Regia Gianluca Maria Tavarelli
Soggetto Leonardo Fasoli, Gianluca Maria Tavarelli
Sceneggiatura Leonardo Fasoli, Gianluca Maria Tavarelli
Fotografia Pietro Sciortino
Operatore Giovanni Gebbia
Musica originale Ezio Bosso
Musiche di repertorio E. Ruggeri, M. Zarrillo, M. Monte
Suono Mario Iaquone
Montaggio Marco Spoletini
Scenografia Paola Bizzarri
Costumi Lia Francesca Morandini
Trucco Gino Tomagnini
Aiuto regia Nicola Rondolino
Interpreti Fabrizio Gifuni (Renato Sapienza), Valerio Binasco (Walter Taranto), Antonio Catania (commissario Lucidi), Erika Bernardi (Claudia), Riccardo Zinna (ispettore Esposito), Ugo Conti (Enzo Pece), Adriano Pappalardo (Michele Manzo), Riccardo Montanaro (Donato Catena), Cesare Apolito (Christian Granelli), Franco Neri (Vito Vitale), Carlo Giraudo (Fratello Renato), Gino Baudrino (Padre Renato), Ezio Sega (Giudice Mistretta), Angelo Giugliano (amico invadente), Antonio Mazzara (cassiere), Roberta Lena (ex moglie di Renato)
Direttore di produzione Remo Chiappa
Ispettore di produzione stripslashes(Lia Furxhi)
Produzione Vittorio Cecchi Gori per Cecchi Gori Group/Fin.Ma.Vi
Distribuzione Cecchi Gori Group
Note Assistente operatore: Angelo Santovito; operatore subacqueo: Marco Manfredini; fotografo di scena: Guido Salvini; canzoni: Scelte di tempo di E. Ruggeri, Cinque giorni di M. Zarrillo, South American Way di M. Monte; cantante solista: Rossella Ruini; suono in presa diretta Dolby Digital; assistente scenografo: Giada Esposito; parrucchiera: Rosalia Mazzurco; altri interpreti: Renato Luigi Liprandi (cassiere capo), Paolo Belletrutti (dirigente delle Poste), Franco Abba (impiegato), Carmelo Dovere (poliziotto), Mimmo Coccimiglio (Mimmo), Claudio Nicola Contartese (postino), Maurizio Conterno (medico), Cristina Giorgetti (Vincenza), Lisa Gritti (Katy), Annamaria Biletta (madre di Renato), Elena Presti (Mirna), Guido Steglio (giocatore), Lioudmilia Tchernova (Rossella); organizzazione generale: Maurizio Pastrovich; direttore di produzione: Remo Chiappa; segretaria di produzione: Giulia Revel, Adelina Arcidiacono; segretaria di edizione: Fernanda Selvaggi; amministratore: Gino Tamagnini.
Film realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte.
Le riprese degli interni del film sono state realizzate nei teatri di posa di Euphon International, Torino; quelle degli esterni nei Comuni di: Torino, Brandizzo, Bussoleno, Moncalieri, Pancalieri, Pinerolo, Poirino, Racconigi, Rivoli, Finale Ligure.
Sinossi
Torino, febbraio 1996. Il furgone blindato delle Poste effettua il solito giro di ritiro sacchi-valori dagli uffici periferici. La mattina dopo, all'apertura dei plichi, denaro ed assegni sono stati sostituiti da carta straccia. Iniziano le indagini e subito si scoprono i responsabili: Renato Sapienza, autista del furgone, ed il suo collega Walter Taranto sono spariti. Separato e con figlia a carico, è poeta dilettante e tira tardi ogni notte con l'amico, sempre in cerca di una nuova conquista. Ed anche quando arriva l'amore, continua ad essere insoddisfatto e ad anelare un lontano “paradiso”: Costarica. Secondo lui il sogno si può avverare solo con un “colpo” studiato in ogni minimo particolare. Ma l’impresa finisce tragicamente, perché il delinquente “sognatore” viene liquidato dai complici professionisti. Il commissario Lucidi che compie le indagini trova una sveglia che segna le sei trafitta da un coltello, quasi a voler rompere definitivamente la monotonia. Anche il commissario è stanco della solita routine, ma l’accetta con rassegnazione.
Dichiarazioni
«Il fatto di cronaca è lo spunto per raccontare la storia dei due postini autori della rapina, la storia di un’ansia di fuga. Sono due amici, Renato e Walter, che vengono dalla provincia e lavorano a Torino. Walter è un tipo concreto, forse per lui la vita andrebbe bene così com’è. Renato invece è un poeta, uno che sogna una felicità da trovare altrove, ed è lui che trascina l’amico nel sogno. […] Renato è pronto ad abbandonare la sua ragazza, anche se sa che è la persona giusta, anche se lasciarla significa dolore: la spinta verso la fuga è più forte […] una fuga da una vita senza sorprese, notti bruciare per forza fino all’alba. Una fuga dalla provincia in cui sono cresciuti Renato e Walter, Alessandria e dintorni, un paesaggio particolarissimo, né città né campagna. Alessandria è una città immersa nella pianura, ti guardi intorno e non ci sono ostacoli allo sguardo. Secondo me un paesaggio così scatena la voglia di andare via» (G.M. Tavarelli, “la Repubblica”, 3.8.2000).
«È stato un lavoro molto diverso rispetto a quello di Un amore. Qui si partiva da un fatto realmente avvenuto, anche se poi il film e i personaggi si ispirano molto liberamente alla cronaca. Siamo comunque partiti, nella costruzione dei personaggi, da una ricerca il più possibile accurata di tutti i materiali d'epoca, attraverso giornali, documenti e filmati. Questo materiale ci è stato utile per capire chi fossero in realtà i due protagonisti del colpo alle poste. In un secondo tempo ci siamo staccati dalla cronaca per partire con l'invenzione e la creatività. I personaggi del film sono dunque la risultante di quello che sono stati e di quello che abbiamo voluto che fossero» (F. Gifuni, www.cinemavvenire.it/articoli.asp?IDartic=94).
La vicenda narrata nel film si basa su un fatto realmente accaduto - il furto alle Poste di Torino computo da Giuliano Guerzoni, Domenico Cante, Enrico Ughini e Ivan Cella -, ma Tavarelli mescola eventi reali a eventi ipotetici compiendo, dopo quella della polizia, una seconda indagine volta a mettere in evidenza non tanto le responsabilità criminali, quanto i sentimenti, le fantasie, le insoddisfazioni, le nevrosi dei protagonisti.
«Prendi i soldi e scappa verso un’altra vita. Una vita diversa. Una vita senza sveglia mattutina, senza routine sul lavoro butto, senza alimenti da pagare all’ex moglie, senza doveri. Una vita spericolata. Una vita tropicale: sabbia bianca, acqua trasparente, palme, caldo, long drinks colorati, libertà, languore» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 16.9.2000).
Le ambizioni, i sogni, le velleità degli uomini mediocri che compaiono in Qui non è il paradiso sono simili a quelli di tanti loro simili che vorrebbero arricchirsi per cambiare radicalmente la propria vita. Pertanto la vicenda induce «a riflettere sulla società nostra, sulle persone “normali” che compiono repentinamente atti efferati, sul vuoto esistenziale, sulla sete di vita che può portare a morte: il titolo lezioso e furbetto non corrisponde alla durezza forte del film» (Ibidem).
«Tavarelli sembra andare controcorrente. Mentre il resto del nuovo cinema italiano oltre che sull’originalità dello stile punta sulla singolarità dei corpi e del contesto geografico e sociale, mentre legioni di esordienti o di autori più o meno giovani corteggiano il grottesco, l’eccezionale, l’emblematico, l’anomalo, il sintomatico, il deviante, l’estremo, [Tavarelli] elabora una quieta e rassegnata medietà (a dire il vero molto sabauda) entro cui coltivare come piante in vaso i pacati deliri, le esistenze mancate, le rivolte soffocate dei suoi personaggi volutamente grigi, mediocri, qualunque [...]. Era da tempo che un film non offriva un check-up così spietato e insieme distaccato dello stato di salute, si fa per dire, nazionale [...]. Da tempo non ci capitava di vedere tante facce di uno stesso problema (l’amoralità, l’avidità, l’omertà, la corruzione, la rancorosa insoddisfazione che cova sotto tante esistenze “normali”) riunite sotto un unico titolo» (F. Ferzetti, Gianluca Maria Tavarelli: Qui non è il Paradiso, FAI, Torino, 2000).
Il regista compie la sua “indagine” attraverso i modi del thriller, ossia egli «conferma il proprio interesse per il quotidiano che conosce e per i suoi risvolti di “intimità” ma, nel medesimo tempo, si affida a canoni di genere stabiliti. Tutto vi risponde. Dal sogno impossibile che trasforma l’uomo comune in delinquente, agli sbocchi tragici a cui conduce la differenza tra criminali esperti e criminali improvvisati, all’amaro “coinvolgimento” dell’avversario, cioè il poliziotto che, indagando, finisce per guardare meglio dentro sé stesso. Dal rispetto del thriller e delle sue più rodate convenzioni il registrasi si stacca, poi, per inseguire un proprio progetto tematico e stilistico» (T. Masoni, “Cineforum”, n. 398, 2000).
L’impostazione linguistica e drammatugica è rigorosa, anche «i dialoghi rozzi e ripetitivi descrivono nella maniera migliore il contesto in cui si muovono i personaggi, un universo senza via d’uscita ("qui è tutta pianura") e senza speranza, in cui i sognatori fanno inevitabilmente una pessima fine. Ma quel che più colpisce è la capacità del regista di costruire la tensione, creando anche un’aura di rispetto (o di pietà) nei confronti dei due sventurati postini. I personaggi sono come intrappolati da suadenti carrelli, arditi movimenti di macchina, panoramiche ormai rare nello sgrammaticato panorama italiano, che intrecciano una rete invisibile destinata ad avviluppare i due avventati ladri nelle loro illusioni: una rete che si rivela anche verbale, perché le parole di Leopardi e Hugo Pratt sono ugualmente responsabili della "caduta" dei protagonisti, l’uno con il rimpianto delle occasioni perdute, l’altro con il miraggio di nuovi orizzonti. Colpisce anche la struttura narrativa del film, un continuo andirivieni tra passato e presente, tanto affascinante nel suo gioco di continui rimandi da far dimenticare allo spettatore che l'intreccio è risolto a mezz’ora dal finale» (S. Selleri, www.spietati.it/archivio/recensioni).
Non mancano momenti duri e feroci, ma senza effetti spettacolari e ammicamenti alla curiosità sadica dello spettatore. «Come dire che Tavarelli adopera una tecnica di smorzamento laddove ci si aspetterebbero scoppi e acrobazie (o metafisiche cupezze) e che questa tecnica risponde a una personale interpretazione del caso e della sua violenza. Sembra quasi un film troppo uniforme, Qui non è il paradiso, invece – a parte qualche timore o prudenza, a parte il sogno agonico finale, troppo dilatato – coltiva varianti in sfumatura, ambigue ferialità e una critica tagliente. Se il dramma più diffuso del nostro vivere oggi si manifesta in una “ideologia” mediocre, sembra suggerire Tavarelli, il tasso emotivo della rappresentazione può essere conseguente, cioè tiepido» (T. Masoni, Op.cit.).
Anche i colori sono smorzati, spenti: il grigio freddo di giorno ed il blu profondo e “sporco” di notte sono l’aspetto cromatico del luogo in cui i protagonisti vivono e del lavoro che svolgono: «Qui non è il paradiso ha insomma il “colore” e la “luce” delle Poste taliane: colore e luce tanto consueti, nella loro banalità, da dover essere contrastati da banalità contrarie, come appunto quel finale turistico» (T. Masoni, Op.cit.).
«Tavarelli regista eclettico? All'apparenza. In realtà, il regista torinese, tra i più interessanti del nuovo cinema italiano, al suo terzo film, Qui non è il paradiso […] dimostra piuttosto di applicare una certa sperimentazione di linguaggi, un adattamento di forme e stili, a una sfaccettata matyeria molto acutamente gettata nelle inquietudini, nelle difficoltà e nelle sofferenze della contemporaneità. […] Qui non è il paradiso assume la brutalità e fattualità di un pezzo cronachistico di “nera”, con una linearità e secca velocità di taglio narrativo che potrebbe rammentare dinamiche e proposte di montaggio tipo Banditi a Milano o tipo i diversi film d'azione italiani sulla polizia (con Milian o Cassinelli) degli anni Settanta. […] Tavarelli fa cronaca, ma intanto lavora sui personaggi, va in profondità nelle loro anime inquietate dalla voglia di fuga, felicità, paradisi terrestri, voglia di sparire dalla grigia e squallida quotidianità senza domani; il sogno di andarsene lontano, via dalla depressione, dall'infelicità, dalla povertà: via verso paradisi tropicali grazie alla scorciatoia di un colpo scientifico; senza far del male ad alcuno. La chiusura del sogno irrompe micidiale in un finale che lascia senza fiato per la durezza improvvisa e inaspettata, per la tragicità cruenta e disperante di una fine da mattatoio, mentre colpito a morte il bravo Fabrizio Gifuni vede passargli davanti agli occhi la realizzazione solare della sua fuga, del suo sogno in un mare dei Tropici (quasi come in Carlito's Way le visioni di Pacino, sulla barella che corre all'ospedale, prima di spirare). Mentre scrive questo pezzo di cronaca, Tavarelli sa permeare i fatti di tante inquietudini della nostra contemporaneità, di tante aspirazioni del nostro vivere attuale e dei tanti momenti di anonimo vuoto e senso di inutilità che attraversano il quotididiano» (R. Gilodi, “Cinemasessanta” n. 6/256, novembre-dicembre 2000).
Le location nel capoluogo piemontese e nella Valle di Susa sono scelte attentamente e fotografate in modo adeguato da Pietro Sciortino, analogamente a quanto accade negli altri film “torinesi” di Tavarelli. «È poi la visione di una Torino minima, con le sue osterie in penombra, i certàmi di poesia spicciola, le diatribe sui migliori attaccanti di tutti i tempi, da Van Basten a Gigi Riva, ad incuriosire lo spettatore mentre il dramma incalza. Nella fotografia di Pietro Sciortino rifulge un timbro crepuscolare che diventa, anch’esso, protagonista del racconto» (G. Napoli, “Il Giornale di Sicilia”, 17.9.2000).
Immagini buie e clima teso propongono «abilmente, e non di rado fino alla suspense, gli interrogativi che scaturiscono da tutti i tasselli proposti in ordine sparso e destinati solo alla fine a comporsi in un mosaico. In cifre allora torvamente drammatiche. […] Pur sembrando ricalcare gli schemi consueti dei film sulle rapine, [il film di Tavarelli] li rinverdisce con la vitalità dei suoi snodi narrativi, con l’ansia ben dosata delle sua atmosfere e con lo studio sempre attento dei caratteri, a cominciare da quello del protagonista. Come già in Un amore, vi dà volto Fabrizio Gifuni, ora spavaldo ora trepido, ora fragile ora aggressivo. Con solido dominio dei propri mezzi espressivi. La ragazza, che per un momento lo affianca, incapace però di fermare il destino che lo aspetta, è Erika Bernardi, una quasi esordiente» (G.L. Rondi, “Il Tempo”, 15.9.2000). Bravissimo è anche Antonio Catania, dolente e contenuto; Valerio Binasco esprime in modo perfetto velleitarismo e mediocrità piccoloborghesi.
«Quello dell'amicizia maschile è uno dei temi forti dei film di Tavarelli, e lo ritroviamo infatti anche nel suo terzo lungometraggio, Qui non è il paradiso (2000), girato in parte a Torino e in parte nella Val di Susa. Qui il regista parte da un fatto di cronaca realmente accaduto - quello di un furto alle Poste di Torino - per raccontarci la storia di altri due sognatori che non ce la fanno più ad alzarsi presto la mattina e a uscire nella nebbia per portare a casa uno stipendio. I colori, al solito, sono spenti, tendenti al grigio freddo e contrastati nel finale dall'immagine da cartolina della spiaggia tropicale. Commenta Gregorio Napoli: "È poi la visione di una Torino minima, con le sue osterie in penombra, i certàmi di poesia spicciola, le diatribe sui migliori attaccanti di tutti i tempi, da Van Basten a Gigi Riva, ad incuriosire lo spettatore mentre il dramma incalza. Nella fotografia di Pietro Sciortino rifulge un timbro crepuscolare che diventa, anch'esso, protagonista del racconto" (“Il Giornale di Sicilia”, 17 settembre 2000). In questo terzo lavoro emerge in maniera ancora più preponderante questa pulsione alla fuga dei personaggi di Tavarelli - pulsione perfettamente incarnata dall'attore Fabrizio Gifuni, che sembra perennemente braccato, dilaniato dai contrasti, affascinato dalla voglia di fare un fuoco di tutto e incapace di essere fino in fondo cinico come si converrebbe al suo ruolo - e il dilemma che ne consegue: è più coraggioso restare o partire? Un dilemma che sembra rimanere irrisolto, come irrisolti sono questi giovani non più giovani, questa classe media di un Nord Italia che deve ancora fare i conti con problemi di sopravvivenza - la crisi che falcidierà le piccole imprese è ancora di là da venire - ma che si configura come vera e propria prigione che toglie l'aria ai sogni; una prigionia senza poesia, come emerge proprio in Qui non è il paradiso, dove nessuno ha il coraggio di fare ciò che veramente vorrebbe, e dove chi ci prova, come i due protagonisti del film, finisce inevitabilmente per fallire» (S. Ghelli, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
Scheda a cura di Matteo Pollone
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