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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Il resto della notte
Italia, 2008, 35mm, 100', Colore

Altri titoli: The Rest of the Night

Regia
Francesco Munzi

Soggetto
Francesco Munzi

Sceneggiatura
Francesco Munzi

Fotografia
Vladan Radovic

Musica originale
Giuliano Taviani

Suono
Stefano Campus

Montaggio
Massimo Fiocchi

Effetti speciali
Stefano Camberini, Paolo Verrucci

Scenografia
Luca Servino

Costumi
Valentina Taviani

Interpreti
Sandra Ceccarelli (Silvana Boarin), Aurélien Recoing (Giovanni Boarin), Stefano Cassetti (Marco Rancalli), Laura Vasiliu (Marja), Victor Cosma (Victor), Constantin Lupescu (Jonut), Veronica Besa (Anna Boarin), Valentina Cervi (Francesca), Teresa Acerbis (Eusebia), Susy Laude (Mara), Bruno Festo (Luca), Giovanni Morina (Davide), Maurizio Tabani (Vincenzo), Simonetta Benozzo (operatrice Sert), Nanni Tormen (Mario)

Casting
Leonardo Baraldi, Massimiliano D’Agostino

Produzione
Donatella Botti per Bianca Film

Distribuzione
01 Distribution

Note
Assistente operatore: Simone D’Onofrio, Stefano Tria; assistente scenografo: Claudio Mannoia; assistente alla regia: Berenice Vignoli; altri interpreti: Francesca Rizzotti (maestra), Corrado Vernisi (carrozziere), Antonio Rosti (Zulata); collaborazione alla produzione: Rai Cinema.
 
Opera seconda di Munzi, realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e Attività Culturali e il supporto di Film Commission Torino Piemonte.




Sinossi
Silvana Boarin, ricca borghese che vive in una villa in collina, licenzia la domestica rumena, Maria, ritenendola colpevole del furto di due preziosi orecchini. La ragazza torna a vivere con il suo ex fidanzato Ionut, il quale è appena uscito dal carcere, vive con il fratello minore Victor e compie piccoli furti con Marco Rancalli, un cocainomane che ha un figlio di otto anni affidato alla sua ex moglie. Costoro progettano un furto nella villa e fanno precipitare gli eventi verso un tragico epilogo.




Dichiarazioni
«[…] la Film Commission piemontese mi ha proposto una serie di location […] Sono venuto a Torino e sono ri­masto colpito. Lì ho trovato l'immagine dell'Italia che cercavo di rappresentare. […] Una vecchia metropoli industriale che ha subito una doppia immigrazione, con quartieri che sono il simbolo reale del rapporto tra gli stranieri e la città. […] Nelle ca­se di ringhiera dove abbiamo girato abbiamo incontrato anche quegli altri immigrati, gli operai arrivati dal sud, che ora convivono con gli stranieri, i ro­meni, gli albanesi, i nordafricani. […] La povertà e l'emarginazione siamo andati a cercar­le a Porta Palazzo […],  mentre il lusso l'abbiamo trovato in una villa del­la collina. Torino è straordinaria nell’offrire questo tipo di contrasti. È un set ideale, anche per le professionalità. È la seconda città del ci­nema, ve lo dico da romano. […] Ho progettato questo film molto prima che scoppiasse la questio­ne, poi strumentalizzata, dell'immigra­zione romena. Non ho cavalcato nessu­na onda, il mio interesse per le storie di immigrazione risale al mio primo corto­metraggio, alla scuola di cinema, che era il ritratto di una ragazza russa» (F. Munzi, “la Repubblica”, 11.6.2008).





«La notte non fa differenze di umana sorte. E trasforma gli individui in un magma di indifferenziata caducità. Francesco Munzi la sceglie e vi colloca i personaggi del suo secondo lungo dopo il buon esordio di Samir. Ispirato dalla cronaca che da sempre appassiona il 39enne cineasta romano, Il resto della notte racconta un giro di vite parallele che si incrociano nel dolore. […] E il regista aderisce fedelmente all'assunto dimostrandolo lungo tutto il film. […] Dotati di spessore in ugual misura, i personaggi sono tutti vittime di un sistema che per mal funzionamento ha minato le coscienze» (A.M. Pasetti, "Rivista del Cinematografo" n. 6, giugno 2008).
 
«[…] anche grazie alla fotografia di Vladan Radovic e alle scenografie di Luca Servino, ognuno di questi […] ambienti in cui si svolge il film (la casa di Marco, l'hotel dove Giovanni s'incontra con l'amante) appare inospitale, inabitabile, ricettacolo di tensioni sempre sul punto di esplodere. Gli immigrati delle varie etnie si scontrano nei coritili-casbah, l’angusto appartamento di lonut è troppo piccolo per ospitare sia il fratello che l'amante, la villa dei Boarin è un arido campo di battaglia fra i coniugi e tra essi la giovane figlia, la relazione di Giovanni con l'amante in gelide camere d'hotel si rivela priva di senso, la moglie di Marco ha trovato un nuovo compagno che probabilmente la sfrutta senza offrire molto in cambio. […] Il resto della notte non lascia molto spazio alla speranza. II regista accompagna i personaggi con partecipazione, senza manicheismi, costruendo per ciascuno un retroterra psicologico di motivazioni e di sfumature psicologiche, assecondato da una squadra di attori impegnati su registri diversi […] ma tutti funzionali ed efficaci: sino allo scontro finale, in cui tutti saranno sconfitti, annientati dalla morte o da una sofferenza devastante. Proprio nell'ineluttabilità del percorso risiede forse il difetto principale del film, ingabbiato in un meccanismo già prevedibile a partire dal momento in cui vengono impostati i personaggi e i blocchi narrativi. Qualcuno muore, qualcuno sopravvive, oppresso dal lutto: due personaggi scappano con una borsa piena di preziosi. Riusciranno a vivere una vita migliore, senza odio, senza paura, senza emarginazione, senza violenza? Non lo sappiamo; il buio della notte incombe ancora, nel cuore e nella mente degli uomini» (M. Caron, “Segnocinema” n. 152, luglio-agosto 2008).
 
«Munzi si confronta in maniera critica con le retoriche del cinema italiano, e con la possibilità di un equilibrio tra decantazione stilistica e drammaturgica e osservazione approfondita della realtà. Il film vive dunque anzitutto del proprio rapporto con la realtà italiana (ed europea) e con il nostro cinema contemporaneo. A cominciare dalla costruzione intrecciata, che Munzi smonta in una più rigida divisione per blocchi nella prima parte, rifiutando quella costruzione a vicende parallele che sembra già incorporare in sé l’effetto zapping. È sorprendente come il tracciare i fili che incrociano più personaggi (borghesi e piccolo borghesi, immigrati e italiani) perda ogni carattere di gratuità e di teorema per diventare poi, sotterraneamente, la descrizione implicita di una serie. E in effetti ha funzionato, in alcuni casi, anche come cartina di tornasole per la pochezza della critica italiana, che commentandolo ci ha regalato un paio di perle: Tullio Kezich che dice sostanzialmente «Munzi è bravo, ha ragione, ma non bisogna fare il gioco del nemico», o Roberto Silvestri che invece se ne esce con cascami stalinisti da brivido, accusando in pratica il film di leghismo. Nel film, si è detto, non ci sono quasi personaggi positivi: i romeni sono altrettanto (non più) orrendi degli italiani – e non si capisce perché non dovrebbero esserlo, d’altronde. Una delle migliori trovate di sceneggiatura del film è proprio la scoperta che Maria, la domestica, ha davvero rubato gli orecchini alla sua insopportabile padrona. E quando lei si trasforma da vittima neorealista a trasandata dark lady, mentre parallelamente il giovane Victor, che le è ostile, acquista calore e umanità, fino a diventare il depositario dello sguardo dell’autore. E al riguardo bisognerebbe aggiungere che, se è vero che il film presenta una galleria di personaggi equanimemente orrendi, di personaggi positivi ce ne sono eccome: di varie classi sociali, ma tutti troppo giovani e senza incedenza sulla storia, meri spettatori di un orrore inesorabile. Oltre a Victor, la ragazzina borghese Anna e il suo compagno immigrato siciliano Vincenzo sono in fondo tre puri. Ma il gioco a spiazzare di Munzi aveva colpito nel segno fin dalla prima scena, in cui una specie di ciarlatano dice una serie di cose condivisibili sulla paura, e poi propone delle soluzioni inaccettabili, ridicole. Lo sgomento di Munzi gli impedisce ovviamente di trovare vie d’uscita, soluzioni (ma sarebbe meglio dire: scorciatoie) anche estetiche, ma anche lo blocca a un passo dallo scatto che gli avrebbe consentito di essere un capolavoro, un film davvero importante. La serietà di regista di Munzi, la sua onestà, hanno prodotto infine uno di quei classici film in cui si apprezza quasi di più quello che non c’è di quello che c’è: i pericoli schivati, la giustezza delle idee, la sobrietà e la serietà con cui l’assunto estetico è condotto. Ma è anche uno strano film, che cresce nella memoria e a una seconda visione, e ci si accorge che molto di ciò che sembrava esplicito era in realtà una falsa pista, e che l’intelaiatura della struttura e dei dialoghi riesce alla fine a rendere un’atmosfera complessiva che ci rende come pochissimi altri film la paura e l’angoscia della borghesia italiana (ed europea, giacché la prospettiva del film è una delle poche che sembrano allargabili, come questioni poste e risoluzioni estetiche, a un respiro europeo)» (E. Morreale, “Cineforum” n. 476, luglio 2008).
 
«Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi parte dalla buona intenzione di voler descrivere il complesso quadro sociale del Nord Italia e finisce con il diventare una descrizione stereotipata della borghesia arricchita e un ritratto in nero di qualsiasi tipologia di immigrato. [...] Un'opera che racconta le miserie morali e materiali della lotta di classe ai tempi della società multietnica. Quindi, scene di lotta di classe nel ricco e grigio Nord che produce benessere e violenza. Storia di oggi, ritratto senza compiacimenti della società multietnica, impietoso, lucido. Il film di Munzi è un instant-movie (senza l'intento di esserlo) che racconta di miserie morali e materiali. Attori concreti, stile asciutto, sguardo agghiacciante, come gli occhi azzurri incredibili di Stefano Cassetti e di tenera disperazione, come il viso di Laura Vasiliu. Questa forma di "realismo astratto", molto caro anche ai Dardenne, ha una forte base politica e legge il mondo odierno come un miserabile miracolo, dove tutti i personaggi anelano  a un futuro migliore, ma hanno perso la strada e hanno paura, dove più nessuna ideologia riesce a far sembrare belli e commoventi gli stracci della povertà o la pietas di facciata dei ricchi. Il resto della notte ci parla senza falsi buonismi della paura dell’altro, quella che nasce dalle troppe differenze quando non c’è giustizia e che inevitabilmente si trasforma in minaccia. Pericolo che Munzi è in grado di rendere inm maniera concreta con una regia fredda e un uso ammirevole del fuori-camopo,come nella scena madre della sparatoria risolta al di là del piano di azione, fermandosi sul volto disperato del giovane fratello. Non ci è dato sapere se Victor ripartirà da capo, in maniera diversa: questa resa generale, ma nel caso di molti personaggi inconsapevole, è un invito ad aprire gli occhi su un'assuefazione allargata nel non voler riconoscere le responsabilità individuali» (S. Cincinelli, I migranti nel cinema italiano, Edizioni Kappa, Roma, 2009).
 
«À Venise 2003, nous avions applaudi Saimir. Remarquable début de Francesco Munzi [...]. C'était un drame psychologique et réaliste original, bien documenté, sur un garçon venu d'Europe de l'Est, qui cherche à saisir au plus vite, goulûment, des brins de la richesse et de l'abondance de l'Italie du Nord. La distance avec son second film est courte: on dirair une suite, pour la sympathie que le cinéaste met dans le personnage de la domestique Maria, présumée voleuse, et de ses amis roumains qui vivent de vols et de drogue. Et pour l'antipathie qui colorie les bourgeois italiens, exploiteurs, qui n'ont que l'argent comme valeur éthique. Mais Saimir avait une spontanéité, une fraîcheur narrative que n'a pas (ou moins) Il resto della notte. Est-ce la photo, maniériste, bien léchée? est-ce la direction aseptisée d'un groupe d'acteurs dont le rôle fait escompter, au départ, le physique ? “Je voulais m'inspirer de plusieurs faits divers qui minent ce pays”, dit Munzi. Par rapport aux chroniques fracassantes sur les quotidiens, les Roumains de Munzi paraissent de candides innocents. La représentation des immigrés, dans le style bonasse, réformiste de Mario Monicelli à Gianni Amelio et Marco Tullio Giordana, est hélas en train de laisser la place à son exact opposé, aux pamphlets vengeurs de la propagande néo-fasciste bientôt sur les écrans, sinon à la Croisette, du moins au Lido» (L. Codelli, “Positif” nn. 569/570, luglio-agosto 2008).
 
«With The Rest of the Night, helmer Francesco Munzi displays a level of deft sophistication and power only hinted at with his debut prize-winner Saimir. Though his second film is considerably more ambitious in scope, Munzi once again plays with die image of an immigrant community, gradually uncovering die roots of the stereotype while here also stripping bare die parallel world of die hypocritical hosts. Largely set among Romanians struggling to get ahead in northern Italy, die pic is likely to do modest local biz after its late June opening, but its real success may come from fest and armouse play. […] Given the increasing anti-Romanian sentiment within Italy, the pic's timing at home may unfortunately play into the hands of xenophobes incapable of seeing the nuance and sympathy Munzi brings to his characters and their situations. The lack of hope that characterizes all the protags is also the driving force behind their bad decisions. […] Final scenes build to an unbearable level of tension in their heralding of tragedy, beautifully understated while never unemotional. The same can be said for his restrained use of music, especially in those final scenes when silence, followed by just a few piano notes, become far more devastating than any heavier score» (J. Weissberg, “Variety”, 9 giugno-15 luglio 2008).
 
«Ambientato nella glaciale Torino, tra lussureggianti colline, quartieracci malavitosi e un centro storico ora arcobaleno, opera seconda di Francesco Munzi (reduce da Cannes) è un noir dell'immigrazione, un “primo piano” sulla paura e sul materialismo che uccide l'anima. […] Munzi, in viaggio metaforico nell'Italia rassicurata dalla destra, intreccia destini obliqui, famiglie borghesi e sottoproletarie, adolescenti e adulti incarogniti, tutti uguali, soli, senza speranza. Ma l'egualitarismo è proibito ormai anche nella propensione al crimine. Nel paese dove la Marcegaglia omicida colposa gode di speciali attenuanti generiche, anche gli artisti devono adeguarsi. E non si gode di un budget più sereno senza cedere a pressioni distributive. Qui il colpo d'autore era: sono tutti occidentali, cattivi e “comunitari”, italiani e rumeni, ricchi o istigati dalle circostanze a arricchirsi con ogni mezzo, destinati a battersi nella fosca Italia classista e razzista dì oggi. Come suggerire: i migliori italiani di oggi sono gli extracomunitari? Basterà allora una inutile scena di magbrebini arrapati e maneschi per cancellare la geniale intuizione. E bisogna per forza che i rumeni, e i pregiudicati che meritano una pena certa, abbiano barba mal rasata, lingua biforcuta, occhio infido e insana risata? Che i dialoghi e i comportamenti non possano sorprendere, sbeffeggiare il prevedibile, scolpire anime non figurine tv? Certo Munzi lotta contro la dittatura della fiction, fase suprema del biopotere sull'immaginario, Ma perde» (R. Silvestri, “il manifesto”, 14.6.2008).
 
 «Il regista Francesco Munzi […] conferma dopo il brillante debutto con Saimir il suo sguardo attento sulla mutazione della nostra società che diventa sempre più multiculturale. Con la particolarità di riuscire a condividere l'angolo di osservazione di chi arriva da fuori e ci guarda. […] Intrecciando tra loro temi e spunti assai sensibili come quello della convivenza per un verso e quello della sicurezza per l'altro. […] Munzi mette in scena un tessuto complesso, restituisce l'ambiguità delle cose, il vuoto che è nella realtà. Nel quale la paura dei benestanti italiani assediati, che vivono da assediati, trova riscontro nella paura degli immigrati che la miseria delle condizioni materiali non solo spinge a delinquere per disperazione ma anche a smarrire ogni senso morale. Il film è una triangolazione. Tra la famiglia infelice composta da un manager distratto, da una moglie isterica, da una figlia in cerca di via di salvezza; una famiglia di rumeni composta da due fratelli e dalla ragazza del maggiore che è stata licenziata dagli italiani nella cui villa faceva la cameriera perché sospettata di furto (cosa che, increduli, scopriremo essere vera); e infine un terzo vertice costituito da un giovane sbandato italiano, cocainomane e violento, privato del diritto di vedere il figlio. […] E si chiude tragicamente. Senza vincitori né vinti, senza torti e ragioni, davanti a uno spettrale spettacolo di devastazione umana e al dubbio su quale possa essere e se c'è una strada verso il recupero e il riscatto» (P. D’Agostini, “la Repubblica”, 13.6.2008).
 
«Il resto della notte di Francesco Munzi conferma la mano di regia e la sensibilità dell'autore di Saimir, pur rivelandone alcune fragilità. il fatto è che il progetto stavolta è più ambizioso, costruito com'è su un complesso concertato narrativo. […] Nel contraddittorio, allarmante contesto dell'odierna società, la porta di comunicazione fra questi due mondi divisi da barriere visibili e invisibili non può che passare per il crimine con tragiche conseguenze per tutti: tale sarebbe la visione del film, ma la scrittura non è abbastanza abile; e rischia che qualcuno, vedendo come le diffidenze venate di razzismo della tetra Ceccarelli si dimostrino giustificate, ribalti il messaggio nel suo esatto contrario» (A. Levantesi, “La Stampa”, 13.6.2008).
 
«Paura. Dell'altro, del futuro, perfino della persona che ti sta accanto. Il resto della notte, di Francesco Munzi, è un film sulla mancanza di prospettive, sull'aridità, sull'incapacità di parlarsi. Soprattutto, sul senso di smarrimento che l'arrivo di tanti immigrati ha provocato in molti strati della popolazione. […] Ma il film rimane come sospeso, tra la presa d'atto di una situazione senza uscita e i tocchi di "colore" sull'algida normalità (tanti soldi, casa bellissima, tradimenti del marito, depressione della moglie) della famiglia italiana» (L. Paini, “Il Sole 24 Ore”, 22.6.2008).
 
«Che bell' occhio di cinema ha Francesco Munzi, come riesce ad esprimere l' invisibile ragnatela dei rapporti, come riempie i silenzi, come evita moralismi da nord est senza far sconti a nessuno, senza giudicare. Nel film di ragione e passione ci sono tre gruppi, tutti vinti: famiglia borghese paralizzata in patologico terrore (che brava la Ceccarelli!); il gruppo rumeno e un cocainomane nostrano che porta tutti nel baratro. Munzi è autore che sintetizza, non alza la voce e non mostra neppure la scena madre se non negli occhi di un testimone. Il suo film rimbalza dentro proprio perché privo di retorica ma pieno di quella verità che spesso viviamo nell' incertezza di una soluzione morale o sociologica che non arriva. È proprio questa voglia di ragione, questa pietas verso tutti e nessuno che ci porta il film vicino al cuore anche se non ha esborsi emotivi, ma solo la forza dell' occhio che guarda» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 20.6.2008).
 
«Francesco Munzi con Il resto della notte […] mostra l'integrazione perversa del nostro paese, dove migranti, clandestini, precari, disoccupati ed emarginati in genere perdono le loro identità nazionali, per assumerne una comune, criminale e miserabile, priva di confini geografici e non. […] Munzi, più feroce, lucido e intenso che nell'esordio, racconta l'aristocrazia borghese (auto)isolata e vuota e la contrappone alle periferie "di ringhiera", fatiscenti dentro e fuori, amorali per necessità, contraddittorie e selvagge. […] Quando il regista scrisse il film, i romeni non erano l'emergenza mediatica che sono ora, la coincidenza temporale è quindi solo (s)fortuna unita alle capacità profetica dell'arte e del cinema in particolare. Munzi tratteggia con talento i contorni, i sentimenti, le contraddizioni della guerra civile globale in cui stiamo sprofondando, con il rigore e la forza narrativa di uno che si pone tra il neorealismo moderno e Kieslowski. Racconta la vita, la realtà senza l'ansia del politicamente corretto, senza il sensazionalismo da bar» (B. Sollazzo, “Liberazione”, 13.6.2008).
 
«Ambientato nelle periferie di Torino, quella ricca delle ville isolate e borghesi e quella poverissima delle case di ringhiera e degli insediamenti abusivi, il film inizia scavando dentro la realtà complessa e contraddittoria di questi ambienti. [...] Quello che interessa a Munzi è mostrare le tante facce di una società dove i ricchi sono solo spaventati e i poveri solo umiliati e dove l'autodistruzione sembra l'unica fine possibile: materiale e tragica per alcuni, psicologica ma non meno tragica per altri. Per arrivarci, il regista e sceneggiatore […] elimina qualsiasi concessione estetica o sociologica. I suoi personaggi sono verissimi ma mai sovraccaricati o compiaciuti. Non rappresentano un tipo o una macchietta - la moglie frustrata, il drogato paranoico, l'immigrato malavitoso -, sono volti veri e concretissimi, resi attraverso un lavoro sugli attori davvero encomiabile […]. E lo stesso lavoro di spoliazione ed essenzialità Munzi lo impone alla regia, dove ogni immagine e ogni scena si rivelano necessarie, lontane sia dal naturalismo che dalla bella immagine, ma capaci di restituire la drammatica durezza di una società che ha perso ogni speranza» (Paolo Mereghetti, “Corriere della Sera”, 22.5.2008).
 
«È un sostanziale progresso rispetto all'esordio di Saimir. In quella storia di un ragazzino albanese sul litorale romano c'era la freschezza e la libertà di un pedinamento del personaggio quasi zavattiniano; nel Resto della notte c'è una struttura calibrata, un thriller che è anche un'indagine sull'Italia multietnica, violenta, marginale. I film insieme di genere e d'autore, un meraviglioso lascito del cinema hollywoodiano classico, sono assai rari in Europa. Il resto della notte è uno di loro» (A. Crespi, “L'Unità”, 22.5.2008).
«I protagonisti del secondo film di Francesco Munzi, [...] ci sembra di averli già incontrati. Sono personaggi "tipici", contraddizioni viventi, simboli trasparenti del disagio sociale (e interiore) in cui siamo immersi. Ma è solo un'impressione. In verità non avevamo mai visto questi personaggi prima, perché nessuno aveva ancora saputo raccontarli con tanta concretezza e per così dire "dall'interno".  Lasciando a ognuno i suoi sogni le sue zone d'ombra, la sua vulnerabilità, il suo mistero. Nessuno è innocente ma ognuno ha le sue ragioni per non esserlo (è l'eterno slogan di Jean Renoir: il dramma nella vita è che ognuno ha le sue ragioni). Non è innocente la coppia borghese formata dalla sofferente Sandra Ceccarelli, al suo meglio storico, e dall'infedele Aurélien Recoing, che vive asserragliata nel benessere (meglio: nel malessere) in una di quelle ville tutte cancelli e telecamere ormai così comuni in Italia. [...] Non sono innocenti nemmeno quelli che più sembrano vittime, come la ragazza rumena licenziata [...]. Ma Munzi si guarda bene dal giudicare, non cerca colpe né nessi causali, anzi dilata il più possibile la trama "gialla" che lega fra loro i suoi personaggi. Seguendoli invece abbastanza a lungo e abbastanza da vicino per stabilire una vera intimità con ognuno di loro. E darci, al di là dell'inevitabile tragedia, una serie di ritratti così convincenti da prendere il polso all'intero paese. Come capita solo a chi sa scegliere e dirigere con mano sicura i suoi attori. Sfruttando a fondo anche il contrasto fra i volti (e i corpi) degli italiani, che sembrano raccontare soprattutto dissimulazioni, compromessi, ipocrisie, e quelli degli immigrati, così aspri e spigolosi, che invece esprimono con naturalezza emozioni e sentimenti primari» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 14.6.2008).




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Valentina Cervi


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