Regia Daniele Segre
Soggetto Daniele Segre, Carlo Colnaghi
Sceneggiatura Davide Ferrario, Daniele Segre
Fotografia Luca Bigazzi
Musica originale Giuseppe Napoli
Suono Marco Tidu
Montaggio Claudio Cormio
Scenografia Elena Bosio
Interpreti Carlo Colnaghi (Carlo Carbone), Alessandra Comerio (Sara Treves), Laura Panti (Bianca Treves), Lou Castel (Guido), Barbara Valmorin (Maria Luisa), Eugenia D’Aquino (Esther), Leone Ferrero (Paolo Farina), Pino Tosca (Arturo), Maurizio Tropea (Giuseppe), Marco Ghio (portiere d’albergo), Marco Paolini (primo attore), Eugenio Allegri (secondo attore), Giorgio Millerba (signor Treves), Domenico Brioschi (autista d’autobus), Giovanni Abbate (Davide)
Produzione Enrico Verra, Mario Alessio per I Cammelli
Distribuzione Istituto Luce - Italnoleggio
Note Visto censura 88.048 del 12.10.1992.
Girato in 16 mm, il film è stato poi “gonfiato” in 35 mm.
Suono in presa diretta; altri interpreti: Carla Suppo (cantante di blues), Maurizio Babuin (infermiere Usl), Maria Serazzi (segretaria Usl), Felice Sassone (uomo del negozio), Ilaria Dogliotti (aiutante nella galleria), Carla Torrero (signora nella galleria), Isacco Levi (Isacco), Alex Astegiano (macchinista teatrale), Mariangela Raviglia (ospite in casa Treves), Enrico Cuccioli (Mario), Ida Maria Tommasi (suora della mensa), Davide Danti (ceffo nella mensa).
Il film ha ricevuto un contributo del Ministero dello Spettacolo.
Premio “Nice Città di Firenze”, New York.
Sinossi
Più volte ricoverato in diversi ospedali psichiatrici, Carlo Carbone, quarantenne ex-attore, vive di espedienti. In cerca di soldi per un viaggio in Polonia, ritorna in contatto con Bianca e ne conosce la sorella minore, Sara, presso la quale si trasferisce. Stringe anche nuovamente rapporti con il mondo del teatro. Entrambe le esperienze, però, naufragano ben presto, mortificando le speranze di un ritorno ad una vita normale.
Dichiarazioni
«Torino è la città dove da sempre vivo e nella quale ho anche sempre lavorato. Quindi, per ovvi motivi anche produttivi, Torino era il luogo adatto per fare questo film. Inoltre, oltre a ragioni di tipo produttivo, l'atmosfera e la realtà di Torino mi sostenevano nella scelta artistica di raccontare una storia così tragica. Torino mi piace, non posso dire che non mi piace, ma Torino è molto dura, molto difficile e chiusa; fare i conti con questo carattere, a volte, è impegnativo e faticoso, oltre che molto formativo nel senso che se tu a Torino riesci a farcela puoi stare tranquillo per tutta la vita. Però Torino a volte sa respingere come ben poche altre città» (D. Segre, www.cineclub.it ).
«La sceneggiatura […] inventa e quasi offre taumaturgicamente all'uomo, dopo un lungo rifiuto, una possibilità di recupero. Un urlo, che è di dolore e di guerra. Poi una camicia e una giacca pulite, all'Albergo Italia una camera e il telefono per rintracciare vecchi amici. Ed eccolo “trasportato” nel milieu della borghesia ebraica torinese: luoghi d'incontro esclusivi, rituali di casta, spirito di autoconservazione ai limiti del razzismo. Sullo sfondo del suo camminare, la città deindustrializzata e deculturalizzata che l'acqua dei fiumi sembra travolgere e annegare. […] il regista lascia che lo strazio dell’uomo venga a galla attraverso l’unica forma di espressione che gli è congeniale e nello stesso tempo è universalmente intelligibile: la recitazione, doppio autentico della menzogna. […] Carlo Colnaghi interpreta l’ex attore Carlo Carbone trasferendo tutto se stesso […] nel personaggio. Sua la tragedia esistenziale, sua la dignità, l’innocenza e la seduzione» (A. Preziosi, “Segnocinema” n. 59, gennaio-febbraio 1993).
«Il fascino di Manila Paloma Blanca deriva dal suo essere un film di confine. Banalmente si potrebbe dire che nasce dall'incontro folgorante tra un regista e un attore, le cose in realtà sono un po' più complicate e stimolanti. Daniele Segre si è formato indagando, nel corso degli anni, tutte le situazioni sociali più scomode e marginali. Con i suoi antidocumentari ha raccontato la vita di travestiti, ultras, tossicodipendenti ed ex-internati di ospedali psichiatrici, evitando sempre la strada facile e veloce dello scoop giornalistico. Il suo cinema ha sempre cercato, da un lato, di avere uno sguardo personale, poetico e d'autore sulla realtà esplorata, dall'altro di rispettare una volontà politica, o forse ricerca fino ai limiti estremi della rottura con l'ambiente cultural-teatrale e a rischio della rottura con se stesso. […] Furiosi movimenti di macchina raccontano il peregrinare di Carlo Carbone attraverso una Torino notturna e miserabile, esaltata dalla fotografia sgranata e volutamente povera di Luca Bigazzi, e si alternano a primi piani, macchina fissa alla Dreyer, rigoroso bianco e nero, che registrano Carlo Colnaghi alle prese con classici teatrali (Re Lear, Woyzeck). Il confine tra realtà e finzione sembra sempre più labile, il gioco degli specchi sembra infinito e proprio nel lavoro registico su questo spazio di frontiera si giocano i momenti migliori del film» (E. Verra, “Rumore”, 9.11.1992).
«Già il prologo – un tram che quasi sbanda nella città, lo scherno quotidiano al protagonista, la sua reazione, affidata all’incomprensibilità di una formula deprecatoria e alla forza esorcizzante di un ghigno che costituirà il trait d’union simbolico della vicenda – è di quelli che lasciano il segno, avvisaglia ineludibile di tonalità “alte”. Poi, dopo le campane elettroniche sullo schermo nero dei titoli di testa, ecco l’incubo, “sgranato” nel misterioso livore del video, allucinazione ma anche coscienza di sé, spesso mediata dalla scrittura scenica: ossessione carnale, della gelosia, in Büchner, invettiva biblica in Shakespeare, metalinguaggio “professionale” in Pinter. Infine, più impressionante, il silenzio, contemplazione di sé “en abîme”, sospensione temporale di sconvolgente intensità tragica, che fa pendant con i lunghi, strazianti primi piani allo specchio. Tutto il film ha questo andamento schizoide, decisamente riassunto da una battuta del protagonista: “Lui era stato in manicomio… poveretto! Non sapeva a chi parlava» (P. Vecchi, “Cineforum” n. 3/322, marzo 1993).
«Sono difficili da dimenticare le peregrinazioni per Torino della sua esistenza solitaria, raminga e accattona, i pasti consumati per la carità delle suore, le stanze di pensioni desolate pagate dalla Usl, le bugie d’un viaggio raccontate per scroccare soldi agli amici d’un tempo, le furie repentine nel sentirsi osservato con malevolenza e gli assalti dell’autodisprezzo, i mulinelli del Po e la luce dell’alba […], le lettere-confessione […], l’alcol, il Valium, il Disipal, la tosse squassante, le risate terribili, le precarie immersioni nel mondo di prima. […] Fanno da contrappunto alla storia citazioni video in bianco e nero di esibizioni teatrali dell’attore, incursioni nell’ambiente della borghesia ebraica torinese […]. Il film arriva a comunicare molto bene, con pathos intelligente e delicatezza, il dramma d’un uomo la cui follia sta soltanto in una impossibilità di accettare la volgarità del mondo e se stesso, in un’ipersensibilità sempre ferita, scoperta, autodistruttiva» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 28.11.1992).
«Storia aspra. Cruda, non crudele. Provocante ed orgogliosa. A muso duro. Come nel carattere e nelIo stile di Daniele Segre, quarantenne, alessandrino di nascita, torinese di adozione, che firma il soggetto con Carlo Colnaghi e la sceneggiatura con Davide Ferrarlo. […] Torino è straniera, multiforme, mediorientale, e la sinagoga appare al protagonista come la porta di Damasco» (G. Favetto, “la Repubblica”, 1.12.1992)
«Il film è stilisticamente robusto e trae forza da un linguaggio articolato sull'alternanza fra colore e bianco e nero, la sgranatura della fotografia, l\\\'impasto con materiali elettronici. Il procedere del racconto appare spezzettato e frammentato, mentre i movimenti della macchina da presa tendono ad accentuare la sensazione che si stia assistendo alla proiezione di un documentario e non di un film di finzione. Quest'insieme di dati stilistici confluisce nel disegno di un quadro tinteggiato di disadattamento e disagio, un panorama che va ben oltre il referto psicanalitico per approdare alla messa in discussione dell'aurea piattezza del vivere "normale"» (U. Rossi, “Rockerilla”, 5.11.1992).
«La presenza scenica straordinaria di Colnaghi (che rivedremo presto in Veleno di Bruno Bigoni) invade lo schermo e delinea un personaggio a più dimensioni, con il rischio, per la verità, di penalizzare gli altri ruoli. La fotografia sgranata e cupa, voluta da Luca Bigazzi, ben corrisponde all'intenzione originale di Segre, così come le suggestive musiche di Giuseppe Napoli e le scenografie di Elena Bosio. Manila Paloma Blanca conferma e consacra, non solo la capacità tecnica del regista, ma anche il suo impegno nel dar voce a situazioni difficili e scomode, la sua capacità di fa urlare (si pensi a lavori come Vite di ballatoio, Non c'era una volta, ecc.), voci di solito soffocate, o volutamente inascoltate» (S. Castagnotti, “Il Paese Nuovo”, 14.12.1992).
«Il punto di partenza è, di nuovo come in passato, il desiderio di far parlare la realtà senza filtri o pregiudizi: in questo caso si tratta del tentativo di raccontare la storia personale di Carlo Colnaghi (diventato nel film Carlo Carbone), un ex attore in bilico tra demoni personali (la malattia mentale, l'emarginazione sociale) e volontà di ritrovare comunque un contatto con la realtà, lavorando ad una sceneggiatura teatrale e insieme innamorandosi di Sara, una giovane gallerista che ha deciso di ospitarlo in casa propria. Si tratta, come è evidente, del tentativo di sovrapporre realtà del volto e della storia “vera” di Carlo Colnaghi (interprete di straordinaria intensità e vera scoperta del film) un plot narrativo che porti quasi a “confondere” realtà e fiction, rappresentazione e interpretazione. Quel che ne esce alla fine è un film sicuramente né “carino” né banalmente “neorealista”, ma concettuale ed estremista, portatore di una tragicità che è ormai merce rarissima all'interno del cinema italiano non solo giovane» (G.Po., “Il Corriere Adriatico”, 10.12.1992).
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«Un film interessante, questo di Segre, che conferma l'esistenza di una, come dire?, “estetica dell'angoscia” lontana da Cinecittà, nelle brume morali del Nord Italia (per esempio L'aria serena dell'Ovest dì Soldini, fotografato dallo stesso bravissimo Luca Bigazzi). Un cinema che indaga nella sofferenza con partecipazione umana e distanza formale, senza spettacolarizzare né ideologizzare. Piace? Non piace? È un problema che Segre probabilmente non si pone, visto che Manila Paloma Bianca è destinato a mercati clandestini, a meno che la Rai non intervenga meritoriamente a mandarlo in onda. Cinema povero [...] ha caso mai un limite nella sua stessa forza: l'inespressa ma tangibile volontà di restare marginale» (o. iar., “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 3.9.1992).
«Protagonista è Carlo Colmaghi, ex-attore teatrale alla sua prima esperienza cinematografica, che interpreta se stesso in modo toccante, estremamente convincente, dopo aver condiviso un percorso analogo a quello del suo personaggio (solitudine, emarginazione, logoramento dei rapporti con la vita e con la scena). II titolo del film non ha un senso specifico: è piuttosto un grido, un'imprecazione, un'invocazione disperata con la quale, nell' incipit shoccante, il protagonista proclama la sua irriducibile diversità, dà sfogo alle proprie paure e insieme tenta un rapporto col mondo. La macchina da presa si muove in modo fluido, libero, scorrevole negli ambienti, elaborando piani sequenza incisivi, interrotti da primi piani onirici e stranianti del protagonista che, con lo sguardo torvo, spezza il flusso del racconto. Tutti i personaggi appaiono pienamente credibili, vengono tratteggiati con spessore e rappresentati in modo appassionato dall'autore, che riesce anche a scegliere e valorizzare al fini della resa drammatica ambienti quotidiani emblematici o poco frequentati, come la soffitta fatiscente in cui vive un altro emarginato (interpretato da Lou Castel), le case e i luoghi frequentati dalla buona borghesia, le mense assistenziali in cui si sfamano i barboni, la sinagoga di Torino. La follia è vista in modo crudamente realistico, a distanza ravvicinata, come rovina e disperazione e un'umanità disagiata, derelitta occupa il campo, finché non intervengono altri personaggi (come la donna ricca e colta di cui il protagonista si innamora e che lo prende con sé) che comunque non riusciranno a variare il destino segnato del protagonista, sempre in bilico fra disagio («Mi sento vuoto, nullo, solo, sempre più solo»), auto-rappresentazione (sincerità e recitazione tendono a confondersi), e ansia liberatoria di cambiamento» (P. Loffreda, “Il Corriere Adriatico”, 6.9.1992).
«Operazione vampiresca condotta sulla pelle e la carne di un attore effettivamente schizoide, la finzione Manila paloma blanca svela le carte del cinema documentario di Segre: nella migliore tradizione dell'instant movie italiano, la sua ricerca sull'emarginazione nel nostro Paese gode sempre di un'acuta intelligenza della spettacolarità del mostruoso. Il milieu ebraico, da cui Segre stesso proviene, e i gironi infernali dei servizi pubblici sono rappresentati con rara sensibilità» (F. Pitassio, www.delcinema.it, 10.9.1992).
A Carlo Colnaghi, ex-attore malato di nervi, Daniele Segre aveva già dedicato un “videoritratto”, Tempo di riposo (del 1991). Il soggetto di Manila Paloma Blanca è stato scritto da Segre e Colnaghi in seguito al loro primo incontro, avvenuto nel 1983.
Scheda a cura di Franco Prono
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