Altri titoli: L’âme en jeu, The Soul Keeper
Regia Roberto Faenza
Soggetto Roberto Faenza, dal libro "Diario di una segreta simmetria: Sabina Spielrein tra Jung e Freud" di Aldo Carotenuto
Sceneggiatura Roberto Faenza
Fotografia Maurizio Calvesi
Operatore Alessandro Gentili
Musica originale Andrea Guerra
Musiche di repertorio Johann Strauss, Antonin Dvorak, Richard Wagner
Suono Mario Dallimonti
Montaggio Massimo Fiocchi
Effetti speciali Sergey Verobiev, Andrei Korovin, Nikolay Neyaglov, Andreii Udaltsov, Andrey Pakholkov
Scenografia Giantito Burchiellaro, Vladimir Trapeznikov
Arredamento Stefano Paltrinieri, Alexander Nekhalenko, Maxim Mandanov
Costumi Francesca Sartori, Sergey Struchev
Trucco Vincenzo Mastrantonio, Rosabella Russo, Antonello Risch, Victoria Sapojnikova, Olga Konovalova
Aiuto regia Ludmilla Kazuilitova, Fedor Samirnov, Alexander Zelenkov
Interpreti Iain Glen (Carl Jung), Emilia Fox (Sabina Spielrein), Craig Ferguson (Fraser), Caroline Ducey (Maria), Jane Alexander (Emma Jung), Daria Galluccio (Renate), Fiorenza Brogi (donna in pasticceria), Joanna David (madre di Sabina), Svetlana Israileva (insegnante), Boris Kogan (rabbino), Giovanni Lombari (Zorin), Michele Melega (Pavel), Tatiana Sciankina (bibliotecaria), Viktor Sergachuov (Ivan Ionov), Anna Tiurina (portinaia)
Casting Kate Dowd, Lucy Boulting, Shaila Rubin, Galina Andreeva, Filippo Della Valle, Gianfranco Cazzola
Ispettore di produzione Katia Franco, Natalia Panicova, Victor Efremov
Produttore esecutivo Olivia Sleiter, Giulio Cestari
Produzione Elda Ferri per Jean Vigo Italia, Les films du Centaure, Cowboys Films
Distribuzione Medusa
Note 2699 metri.
Collaborazione ala sceneggiatura: Gianni Arduini, François Cohen-Seat, Alessandro Defilippi, Elda Ferri, Hugh Fletwood, Giampiero Rigosi; operatore steadycam: Salvatore Anversa; musiche di repertorio: Tumbalalaika; Rosen aus dem Suden di Johann Strass, Waltz n. 1 di Antonin Dvorak, Tristan und Isolde di Richard Wagner; suono Dolby Digital; assistente al montaggio: Francesco Bilotti; assistente scenografo: Fabrizio Meschini; assistenti alla regia: Matteo Bellizzi, Ludmilla Kazuiutova, Fedor Smirnov, Valerio Valente, Alexander Zelenkov; collaborazione alla produzione: Medusa Film e Tele+; produttore associato: Gianni Arduini; co-produttori: François Cohen-Seat e Charles Steel; produttore associato: Leandro Bergay Editore.
Il film è stato realizzato con il sostegno del fondo Eurimages e del Dipartimento dello Spettacolo, di Film Commission Torino Piemonte e con il patrocinio della Città di Torino.
Premi: Premio Città di Bastia al Rencontre du Cinéma Italien di Bastia 2004; Gran Premio Stampa Estera ai Globi d'Oro 2003.
La sceneggiatura, pubblicata nel 2003 da Arcanafiction, ha in appendice la cartella clinica di Sabina Spielrein e un'intervista all’ultimo bambino dell’Asilo Bianco.
Sinossi
Una storia vera viene ricostruita tramite la giovane ricercatrice Marie e il professor Fraser dell’università di Glasgow, incontratisi casualmente a Mosca: nel 1904, una donna russa, Sabina Spielrein, viene condotta in una casa di cura per malattie mentali di Zurigo. Di lei si occupa un allievo di Sigmund Freud, il dottor Carl Jung, il quale sostituisce ai metodi tradizionali basati sulla coercizione sistemi improntati al dialogo tra medico e paziente, e riesce a guarire Sabina. Nel corso della terapia, però, tra la donna ed il medico s’instaura un legame amoroso, che non si spezza neanche dopo la dimissione della paziente. Sia per motivi di correttezza professionale, sia a causa della gelosia di Emma, sua moglie, Jung decide di troncare la relazione; allora Sabina fa ritorno in Unione Sovietica. Qui fonda l’Asilo Bianco, la prima scuola per l’infanzia condotta in base a moderni principi pedagogici. Invisa al regime di Stalin, nel 1942 Sabina (ebrea) viene uccisa durante un rastrellamento nazista nella moschea di Rostov.
Dichiarazioni
«Io ho sempre avuto la passione per la psicoanalisi. Quando studiavo a Torino proprio Bobbio, il mio insegnante, mi diede da sviluppare una tesi su Freud e la violenza. […] Mi ha sempre affascinato l’aspetto “narrativo” dell’analisi: la psicanalisi secondo me racconta storie, casi umani e mi attrae maggiormente l’aspetto romanzesco delle storie personali che non la tecnica a me sconosciuta. La parte russa del film l’abbiamo realizzata a Mosca. Poi dovevamo girare a Zurigo, dove Sabina aveva incontrato Jung nell’ospedale. Andato a Zurigo, ho constatato che la vecchia città non esiste più, è stata martoriata, modernizzata… E ho trovato a Torino più ambienti primo Novecento che non nella città svizzera. La prima ragione della scelta di girare il film anche a Torino è stata questa, l‘altra è che qui si lavora benissimo: ci sono maestranze ben preparate, c’è questa Film Commission molto attiva e dinamica…» (R. Faenza, “TorinoSette”, supplemento de “La Stampa”, 18.1.2003).
«In Piemonte in generale e a Venaria in particolare mi sono trovato non bene ma benissimo. È raro trovare location capaci di fornire varietà e ricchezza, non solo di luoghi ed ambienti, ma anche e soprattutto di potenziale umano. La voglia di fare cinema, la disponibilità e la professionalità che ho trovato in occasione delle riprese del nostro film è davvero fuori dal comune» (R. Faenza, “Venaria Oggi”, febbraio 2002).
Il film di Roberto Faenza prende spunto da alcuni carteggi ritrovati nel 1977 negli scantinati dell’Istituto di Psicologia di Zurigo. Questi documenti contenevano la corrispondenza tra Sigmund Freud (il padre della psicoanalisi), Carl Gustav Jung (suo discepolo) e Sabine Spielrein (una giovane russa di origine ebrea affetta da isteria, guarita da Jung con i metodi della psicoanalisi); contenevano inoltre il diario personale della ragazza. Questi scritti sono stati pubblicati nel 1980 dallo psicoanalista Aldo Carotenuto.
Faenza alterna una vicenda avvenuta all’inizio del Novecento ad una attuale: oggi due ricercatori, a Mosca, indagano sulla vita della donna che fu la prima paziente curata da Jung con metodi freudiani in un ospedale psichiatrico zurighese, il Burgölzli, che abitualmente utilizzava sistemi violentemente repressivi. Tra la paziente e il suo analista nacque un rapporto amoroso “proibito”, deprecato da Freud.
«L’incandescente carteggio tra Jung e Sabina (e la mente corre per riflesso e vicinanza cronologica delle opere cinematografiche a quell’altro scambio epistolare trasposto di recente sul grande schermo con mediocri risultati da Michele Placido: quello tutto italiano tra Dino Campana e Sibilla Aleramo) porta alla luce, ad anni di distanza, nuovi importanti elementi sulla vita dei padri della psicoanalisi. Sono contemporaneamente evidenti la levatura scientifico-professionale di un uomo che trasformò una malata in un medico, rinnegando metodi di cura medievali (queste le sue parole nel film) e a dir poco disumani a favore del dialogo e della libera associazione di idee, e la sua condannabile viltà nel momento in cui da uomo di scienza, travolto da irrefrenabile passione, non riuscì a diventare uomo di passione interessato alla scienza» (C. Russo, www.frameonline.it).
Allo stesso tempo, Prendimi l’anima è il resoconto dell’attività scientifica della Spielrein, la quale, laureatasi in medicina nel 1911 e specializzatasi in psicoanalisi e pedagogia, fondò nell’Unione Sovietica dell’epoca staliniana il Laboratorio di Solidarietà Internazionale, noto come Asilo Bianco, ove sperimentò un metodo educativo basato sulla completa libertà di scelta da parte dei bambini. Curiosamente l’Asilo fu frequentato anche dal figlio di Stalin, benché il regime sovietico non nutrisse affatto simpatia per questa iniziativa.
Il lungometraggio di Faenza, «frutto di studi approfonditi e di un lavoro di ricerca durato vent’anni, risente del peso di alcuni cliché e pecca a volte di eccessivo manierismo, ma nel suo completo prendere le distanze dal carteggio Carotenuto (Faenza ci tiene a sottolinearlo), vuole rendere omaggio a una donna cui la psicoanalisi deve molto, e che ha invece inspiegabilmente dimenticato. La scena più bella e spiazzante è di sicuro quella del ballo organizzato dalla ragazza, già in via di guarigione, all’interno dell’istituto di cura in cui era seguita da Jung. Follia e femminilità intrecciano in questa sequenza un filo così sottile da divenire impercettibile» (C. Russo, Ibidem).
«L'immagine dei corpi avvinghiati, (con)fusi nell'abbraccio sullo schermo e sul manifesto di Prendimi l'anima è una sorta di correlato cinematografico della coniunctio raffigurata nel Rosarium philosophorum, il testo alchemico utilizzato da Jung in Psicologia del transfert per esprimere l'unione dialettica fra paziente e analista e la conseguente reciproca trasformazione. Proprio la coniunctio, il legame profondo - spirituale e carnale - che legò la Spielrein a Jung, occupa la parte più vera ed emozionante del film. II ricorso a personaggi "moderni" che si pongono sulle tracce di quelli "antichi", oltre a essere un abusato espediente narrativo, è in questo caso un elemento di distrazione, in quanto gli eventi passati, che acquistano autonomia e catalizzano l'interesse dello spettatore, non sono né introdotti, né attualizzati da quelli moderni (molto meno coinvolgenti), ma semplicemente interrotti come da una parentesi inopportuna che sospende il flusso di una frase e che si vorrebbe al più presto richiudere. Faenza sentiva il bisogno di far diventare parte del film anche la sua esperienza diretta sul caso Spielrein. Il regista, infatti, non solo ha tratto ispirazione dagli studi - primo fra tutti Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto - che si sono succeduti a partire dal 1977 (quando il diario e le lettere della Spielrein a Jung e a Freud sono affiorati da uno scantinato ginevrino) ma, al pari di Marie, si è recato personalmente in Russia e, dopo anni di ricerche, è riuscito a rintracciare e a mettersi in contatto con l'ultimo ex allievo dell"'Asilo Bianco". […] E se il film con brevi tocchi, con immagini di repertorio sa dare il sapore dapprima degli entusiasmi e dell'euforia rivoluzionaria, poi degli orrori dello stalinismo e del nazismo, è proprio in questa seconda parte, relativa alla ricostruzione della vita di Sabina in Russia, a risultare più debole. Il ritmo si fa accelerato, compresso, come se il film, avendo esaurito le sue energie, dovesse affrettarsi a raggiungere la fine» (E. Elia, “Segnocinema” n. 120, marzo-aprile 2003).
«Questa era Sabina Spielrein: paziente psicotica, amica amante, psicoanalista. È il materiale che Faenza si trova per le mani e decide di trasformare in Prendimi l'anima. Sospesa tra il retaggio della psicosi (l'impossibilità di rispondere al linguaggio del mondo reale, di sentire la domanda che il linguaggio degli altri ti rivolge) e l'associazione libera della neonata psicoanalisi junghiana, Spielrein è un oggetto di linguaggio: non sa guardare, costruisce e genera un nuovo modo di intendere il mondo ed esprimersi, mescola creazione poietica e generazione tout court, narrazione e vita. Spielrein è un doppio oggetto pressato da due linguaggi: prima è un oggetto parlato dalla sua psicosi, poi diventa un oggetto parlante la sua psicosi e quella dei suoi prossimi pazienti. Insieme è un punto cieco, che può essere guardata ma non guardata. Diciamola del tutto: Spielrein è un film. È un pezzo di cinema. Proprio lei, molto prima della sua storia, che è cinematografica forse, pronta per il biopic, ma non è cinema. [...] Faenza, come il suo Jung (e non come quello reale, più spaventato dallo scandalo accademico - essere accusato di cialtroneria e pochezza scientifica dalla sua allieva divenuta maestra - che da quello famigliare) vede soltanto la donna. La sua grandezza storica, il suo essere eroina e martire della rivoluzione. Ma non ne vede la (altra) logica. Il linguaggio della scrittura drammatica e quello della ripresa non entrano mai in contatto con la forza linguistica del loro oggetto, con l'ispirazione linguistica di Sabina Spielrein. Entrambi sono completamente subordinati ad un rigido rapporto di causa ed effetto: tutto accade perché qualcos'altro è accaduto. Ed è naturale che la storia di Spielrein e Jung, in questo modo, assomigli soltanto ad una storia d'amore, perdendo la sua forza di racconto mitologico, di sguardo che non si fa vedere, di creazione poetica. Il 3 dicembre 1917 Spielrein scrive a Jung: "Come si fa a vivere qualcosa simbolicamente? A cosa ci serve una vita simbolica?". A fare cinema» (A. Bellavita, “Segnocinema” n. 120, marzo-aprile 2003).
«A quanto racconta Faenza, il suo progetto più volte interrotto subì una svolta grazie all'incontro con l'ultimo sopravvissuto fra i piccoli allievi della Spielrein, che ispira alcune fra le scene più suggestive del film. Didascalica appare la cornice moderna, con la studiosa francese, lontana parente di Sabina, e lo storico inglese che indagano negli archivi dell'ex-Urss. Così come gli snodi più obbligati (l'attacco nazista e la morte della protagonista, ad esempio). Ma ogni volta che corre senza timore il rischio del kitsch, Faenza supera di slancio la freddezza che in passato frenava il suo cinema. Ben vengano insomma licenze storiche e poetiche se servono a smontare quel tabù che è, perfino per la psicoanalisi, il nostro corpo» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 17.1.2003).
I due livelli in cui si struttura il film (quello ambientato a Zurigo nei primi anni del Novecento e quello ambientato a Mosca nei primi anni del nuovo secolo) denunciano una certa disuguaglianza tra loro. «Un bel film d'amore, nella prima parte; quando il discepolo di Freud applica psicoterapia e libera associazione alla giovanissima paziente isterica, innescando un processo di transfert che li porta a letto insieme. [...] La passione tra Sabine e Jung, innamoratissimo ma sposato e timoroso di ripercussioni sulla carriera, è tratteggiata con partecipazione sincera: Faenza evita gli imbarazzi in cui il cinema incorre spesso quando rappresenta eroi, santi, artisti e medici famosi, regalandoci anche la bella e commovente sequenza di un ballo in ospedale psichiatrico. Le cose vanno meno bene nella seconda parte, introdotta da un viraggio in seppia della pellicola che fa “epoca” e culminante nella strage della sinagoga di Rostov. Qui gli episodi si affastellano un po' telefonati e, malgrado la drammaticità degli eventi, la temperatura emotiva si raffredda» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 19.1.2003).
Faenza dimostra grande sensibilità espressiva ed ottime capacità drammaturgiche nel mettere in scena una vicenda per nulla facile da raccontare. «In un arco evocativo di quarant'anni l'autore ha voluto incorporare il tema della ricerca instaurando in parallelo la storia di due studiosi odierni e i frammenti della biografia di Sabina che si riescono a ricostruire. C'era il rischio che tutto si risolvesse in chiave di alto pettegolezzo: ovvero nel discusso rapporto amoroso fra la giovane malata d'isteria e Carl Gustav Jung [...] Una di quelle passioni difficili da riferire senza fare di lei una rovina famiglie e di lui un pavido traditore del giuramento di Esculapio. In una cornice di perfetta credibilità ambientale, di cui va dato atto allo scenografo Giantito Burchiellaro e alla costumista Francesca Sartori, e attraverso la fotografia di Maurizio Calvesi che lega bene con le citazioni dei quadri di Klimt, pur nella sintesi a volte sibillina tipica delle cavalcate storiche, Prendimi l'anima mantiene spessore e dignità» (T. Kezich, “Corriere della Sera”, 18.1.2003).
«La scelta di Faenza è quella di raccontare il percorso "umano" di questa straordinaria figura femminile, focalizzando, in particolar modo, la propria attenzione sul rapporto con Jung. Ne esce un ritratto di una donna fragile, vittima delle convenzioni sociali, prima, dell'intolleranza politica stalinista, successivamente, e poi ancora di quella razziale hitleriana. Una figura il cui contributo non soltanto umano, ma anche scientifico è, anche se troppo a lungo ignorato, indiscusso. Pur non mancando, qua e là, momenti che rischiano il didascalico - soprattutto nel rapporto medico/paziente, un po' troppo semplicistico -, Prendimi l'anima è un film riuscito. Belle la ricostruzione dell'epoca, nonché l'accuratezza delle scenografie. Anche se non innovativo, l'espediente di inserire una storia parallela che si svolge ai nostri giorni, una giovane donna che si reca in Russia per indagare sul destino della psichiatra, può essere funzionale al racconto. [...] Forse non è un film d'autore; si avverte piuttosto chiaramente la mancanza del tocco personale, ciononostante è meritevole di essere visto, di tutto rispetto, sia sul piano linguistico che attoriale. A questo proposito, un applauso alla bravissima Emilia Fox, che ha impersonato Sabina Spielrein in modo equilibrato e senza mai cadere in un consumato patetismo» (L. Ceretto, “Film” n. 63, maggio-giugno 2003).
Benché il film sia ambientato a Zurigo e a Mosca, molte riprese sono state effettuate a Torino e nelle vicinanze (il Caffè Baratti, la villa e il lago della Mandria); inoltre sono stati utilizzati i teatri di posa di Unistudio e Videodelta.
Scheda a cura di Davide Larocca
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