di scale che scende verso le cantine. Di qui farà passare la moglie Camy (Marta Bifano) e i piccoli Noa (Ivana Lotito nel ruolo di Becky Behar) e Marcel (Fabio Marchese) riuscendo così a mettere in salvo tutta la famiglia. “Il loro senso di colpa è enorme, se ne vanno lasciando degli amici innocenti e senza sapere quale destino li attenda”, sottolinea Marta Bifano. Un film corale, Hotel Meina, dove gli attori, quasi tutti di estrazione teatrale, sono volti poco conosciuti al grande pubblico [...] nel film sono stati aggiunti momenti d'amore che nella realtà non trovano riscontro in quei giorni drammatici dove gli ebrei uccisi vennero gettati nel Lago Maggiore con i corpi trafitti dalle baionette affinché restassero sul fondo. “Ma talvolta è un ‘tradimento’ obbligato - dice Ida Di Benedetto, produttrice del film [...] -. Anche nei titoli di coda viene sottolineato come Hotel Meina sia liberamente tratto dall'omonimo saggio di Marco Nozza, con l'aggiunta che alcuni personaggi sono di fantasia. Rientra nel lavoro creativo filtrare la realtà e renderla maggiormente incisiva per il cinema”» (C. Ferrero, “La Stampa”, 27.2.2007).
«Sulla memoria degli avvenimenti vissuti, dal trionfo al crollo del fascismo, Lizzani ha costruito un' intera serie di film a volte di sicura durata come Cronache di poveri amanti e Il processo di Verona. Tutti improntati a quel senso di autenticità che deriva dell'aver vissuto dentro i momenti cruciali della storia. È anche il caso di Hotel Meina, che rievoca l'orrenda strage di 16 ebrei massacrati dai nazisti e gettati nelle acque del Lago Maggiore il 22 settembre 1943 mescolando la cronaca nell'impasto del romanzesco secondo uno schema narrativo tradizionale. Ma se la scrittura di Lizzani non riserva innovazioni di struttura o di stile, i suoi film rispecchiano qualcosa di prezioso come il palpito dell'emozione e la capacità (oggi assai rara) dell'indignazione» (A. Levantesi, “La Stampa”, 25.1.2008).
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