Altri titoli: Savage Breed
Regia Pasquale Squitieri
Soggetto Pasquale Squitieri
Sceneggiatura Pasquale Squitieri, Ennio De Concini
Fotografia Giulio Albonico
Operatore Marco Onorato
Musica originale Tullio De Piscopo
Suono Davide Magara
Montaggio Mauro Bonanni
Effetti speciali Gino Vagniluca
Scenografia Marco Canevari
Costumi Danda Ortona
Trucco Teresa Cicchetti
Aiuto regia Serena Canevari
Interpreti Saverio Marconi (Mario Gargiulo), Stefano Madia (Umberto), Imma Pirro (Michelina), Simona Mariani (Anna), Enzo Cannavale (don Peppino), Angelo Infanti (Carlo Esposito), Cristina Donadio (Giuliana), Claudio Bertoni (venditore), Victoria Zinny, Franco Angrisano, Manuel Laghi, Geoffrey Copleston, Aldo Massasso, Antonella Patti, Salvatore Billa
Direttore di produzione Bruno FrascĂ
Ispettore di produzione Ruggero Salvadori
Produzione Luigi Borghese per Cinematografica Alex
Distribuzione Titanus
Note Visto censura 75581 del 13.9.1980; 2719 metri.
Direzione artistica: Marco Canevari; assistente operatore: Sergio Melaranci; fotografo di scena: Pina Di Cola; musiche eseguite da: Tullio De Piscopo Ensemble; effetti sonori: Luciano e Massimo Anzellotti; montaggio effetti sonori: Attilio Gizzi; assistente al montaggio: Loredana Cruciani; aiuto assistente al montaggio: Massimo Gasperini; aiuto costumista: Silvia Polidori; sarta: Bertilla Silvestrin; parrucchiera: Maria Rizzo; mixage: Romano Checcacci; interpreti: Vittorio De Bisogno, Barbara Coscia, Giovanni Febraro, Sacha D'Arc, Dino Arixi, Vito Fornari, Lombardo Fornara, Karin; segretaria di edizione: Daniela Puccini; segretaria di produzione: Silvia Ormezzano;
Locations: Torino (piazza Carlo Alberto, piazza Solferino, piazza Castello, piazza Palazzo di Città, largo Vittorio Emanuele, Porte Palatine, mercato di Porta Palazzo, via Pomba, via Artom), Saint Vicent (AO), Minori (SA), Roma (Teatri di posa De Paolis Incir).
Sinossi
Nato a Minori, in provincia di Salerno, Mario Gargiulo vive nei pressi di Torino con la sorella Michelina e la figlia di questa. Insoddisfatto del lavoro in fabbrica, Mario accetta l'invito del compaesano Umberto, che dirige un locale notturno a Torino.
Dichiarazioni
«[Torino] offre, più di ogni altra [città], un panorama completo e pauroso […] del tormento degli immigrati che non si integrano con la popolazione locale, perché il loro problema non è soltanto quello della condizione di vita in fabbrica – bene o male, oggi, quasi soddisfacente – ma la mancanza totale della loro tradizione, del folclore della loro terra, che significa cultura, lingua, teatro ed è anche giustificazione esistenziale» (P. Squitieri, “La Stampa”, 23.2.1980).
«Abbiamo dovuto affrontare molti problemi. Il film doveva essere girato tutto a Torino ma, per il clima particolare di tensione, di paura, non ci è stato permesso di girare all’interno delle fabbriche, perciò abbiamo dovuto realizzare una catena di montaggio negli studi romani» (L. Borghese, “La Stampa”, 23.2.1980).
«Tra le lettere al sindaco Novelli ce n'è una inviata da alcuni benpensanti in cui si protesta contro l'invasione della gente del Sud, una “razza selvaggia”, erede di pirati e di vandali. Pasquale Squitieri, napoletano verace, rovescia l'accusa sui piemontesi: realizza un film che si chiama appunto Razza selvaggia e sviluppa la tesi che quella dei meridionali in Piemonte non è stata una emigrazione; bensì una “deportazione di massa”, cominciata nel secolo scorso, quando l'ltalia si fece “una e libera”, come si legge nei libri di scuola, e proseguita fino al boom dell'automobile. La camera di Squitieri, a un certo punto del film, indugia sui monumenti, le statue equestri di Torino: spade aguzze, baffi a punta, espressioni dure e rapaci. Sotto i monumenti passa la moto di Mario Gargiulo, il protagonista del film, giovane operaio che stando al Nord ha perso la sua identità, la sua lingua (Squitieri prega di non chiamare il napoletano “dialetto”), la sua fede politica. Ha perso cioè l'orgoglio di un passato civile. “A Napoli”, dichiara Squitieri, “non ci sono monumenti a ‘conquistadores’, bensì a scrittori, poeti, avvocati”. Qual è la “razza selvaggia” allora? Mario Gargiulo, per riappropriarsi della propria lingua, deve attraversare drammatiche esperienze: scoprire che la sorella Michelina si prostituisce assieme alla figlia quasi impubere, che il suo miglior amico, Umberto, che sembrava “arrivato”, avendo abbandonato la fabbrica ed essendo riuscito a dirigere una discoteca, è in realtà un tossicodipendente e sta morendo di eroina. […] Razza selvaggia appartiene alla serie dei film a basso costo e la violenza cosparge quasi tutte le inquadrature, anche le più innocue, anche dove i protagonisti sono intenti a una spaghettata con l'aglio e il peperoncino» (C. Cosulich, “Paese Sera”, 25.10.1980).
«Sub-periferia cisalpina, quartiere degli immigrati napoletani a Torino. Non più meridionali ma non ancora torinesi, parlano una lingua intermedia e affondano fra conservazione degli antichi valori e acquisizione della “cultura” industriale» (S. Frosali, “La Nazione”, 23.10.1980).
«La città è un inferno di violenza e corruzione: su uno spelacchiato prato di Nichelino, tra case diroccate, un gruppo circonda un caporeparto, lo costringe a calarsi i calzoni e poi gli spara; nei grattacieli di periferia, la sorella del protagonista, terrorizzata dalla miseria, si prostituisce in coppia con la propria figlia dodicenne. Nel centro di Torino, il protagonista viene aggredito e minacciato da delinquenti che risultano poliziotti, mentre in un palazzo settecentesco siede al proprio ricco banchetto nuziale un signore civile e generoso che risulta delinquente. Allo slargo di corso Vittorio, quattro quindicenni serrano uno contro il muro e gli tolgono il portafogli; al mercato del Balôn, napoletani mascherati da arabi consumano le piccole truffe quotidiane di chi preferisce gli espedienti all'alienazione. Tra l'eroina e le prostitute dei night club, il giovane operaio meridionale Stefano Madia, che s'è arricchito coi commerci sporchini può finalmente permettersi di parlare quel dialetto che i poveri sono costretti a dimenticare dal pregiudizio socioculturale contro i “napoli”. Crudeltà di cuori, medici che non curano il morente se prima non vedono i soldi, bande di guardoni ai finestrini degli amplessi in automobile, padri che piangono perché il figlio s'è perduto nel vizio, malavitosi che fanno filosofie sull'esistenza, ricchi grassi e maiali, siringhe quante se ne vuole […] Il ritratto che PasquaIe Squitieri delinea della metropoli automobilistica ha toni persino più ferrigni che ne La ragazza di via Millelire di Gianni Serra. Serra si atteneva alla zona delimitata degli emarginati, invece Squitieri chiama in causa tutta l'emigrazione meridionale, e lo fa con tesi da apocalisse» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 17.9.1980).
«In effetti il film che [Pasquale Squitieri] aveva portato al “Controcampo italiano” della mostra di Venezia […], Razza selvaggia, è un esempio perfetto di questa sua concezione del cinema, soprattutto nel confronto obbligato con un altro film veneziano, La ragazza di via Millelire, che era […] di produzione televisiva. Stesso ambiente, la Torino degli immigrati e degli “italiesi”, dello sfacelo sociale e della difficile integrazione linguistica, stessi ringraziamenti, alla fine, al Comune e al sindaco Novelli. Ma le analogie sono già finite perché, se il film di Gianni Serra era fatto di analisi, consulenze sociolinguistiche, inchieste preliminari col videotape, personaggi reali che recitano se stessi e la propria miseria, Razza selvaggia è un film di rapide sintesi, di tipi scolpiti a forza, situazioni colte nel momento più drammatico e vistoso, sangue in faccia e buchi nel braccio che sembrano spelonche» (“Il Corriere Mercantile”, 17.9.1980).
Squitieri ha il torto di raccontare nel suo film una Torino che non c’è più, riproponendo un’immagine fedele alla città appena uscita dalla grande immigrazione. Quando, ormai negli anni Ottanta, il film viene realizzato, Torino è cambiata; Squitieri, sordo ai suggerimenti di chi la città la vive e dunque la conosce bene (i giovani critici che lo accompagnano nei sopralluoghi preliminari, ad esempio), non se ne accorge, piega la realtà alle sue istanze retoriche e commette l’errore di rimanere legato a cliché.
Negli esterni, Squitieri riprende la Porta Palazzo dei funamboli, del mercatino domenicale degli animali, dei commercianti senza scrupoli, dei guappi e dei trafficanti. Vediamo Campi Lunghi sui casermoni della periferia, sulle cataste di immondizia e sui mercatini davanti ai cancelli Fiat.
Scheda a cura di Davide Larocca
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