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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Hannah e le sue sorelle
Italia, 1986, 35mm, 106', Colore

Altri titoli: Hannah and her Sisters, Hannah et ses sœurs

Regia
Woody Allen

Soggetto
Woody Allen

Sceneggiatura
Woody Allen

Fotografia
Carlo Di Palma

Operatore
Dick Mingalone

Musiche di repertorio
J.S. Bach, J.V. Monaco, G. Puccini, Jule Styne, L. Hart, J. Greer, C. Basie, B. Carter, V. Schertzinger, R. Connelly, T. Shapiro, C. Porter, J. Mercer, D. Fields, J. Van Heuser, B.G. De Sylva

Suono
Jack Fitzstephens

Montaggio
Susan E. Morse

Scenografia
Stuart Wurtzel

Arredamento
Carol Joffe

Costumi
Jeffrey Kurland

Trucco
Fern Buchner

Aiuto regia
Jane Read Martin

Interpreti
Barbara Hershey (Lee), Michael Caine (Elliott), Mia Farrow (Hannah), Woody Allen (Mickey), Dianne Wiest (Holly), Carrie Fisher (April), Maureen O'Sullivan (Norma), Lloyd Nolan (Evan), Max von Sydow (Frederick), Daniel Stern (Dusty), Julie Kavner (Gail), John Turturro (Lo scrittore), J.T. Walsh (Ed Smythe), Richard Jenkins (Il dottor Wilkes), Lewis Black (Paul)

Casting
Juliet Taylor

Produttore esecutivo
Jack Rollin, Charles H. Joffe

Produzione
Robert Greenhut, per Orion Pictures Corporation

Distribuzione
C.D.I.

Note
Brani musicali: You Made Me Love You di J. McCarthy e J.V. Monaco e I’ve Heard That Song Before di S. Cahn e J. Styne eseguiti da H. James; Back to the Apple di F. Foster e C. Basie  e The Trot di B. Carter eseguiti da C. Basie e la sua orchestra; I Remember You di J. Mercer e V. Scertzinger eseguito da D. Brubeck; If I Had You di J. Campbell, R. Connelly e T. Shapiro eseguito da R. Eldridge; Bewitched e Where or When, You Are Too Beautiful e Isn’t It Romantic di R. Rodgers e L. Hart; Just You, Just Me di R. Klages e J. Greer; I’m in Love Again di C. Porter; I’m Old Fashioned di J. Kern e J. Mercer; The Way You Look Tonight di J. Kern e D. Fileds; It Could Happens to You e Polkadots and Moonbeams di J. Burke e James van Heusen; Avalon di V. Rose A. Jolson e B.G. De Silva; Concerto per due violini e orchestra di J.S. Bach eseguito dall’Orchestra dei Solisti da Camera di Sofia diretta da V. Kazandjiev; Concerto in fa minore di J.S. Bach eseguito da L. Gustav; Madama Butterfly di G. Puccini eseguita dall’Orchestra dell’Opera di Roma diretta da John Barbirolli; Manon Lescaut di G. Puccini eseguita dall’Orchestra del Teatro Regio di Torino diretta da Angelo Campora e interpretata da Maria Chiara.
Operatore steadicam: Garrett Brown; assistente operatore: Douglas C. Hart; assistente suono: Noreen Evans; assistenti al montaggio: Richard Nord, Suzanne Pillsbury; assistente scenografo: Dan Leigh; parrucchiere: Romaine Greene; altri interpreti: Bobby Short (Bobby Short), Paul Bates (direttore del teatro), Christian Clemenson (Larry), Joanna Gleason (Carol), Julia Louis-Dreyfus (Mary), Rusty Magee (Ron), Allen Decheser, Artie Decheser (figli gemelli di Hannah), Ira Wheeler (dottor Abel), Tracy Kennedy (invitato al brunch), Fred Melamed (dottor Grey), Benno Schmidt (dottor Smith), Stephen Defluiter (dottor Brooks), Rob Scott (batterista), Beverly Peer (basso), Daisy Previn, Moses Farrow (figli di Hannah), Carrottee, Mary Pappas (amministratori del teatro), Bernie Leighton (pianista all'audizione), Ken Costigan (Padre Flynn), Helen Miller (madre di Mickey), Leo Postrel (padre di Mickey), Susan Gordon-Clark (hostess), William Sturgis (analista di Elliott), Daniel Haber (Krishna), Verna O. Hobson (Mavis), John Doumanian, Fletcher Farrow Previn, Irwin Tenenbaum, Amy Greenhill, Dickson Shaw, Marie Sheridan, Ivan Kronenfeld (marito di Lee); produttore associato: Gail Sicilia.
 
Locations: il film è stato girato a New York. I frammenti dell'opera Manon Lescaut di Giacomo Puccini sono stati filmati al Teatro Regio di Torino (Orchestra del Teatro Regio; direttore d’orchestra: Angelo Campori, regia: Carlo Maestrini, scene: Pasquale Grassi, costumi: Tirelli)
 
Premi: Oscar Academy Awards 1987 a Woody Allen per la Migliore Sceneggiatura Originale, a Michael Caine per il Miglior Attore Non Protagonista, a Dianne West per la Miglior Attrice Non Protagonista; Golden Globe 1987 per il Miglior Film Commedia/musical; BAFTA 1987 a Woody Allen per la Miglior Regia e la Migliore Sceneggiatura Originale; National Board of Review Awards 1986 a Dianne Wiest per la Migliore Attrice Non Protagonista e a Woody Allen per la Miglior Regia; David di Donatello 1987 a Woody Allen  per la Migliore Sceneggiatura Straniera.




Sinossi
A New York si intrecciano le vite di tre sorelle s’intrecciano: Hannah, madre di quattro figli e attuale consorte di Elliott che la tradisce con la giovane cognata; Lee, convivente di Frederick, scorbutico pittore misantropo; infine la squinternata Holly che, in seguito a numerosi insuccessi artistici dettati anche dall’abuso di cocaina, si scopre scrittrice. Quest’ultima trova l’anima gemella in Mickey, squilibrato regista televisivo ed ex marito di Hannah, parzialmente guarito dalla sua assillante ipocondria dopo un tentato suicidio. Come nella sequenza iniziale, anche in quella conclusiva la singolare famiglia che ha ormai trovato un equilibrio si ritrova attorno ad un tavolo per festeggiare il Giorno del Ringraziamento.




Dichiarazioni
«Inizialmente il film doveva raccontare di un uomo che si innamora della cognata. Poi, d’estate, ebbi modo di rileggere Anna Karenina e pensai che sarebbe stato interessante che il mio personaggio maschile passasse da una storia all’altra… Ho una terribile attrazione per i film, i drammi teatrali o i libri che esplorano la psiche delle donne, soprattutto quelle intelligenti» (W. Allen, “The New York Times", 1986, citato da E. Ghirlanda, Woody Allen, Il Castoro, Milano, 1995).
 
«Quando mi preparavo a girare Hanna, Gordon Willis era impegnato nelle riprese di un film che sarebbero durate a lungo, ed il nostro non poteva aspettare, dovevamo iniziare a girare. Ho dovuto dunque trovare un altro direttore della fotografia. […] Carlo Di Palma è sempre stato uno dei miei operatori preferiti. Era disponibile, è venuto negli Stati Uniti. Abbiamo cominciato a discutere molto. La mia collaborazione con Carlo non è differente da quella con Gordon se non per un aspetto. Carlo E Gordon sono tutti e due dei formidabili operatori. Gordon è senza dubbio un po’ più abile, tecnicamente parlando, e Carlo più impregnato di questo stile europeo che privilegia il movimento, la mobilità. […] Quando ho cominciato a lavorare con Gordon, non sapevo molto di questo mestiere. Gordon, che è un genio, mi ha educato […]. Al contrario, quando ho conosciuto Carlo, ero sicuro di me, sapevo ciò che volevo. Avevo già sviluppatoli mio proprio stile» (W. Allen, in Woody Allen. Entretiens avec Stig Björkman, Cahiers du Cinéma, Paris, 2002).
 
«Il pubblico lo ha amato [Hannah e le sue sorelle], ma io lì ho fatto degli errori tremendi» (W. Allen, “La Stampa”, 13.5.2008).
 
«È successo qualche anno fa: dei giornalisti avevano domandato a Woody perché mi aveva voluto e lui, dopo un silenzio di qualche secondo, aveva chiesto “Ma voi avete visto Deserto rosso?”» (C. Di Palma, “La Stampa”, 13.4.1997).
 





«Hannah e le sue sorelle accorcia le distanze tra il cinema e la vita. […] La maturazione “teorica” di Allen (visto che alla compiuta maturità formale è arrivato da circa un decennio), quella che fa sì che Hannah non sia uguale a tutti gli altri suoi film, né migliore, ma semplicemente diverso, consiste proprio nell'acquisita capacità di materializzare compiutamente la sfera del desiderio. Non ci sono più puntini di sospensione o finali aperti; Hannah e le sue sorelle è diventato La rosa purpurea del Cairo, senza rinunciare alla contemporaneità. […] Nel passaggio dal caos all'equilibrio definitivo, risultano determinanti due elementi, che appaiono studiati con particolare intenzione da Allen: lo spazio, inteso come “spazio scenico”, e il tempo. Il primo è sempre stato un punto di forza del cinema di Allen: la scena come immagine del personaggio, lo spazio (anche quello reale) come scenografia, il senso dei limiti territoriali (Manhattan, Brooklyn, Long Island, un appartamento, una sala cinematografica) come confini fisici della vicenda, le quinte che, anche in esterni, chiudono costantemente l'inquadratura. […] Il tempo, invece, non è più il flusso continuo e impreciso (fosse chiuso in un giorno o espanso negli anni) lungo il quale si dipanavano le vicende degli altri film. È chiuso con accentuata determinazione in un arco di due anni, tra tre feste del Ringraziamento, che sottolineano le modificazioni attraverso l’identità della situazione e la compresenza di tutti i personaggi. Non è un pezzo di vita, ma una vera vita da cinema, che ci consente nell'ultima scena di accommiatarci definitivamente dai personaggi. Quello che Allen è riuscito a realizzare in Hannah e le sue sorelle è la conciliazione tra il proprio abituale senso dell'imprecisione del tempo e la temporalità rigida del racconto cinematografico, nel quale tutto deve avere un senso narrativo e, soprattutto, un principio e una fine» (E. Martini, “Cineforum” n. 256, 8/1986).
  
«Paradossalmente, un po’ come accadeva nel precedente La rosa purpurea del Cairo, il cinema assume in questo film un valore catartico, e non certo di evasione. La danza surreale dei fratelli Marx ha una carica di vitalità e, forse, di verità superiore alla vita stessa: per questo, in Allen, il rapporto finzione/realtà viene invertito sino a dare ottimo credito all’ipotesi che tutto, per assurdo, funzioni come in una commedia cinematografica. Sentimenti, passioni, paure, fallimenti, rivalità, successi, amicizia e amore non sono altro che una bizzarra sciarada dietro a cui noi ci affanniamo. Eppure siamo attratti da questo gioco intrigante, dimenticandoci spesso che solo di un gioco si tratta. Infatti tra i motivi musicali dominanti, che in sordina pre-annunciano gli svolgimenti delle vicende, c’è un brano di Harry James intitolato I’ve heard the song before, cioè “questa canzone l’ho già sentita”. Un cartello che ci mette sull’avviso: questo è solamente un film, ma attenzione perché quella tragicommedia quotidiana che è la vita, a volte è più assurda di uno script televisivo. E il fatto che tutto ciò appaia privo di senso non è poi un gran male: la partita è ancora da giocare – sembra dire Woody Allen – e, se non la prendiamo troppo sul serio, ha diversi lati piacevoli. Proprio come una commedia, ma senza il solito “lieto fine”» (I. Franchi, “Cinema Nuovo” n. 302/303, agosto-ottobre 1986).
 
«Il riferimento cinematografico passa da occasione dispersiva a luogo di coagulazione: Hannah e le sue sorelle riscatta almeno in parte l’apparente bergmanismo della messa in scena grazie alla catartica visione conclusiva di Duck Soup, in cui “Allen ritrova il dio in cui crede”. L’alleniana idea di cinema si emancipa dal ruolo di divertita e divertente occasione optional (come è ancora il richiamo di Scandalo a Filadelfia in Radio Days […]), a tessuto di citazioni-funzioni che intervengono direttamente nel racconto e lo concludono o comunque aiutano i protagonisti, come i vecchi saggi delle fiabe proppiane» (G. Cremonini, in Omaggio a Woody Allen, “Garage”, giugno 1996).
 
«Woody Allen dichiara nel corso degli anni, in più occasioni (talora, con declinazione marxiana: “credo solo nel sesso e nel decesso”); e a questo convincimento di tolstoiana semplicità dedica per intero la perfezione romanzesca di Hannah e le sue sorelle» (P. Cristalli, in Omaggio a Woody Allen, “Garage”, giugno 1996).
 
«La scansione narrativa, come nel teatro di Brecht, è data da sedici didascalie. Quella temporale è data da tre feste del Giorno del Ringraziamento, nel giro di due anni, come il pranzo di Natale nel teatro di Thornton Wilder (Lungo pranzo di Natale, 1931). L’io dell’Autore si scinde in sei personaggi (Hannah, Elliot, Lee, Holly, Frederick, l’architetto) in opposizione tra loro, dove “uono dei personaggi diventa la proiezione dell’io dell’autoree gli altri diventano gli oggetti di questo io, cioè al rapporto drammatico si sostituisce un rapporto squisitamente epico e sulla scena appare, a poco a poco, la figura del narratore” (Cesare Cases, introduzione a P. Szondi, Teoria del dramma moderno, 1962)» (E. Ghirlanda, Woody Allen, Il Castoro, Milano, 1995).
  
«Magistrale […] nel descrivere vizi e virtù del suo mondo, autoironico e autobiografico come non mai, persino nei luoghi (la casa di Hannah è, nella realtà, la casa di Mia Farrow e i bambini che si muovono sul set sono i suoi figli adottivi), il regista newyorkese ha completamente smentito chi sostiene che nei suoi film non fa altro che accostare un gag all’altro. In Hannah e le sue sorelle c’è la perfetta sintonia delle storie che s’intrecciano e gli attori superano se stessi (Michael Caine, inaspettatamente, è l’alter ego di Allen e Max Von Sydow è più bravo qui che con Bergman). Tutto meraviglioso, invogliante più al sorriso che alla risata, un film dei nostri anni» (er.a., "Segnocinema” n. 24, settembre 1986).
 
«La riflessione filosofico-esistenziale, serissima, del regista Allen, che non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Bergman, si colora di spiccato umorismo nell’Allen attore. Allen regista esamina col bisturi del chirurgo d’anime ciò che Allen attore allevia con lo zenzero del paradosso, dando preciso spicco al lato buffo del banale quotidiano, quindi alla necessità, per poter continuare a vivere senza disperazione, di smorzare i drammi che troppo spesso ci attanagliano e avviliscono. […] Woody è al di sopra delle parti: è il nocciolo della questione, l’essere o non essere che turbava Shakespeare, altro classico non estraneo al Nostro: “…Essere o non essere: il dilemma è questo… morire, dormire… sognare, forse…”. Per Woody stavolta forse è meglio vivere» (F.C. Colombo, “L’Eco di Bergamo”, 4.6.1986).
 
«“È Woody Allen, però diverte poco”. A meno d’una settimana di distanza da quando il film fu presentato al Festival di Cannes fuori concorso, non possiamo permetterci il lusso di cambiare parere. Quasi isolati, perché la maggior parte della critica è andata in brodo di giuggiole, Hannah e le sue sorelle continua a sembrarci un film meno riuscito rispetto a Zelig, a Broadway Danny Rose, a La rosa purpurea del Cairo (e non risaliamo più indietro): vicino piuttosto a Interiors e alla Commedia sexy in una notte di mezza estate, scritti all’ombra di Bergman. Lo troviamo abbastanza curato nella descrizione dei caratteri, fotografato molto bene da Carlo Di Palma, fornito d’un buon commento musicale in cui predomina il jazz, e infiocchettato da qualche battuta memorabile, ma con due anime non integrate: quella del Woody Allen che si diverte a prendere in giro le proprie nevrosi e certi costumi della borghesia intellettuale newyorkese e quella del Woody Allen che si picca di far critica sociale descrivendo dall’interno i comportamenti di una generazione di mezzo simbolizzata da personaggi femminili. […] A parte lui, che non cessa di piacere, gli altri interpreti non brillano per qualità eccezionali, sebbene sia gradito il ritorno di Maureen O’ Sullivan, la Jane di Tarzan, anche nella vita madre di Mia Farrow. Probabilmente vogliamo troppo bene a Woody Allen, per i doni che ci ha fatto, perché ci si debba spellare le mani anche quando non è in stato di grazia» (G. Grazzini, “Corriere della Sera”, 23.5.1986).
 
«Ancora una volta a Woody Allen è riuscito di tramutare la profondità in frivolezza: è questo l’inimitabile brevetto della sua amabilità. Un’amabilità la cui cifra consiste nella mescola di grazia e toni beffardi, nella riduzione dell’angoscioso nocciolo primordiale dell’esistenza (chi siamo e dove andiamo) a gaia scienza di vita, a scetticismo garrulo e progressivo. […] In questo film non capita nulla che non sia prevedibile e capita tutto ciò che è insolito. […] Woody Allen, scrittore e regista sopraffino, si relega apparentemente a margine come protagonista, ma è chiaro che l’aedo e cantore è lui. È lui il passaparola, l’erogatore del senso, colui che mette alle corde la follia del vivere e le nevrosi con battute fulminanti. Battute diluite come quantità rispetto ai suoi precedenti film, ma sempre fulminanti. […] Alla qualità della vita non servono né la psicanalisi né la religione. Lo sconfortato Woody Allen trae motivo di vivere solo dal cinema: “Duck Soup” (Zuppa d’anatra) dei fratelli Marx visto per l’ennesima volta è un balsamo dell’animo, l’unica vera forma di marxismo possibile. Il sorriso yiddish si erge come unico scudo contro la scelleratezza di questo mondo. Protetto da queste minime certezze, Woody Allen scruta la vita, svela le piccole vigliaccherie delle convivenze, confessa le fisime, si scopre romantico, centellina il suo esprit de finesse agro ed esilarante. Ma la sua dote migliore è il dire tutte queste cose con quella confidenzialità per cui bastano mezze parole e sguardi furtivi per intenderci. E ci si intende perché si sta bene insieme, noi e lui, perché si è convinti di alcune verità fondamentali: che la ragione ha raschiato il fondo e che a questo punto non rimane che dar retta al cuore: “Il cuore – dice Woody Allen alla fine – è un piccolo muscolo elastico, eppure quanti sconquassi provoca”. Il cuore è anche il muscolo dell’ottimismo che con molta ironia chiude il film. Ottimismo legittimo, poiché dopo il disincanto, si può tornare a rivivere» (N. Dolfo, “Brescia Oggi”, 25.5.1986).
 
«“Virtù doppia ha il libretto, che fa ridere e che è sapiente, utile alla vita”. Questo dice il vecchio Fedro. Cambiando un po’ le cose, potrebbe dirlo anche Woody Allen. Sapienza e divertimento sono mescolati con raffinatezza in Hannah e le sue sorelle, film per chi sia troppo profondo per abituarsi alla vita, e insieme così splendidamente “leggero” da innamorarsene. “Il riso che nasce dalla disperazione – dice Allen a ‘Le Monde’ – mi interessa sempre di più”. Ma guai a credergli alla lettera. Lo spettatore che fosse tentato di farlo, alla fine troverebbe i suoi film troppo intellettualistici. Allen non è né Bergman né Kafka: la cosa è tanto ovvia, che solo un critico cinematografico può perderla di vista. Oppure uno spettatore troppo incline a delegare le proprie emozioni al critico. La disperazione di cui parla Woody è la cosa più normale, più diffusa e più certa che si conosca. È la disperazione delle piccole cose di tutti i giorni. Non ha nulla di eroico. A meno di considerare un atto di eroismo quello che ogni mattina compiamo, accettando di ricominciare da capo a sopportare noi stessi e la nostra banalissima storia. La disperazione di Woody non consente di scalare le vette o di scendere gli abissi della metafisica e della filosofia. E neppure ne conosce i poetici compiacimenti. Il suo cinema non frequenta le maiuscole: l’Uomo, la Felicità, la Vita. Frequenta piuttosto le minuscole, quelle stesse che, dimessamente, ognuno per conto proprio conosce. Anche se, per sua disgrazia, non le riconosce, come invece Woody. […] Dopo la “battuta di spirito” il mostro-disperazione ha perso gli artigli. Nel profondo resta ciò che era, ma per miracolo non fa più paura. La battuta di spirito è stata sempre la grande risorsa degli uomini sensibili e fragili, intelligenti e vulnerabili. Woody Allen – ebreo come Chaplin, come i fratelli Marx, come Jerry Lewis, come Mel Brooks, e come tanti altri – questo deve saperlo bene» (R. Escobar, “Il Sole 24 Ore”, 8.6.1986).
 
«New York non è solo un incubo: film come Hannah e le sue sorelle ne mostrano il lato incantatore, gli angoli più belli, l’affascinante atmosfera intellettuale. La partecipe fotografia a colori di Carlo di Palma esalta quest’approccio, trasformando Manhattan in mitico luogo narrativo. […] Armonico e pieno di grazia, lieve ma tutt’altro che superficiale Hannah e le sue sorelle è il segno di una maturità artistica assoluta di Allen. La complessa e profonda materia narrativa si struttura in modo pacato e scorrevole, donando allo spettatore il piacere completo dell’intelligenza. E come Mickey, che trova un motivo di vivere dalla visione di un film dei fratelli Marx, chissà che qualcuno non provi la stessa esperienza vedendo il grande Woody Allen» (L. Paini, “Il Sole 24 Ore”, 8.6.1986). 
 
«Un mixer più cecoviano che tolstoiano, ma comunque legato con affettuosa eccitazione alla tradizione del grande dibattito letterario ottocentesco sulla vita e la morte, il tempo che passa, la tristezza, l’esuberanza e l’inquietudine. […] Il film è costruito su di un movimento impercettibile che riesce – attraverso flashes allusivi e concentrici – a sfiorare temi fatidici e faziosamente universali come la passione e l’infantilismo, l’adulterio e le relazioni tra sorelle, l’arte, l’inconoscibile e la fede, la commedia, Bach, il rock e il jazz di Count Basie e Cole Porter…
Hannah, suddiviso in tanti capitoletti beffardamente sentenziosi, è stato leggermente danneggiato dall’enfasi eccessiva dei critici East Coast (di cui Allen è l’idolo, almeno quanto Spielberg è il baubau). Ci sembra solo un buon film – non all’altezza tuttavia di Io e Annie o Manhattan – che immette bagliori inquietanti in un insieme un tantino dilungato, soprattutto a causa di una sceneggiatura imperfetta.  […] La Farrow è bravina, come al solito, ma il ruolo è poco strutturato: così Woody Allen è quasi “costretto”, verso metà film, ad accentuare l’invadenza delle gag personali che finiscono con il monopolizzare l’attenzione e l’emozione dello spettatore. In compenso, le altre due attrici sono tratteggiate con più pertinenza e possono esibirsi in eccellenti performances di alto stampo teatrale. La delusione, va da sé, resta di retrogusto: come al solito Allen calibra in souplesse l’“azione” del dialogo, dimostrandosi puntuale e maestro nel captare atmosfere, battute, particolari del gergo intellettuale» (V. Caprara, “Il Mattino”, 19.5.1986).
 
«Romantico, filosofo del quotidiano, malato immaginario, sentimentale, timido e tormentato: così abbiamo imparato a conoscere e amare Woody Allen e così ritroviamo il geniale autore – interprete americano nel suo ultimo film Hannah e le sue sorelle. […] Una grande saga familiare tutta al femminile, dunque, con tre sorelle come in Interiors, disegnata con estrema semplicità, con profonde intuizioni, con sorprendente bravura, pudore e ironia. Una storia delicata, piena di humour e di malinconia, di piccole e grandi verità, di cose di tutti i giorni che però hanno l’impronta dell’universalità. Le tre sorelle sono l’idealizzazione della donna: la madre e l’amante e lo spirito di libertà» (V. Spiga, “Il Resto del Carlino”, 25.5.1986).
 
«Hannah e le sue sorelle […] è un film di spiccata carica emotiva, di elegante soluzione formale, di forte tensione intellettuale. Si piange, si ride, si avverte il profumo dell’amore e della meschinità, aleggiano la forza della morte e l’inconsistenza di Dio, risaltano le insicurezze delle persone apparentemente forti e sicure e la risolutezza delle persone apparentemente deboli e incerte, si sente la musica confondersi con la poesia e il fango del comportamento umano, si assiste alla fine degli intellettuali sprezzanti e chiusi nelle torri d’avorio, si vivono angosciate crisi esistenziali e soavi storie d’amore, si tocca con mano la solitudine, la rabbia, i rimpianti, la dolcezza della vecchiaia. […] In Hannah e le sue sorelle Allen recupera i suoi requisiti: leggerezza del tocco, la fine ironia, la spigolatura metropolitana e li innesta in una struttura di forte stampo bergmaniano. Il punto di riferimento è evidentemente Fanny e Alexander. […] In Hannah e le sue sorelle la musica riveste il ruolo che nella tragedia greca era appannaggio del coro, ovvero commento e, talvolta, partecipazione diretta all’azione. È come se, quadro dopo quadro, l’ascolto musicale invece di fungere da elegante, colto e raffinato accompagnamento, commentasse, valutasse, s’interrogasse sugli avvenimenti appena narrati» (P. Zagari, Io, Woody Allen, Dedalo, Bari, 1993).


Scheda a cura di
Giusy Cutrì

Persone / Istituzioni
Carlo Di Palma
Barbara Hershey
Michael Caine
Mia Farrow
Woody Allen
Dianne Wiest
Carrie Fisher
Max von Sydow


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