Altri titoli: Ils vont tous bien, Everybody’s Fine
Regia Giuseppe Tornatore
Soggetto Giuseppe Tornatore
Sceneggiatura Giuseppe Tornatore
Fotografia Blasco Giurato
Operatore Claudio Morabito
Musica originale Ennio Morricone, Andrea Morricone
Musiche di repertorio L. Granozio, A. Libianchi, G. Santiano, A. Savini, I. Novaga, S. Facchini, G. Verdi
Suono Massimo Loffredi
Montaggio Mario Morra
Effetti speciali Giovanni Corridori, Larry Arpin
Scenografia Andrea Crisanti
Arredamento Nello Giorgietti
Costumi Beatrice Bordone
Trucco Maurizio Trani, Gianni Graziano
Aiuto regia Giuseppe Giglietti
Interpreti Marcello Mastroianni (Matteo Scuro), Valeria Cavalli (Tosca), Marino Cenna (Canio), Norma Martelli (Norma), Roberto Nobile (Guglielmo), Salvatore Cascio (Alvao), Susanna Schemmari (Angela Scuoro), Giorgio Li Bassi (Lo dinaro), Michèle Morgan (signora in treno), Fabio Iellini (Antonello), Gioacchino Civiletti (capostazione), Antonella Attili (madre di Matteo), Leo Gullotta, Ennio Morricone, Jacques Perrin
Produttore esecutivo stripslashes(Mario Cotone)
Produzione Elle Produzioni, Les Films Ariane, TF Films Productions, in collaborazione con Silvio Berlusconi Communications
Note Collaborazione alla sceneggiatura: Tonino Guerra, Massimo de Rita; musiche di repertorio: Roma forestiera, Nannarella di L. Granozio, A. Libianchi, Valzer di Pinerolo di G. Santiano, Romualda, Nina di A. Savini, I. Novaga, S. Facchini, Traviata di G. Verdi; altri interpreti: Matteo Lo Liparo, Mariangela Randazzo, Gaia Restivo, Paride Zappalà, Nicola Di Pinto.
Il film ha vinto il Premio O.C.I.C. (Critica ecumenica) e il Premio S.N.G.C.I. (Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani) al 43° Festival di Cannes; nella stessa edizione della kermesse francese, per questo film Marcello Mastroianni è stato premiato come migliore attore protagonista. Inotre il Premio David di Donatello 1991 per il migliore musicista è stato dato a Ennio Morricone.
Sinossi
Matteo, un siciliano vedovo e pensionato, decide di andare a trovare i suoi cinque figli, emigrati per lavoro, che da tempo non vede più. Parte così dalla sua casa di Castelvetrano alla volta delle città dei figli: Napoli, Roma, Firenze, Milano e Torino. Nel capoluogo campano non riesce ad incontrare suo figlio, nelle altre quattro città rende altrettante visite frettolose, durante le quali non ha modo di rendersi conto delle vere condizioni di vita dei suoi figli che, benché raccontino di aver raggiunto sistemazioni soddisfacenti, vivono situazioni meno rosee di quelle millantate. Nella cena di famiglia che Matteo riesce ad organizzare, a cui non partecipano tutti i figli, l’uomo apprende che uno di loro è scomparso in mare; benché ferito, Matteo, non appena tornato a Trapani, fa visita alla tomba della moglie e, a proposito dei figli, assicura che stanno tutti bene.
Dichiarazioni
«C’è l’idea di mostrare un’Italia diversa da quella che si vede alla televisione, senza scandalismi e senza denunce, guardandola attraverso gli occhi di questo pensionato che l’Italia l’ha vista solo in tv. C’è il piacere di mettere in scena una vecchiaia dignitosa: quella che ha avuto mio nonno, che era analfabeta ma recitava a memoria Gli sposi promessi di Manzoni; quella che ho scoperto una sera a Roma in una trattoria periferica, osservando un anziano signore con la valigia che mangiava da solo. C’è il bisogno di comunicare che tutti gli uomini hanno per sentirsi vivi e la difficoltà di farlo oggi in un mondo che ha fretta, non ha tempo, si nega, ma a volte sa anche fermarsi un attimo per dar spazio al sogno» (G. Tornatore, “La Stampa”, 26.10.1989).
Dopo il grande successo internazionale di Nuovo Cinema Paradiso, Giuseppe Tornatore realizza un film ambizioso, in cui vuole dire molte cose importanti sulla famiglia, sull’Italia di fine millennio, sui rapporti tra padri e figli, tra giovani e vecchi, tra passato e presente, tra campagna e città, tra Meridione e Settentrione, tra sogno e realtà. Stanno tutti bene è una storia di solitudine (quella di un anziano siciliano rimasto vedovo e abbandonato dai cinque figli, tutti emigrati), di fallimenti (quelli delle aspirazioni che il padre aveva riposto nei suoi figli), di inganni (quelli dei figli, incapaci di confessare le loro reali situazioni); è anche la storia di un viaggio, con i suoi stimoli ed il suo fascino: Vittorio Spiga lo definisce «il più bel road movie del cinema italiano» (“II Resto del Carlino”, 21.5.1990).
Il film è confezionato in modo ottimo, professionalmente eccellente, ma pare freddo, privo di vera emozione. Già la sceneggiatura «non ha la finezza per garantire un quadro sociologico attendibile per raccontare l’amarezza degli strappi generazionali e delle aspettative deluse né la forza dello stile e dell’invenzione. […] Pronto a far vibrare ogni corda dei sentimenti, dei rimpianti e della cattiva coscienza filiale pur di commuovere, Tornatore ovviamente ci riesce. Ma altra cosa è arrivare a cogliere senza moralismi il sapore e la difficoltà di vivere di questi finti anni facili, e guardare al presente con occhi d’oggi» (I. Bignardi, “la Repubblica”, 25.10.1990). Insomma, la struttura narrativa del viaggio resta un po’ «schematico-scolastica senza acquistare vera vita, a un certo punto diventa ripetitiva, s’appesantisce di episodi ingombranti; mentre le evocazioni d’infanzia al mare sono molto belle e toccanti» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 26.10.1990).
Durante il viaggio assistiamo ad eventi di volta in volta patetici, onirici, divertenti, pieni di ironia. Il regista, «convinto che la realtà così com’è sia televisiva e che il cinema debba “volare più alto”, introduce nel racconto poeticismi» (L. Tornabuoni, Ibidem), immagine simboliche non sempre convincenti (un grande cervo in mezzo all’autostrada, un cavallo bianco in mezzo alla città, le finte lucciole che si accendono con il telecomando, ecc.).
Simpaticamente ironica è invece la sequenza in cui un bambino che smette di piangere solo davanti alla televisione, quando l’apparecchio si rompe viene piazzato da Matteo davanti alla lavatrice in funzione, ottenendo lo stesso effetto tranquillizzante. Piena di fascino è certamente la scena onirica in cui il protagonista e la moglie, in spiaggia, vedono un essere fantastico, una sorta di creatura aliena, che prima si abbassa fino a terra e poi si leva in volo portando via i loro figli ancora piccoli.
Con assoluto pessimismo Tornatore mostra .l’alienazione e la solitudine di un’Italia composta da falliti e da mediocri. Soltanto in un momento del film sembra esserci spazio per la speranza: in viaggio da Firenze a Milano, Matteo incontra una donna, sola come lui, con cui simpatizza immediatamente; con lei si concede una sosta e una serata danzante a Rimini. Ma è solo una breve parentesi: nonostante la donna gli sconsigli di proseguire un viaggio in cui potrà incontrare solo delusioni, il protagonista si rimette in cammino per Milano, dove lo aspetta un altro figlio.
Il protagonista (un Marcello Mastroianni come sempre bravissimo, anche se il pesante trucco con baffi e occhialoni limita le sue possibilità espressive) dimostra il suo bisogno di contatto umano e di dialogo tentando conversazioni con le persone che incontra lungo il suo percorso dal Sud al Nord dell’Italia, durante il quale si scontra con una realtà che nel suo paese non ha mai conosciuto e alla quale non riesce ad adattarsi.
A Torino, estremo d’Italia opposto al paese del trapanese da cui Matteo è partito, le location utilizzate sono numerose: l’atrio della stazione di Porta Nuova, una piazza del mercato ingombra di bancarelle durante il giorno e di senzatetto nelle ore notturne, il palazzo delle Facoltà Umanistiche trasformato in sede della compagnia telefonica Sip, l’aula del tempio della Mole Antonelliana trasformata a sua volta in ufficio telefonico.
«Stanno tutti bene [… si presenta] come un film "da esportazione", accettando perciò di mettere in scena tutti i clichés etnici che negli anni Settanta fecero la fortuna di Lina Wertmüller negli Stati Uniti: spaghetti, Napoli fatiscente, sfilate di moda, la-politica-èuna-cosa-sporca […]. Per dare un colpo al cerchio (all'estero) e uno alla botte (in Italia), Tornatore ha sovrapposto a questi luoghi comuni quanto di peggio può esprimere il conservatorismo culturale: l'ingratitudine dei figli nei confronti dei genitori; l'infelicità della coppia moderna; il senso di colpa dell'essere madre senza essere sposata; il vergognarsi di far vedere che si ha un posto di centralinista anziché un incarico dirigenziale; il fare figli con incoscienza, e il sentirsi dire che tutto sommato è meglio che la ragazza non abortisca (è la finale simbologia della nascita che ha fatto guadagnare al film il Premio della Critica Ecumenica a Cannes?); e altro ancora. […] Ma Tornatore ha una scommessa in sospeso con coloro che gli hanno accordato fiducia e denaro: deve dimostrare non solo di avere la stoffa giusta, ma di affermarsi come autore "popolare"; ed ecco che il film si intitola alla maniera di Scola, ecco che la trama è costellata di superflui ammiccamenti alla "commedia all'italiana", ecco l'itinerario di Matteo Scuro trasformarsi - da viaggio nella memoria di "ciò che la famiglia Scuro avrebbe potuto essere" - in una gita turistica con tutti i monumenti al loro posto, con allusioni al cinismo della vita d'oggi, con donne che allattano il loro bambino su quello che sembra il set di Sotto il vestito niente» (P. Cherchi Usai, D. Giannetti, “Segnocinema” n. 46, novembre-dicembre 1990).
Scheda a cura di Davide Larocca
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