«Nel mese di agosto del 1987 le porte delle carceri Nuove di Torino si sono eccezionalmente aperte agli attori del teatro Stabile, al loro regista Ugo Gregoretti e a una troupe televisiva diretta da Gabriella Rosaleva. Le aree omogenee maschile e femminile e alcune detenute del giudiziario, avevano infatti chiesto di poter assistere alla messa in scena de Le miserie d' Monsù Travèt, che sarebbe poi apparso sui cartelloni dei teatri italiani qualche mese dopo. Così del tutto inaspettatamente, ci troviamo, Gabriella ed io, come sua assistente, insieme con un piccolo gruppo di tecnici a trascorrere la nostra prima estate carceraria. Fin dall'inizio la nostra attenzione si rivolge al pubblico della messa in scena, le detenute e i detenuti. Ma l'argomento dello special era prima di tutto il Travet e non c'era stata concessa alcuna autorizzazione ad effettuare interviste o riprese in primo piano. Questo in principio rende il nostro rapporto con loro un po' distaccato; è difficile lasciar loro lo spazio espressivo che si aspettavano. Ecco allora l'idea di strutturare il filmato su un'imbastitura costituita da vari fuori campo in cui leggono brani di lettere, riflessioni ecc., stralci di una letteratura spontanea che in carcere, nel più desolante dei deserti comunicativi, fiorisce con abbondanza. L'escamotage mi pare riuscito, ma restano da fare alcune considerazioni generali a proposito di questo grande bisogno di comunicazione che il carcere esprime. Per quanto abbondanti e spesso diffusi pubblicamente, gli scritti non riescono a soddisfare un'insaziabile necessità di spiegarsi che i detenuti, e in particolare naturalmente i politici dissociati, sembrano portarsi addosso. Chi ha fatto di un'utopia, seppur feroce e certamente folle, la sua ragione di vita e poi l'ha ritrattata, continua per l'eternità a cercare per sé e per gli altri la causa di tutto il dolore che ha provocato e subìto. Inoltre la dissociazione per molti ha significato anche, mi è parso, rivolgersi ad altre dimensioni di esperienza e comunicazione. Così improvvisamente compare negli scritti la parola “immaginario”. È forse il riconoscimento e la legittimazione di altri valori che quella cultura aveva sottovalutato e poi la segregazione ha cancellato, che si esprime nell'intenzione di raccontarsi individualmente e concretamente, nel desiderio di provare e di trasmettere emozioni, nel sognare... Ecco allora che il cinema, o il video (più popolare e realizzabile), appaiono un linguaggio adeguato a portare “fuori” quei contenuti e a garantire una comunicazione più viva e profonda, un contatto sensibile, seppur differito, tra dentro e fuori. Rendere possibile fare del cinema in carcere può essere, infine, un passo sul cammino della riflessione e della conoscenza di ciò che è stato, e forse anche sul lento cammino della riconciliazione» (ce. pe., “Il Nuovo Spettatore” n. 11, 1998).