Visto censura n. 1462 del 1.12.1913, 2.600 metri.
Il film appartiene alla «Serie Teatrale» della Film Artistica “Gloria”.
Fu distribuito in Francia, Spagna e negli Stati Uniti; la versione statunitense era lunga 6 reels.
La pellicola segna il debutto cinematografico della “diva” teatrale Lyda Borelli, che ottenne un enorme successo di critica e pubblico.
Ettore Petrolini, che nel 1921 aveva già preso di mira Mario Bonnard nella famosa canzone Gastone, scrisse e rese popolare qualche anno dopo una nuova canzone satirica, intitolata Ma l’amor mio non muore!
Copia conservata presso: Cinémathèque Royale (Bruxelles); Cineteca Italiana (Milano); Museum of Modern Art (New York).
Una copia restaurata del film della durata di 78 minuti (35mm, 1450 m) è stata proiettata nel 1993 alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone in anteprima mondiale, con didascalie in italiano e accompagnamento al pianoforte del Maestro Gabriel Thibaudeau (velocità: 16 f/s). Provenienza: Cineteca Italiana (Milano).
Un frammento del film di 10 minuti (35mm) è stato proiettato nel 1994 al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, con accompagnamento al pianoforte del Maestro Arturo Annechino. Provenienza: Cineteca Nazionale (Roma).
«Le grandi films da teatro. La Films Artistica “Gloria” pubblicherà prossimamente un secondo capolavoro cinematografico dal titolo: Ma l’amor mio non muore di L. Bonetti e G. Monglone [sic] Interpretato dall’artista Lyda Borelli ed inscenato da Mario Caserini. Dopo il clamoroso, delirante successo ottenuto in tutto il mondo dalla brillantissima commedia Florette e Patapon, con questo secondo lavoro, vero colosso di interpretazione, di messa in scena e di grandiosità senza pari, l’insuperabile Mario Caserini ci dimostra nuovamente di essere un grande artista italiano» (“Cinema”, a.III, n. 62, 25 ottobre 1913).
«Alla Borsa [...] abbiamo avuto per una settimana un’altra novità della Gloria, Ma l’amor mio non muore, interpretata dalla Lyda Borelli. Indovinatissimo è stato alla première di questa film l’applauso indirizzato da Camillo De Riso all’attore Chiesa dello stabilimento Ambrosio, per la sua interpretazione della Lampada della nonna, applauso al quale fecero eco tutti i presenti, mentre il Chiesa ringraziava stupito e commosso. Dell’interpretazione della Borelli non possiamo dire che bene: l’insigne artista è stata pel cinematografo l’eguale regina del palcoscenico, benché sia preferibile nelle scene d’azione che nei momenti in cui deve estrinsecare i vari sentimenti che l’agitano. Ottimo come sempre il De Riso nella parte di impresario teatrale: troppo veemente e scalmanato il Bonnard, che persiste nella pessima abitudine di esagerare nell’uso dei belletti, i quali danno alla sua fisonomia un non so che di spettrale, che stona assai. Lodevolissima la messa in scena, curata in tutti i particolari» (E. Geymonat, “Cinema”, a.III, n. 62, 25 ottobre 1913).
«A una interprete col talento della Borelli non serve altro per questo ruolo che la sua personalità» (“Kinematographische Rundschau” n. 300, 7 dicembre 1913).
«Cinema Splendor. La ripresa di questo film, dopo che la tecnica cinematografica ha avuto notevoli sviluppi, ci richiama a forme e motivi superati ma pure sempre di grande valore e importanza. Il metodo di concatenazione dei quadri, contenuti in una soggettistica serrata e ferma, le accentuazioni espressive, l'impostazione pittorica dei quadri, e la distribuzione della luce, ci dimostrano tutta l'attenzione posta dai compositori italiani per l'elevazione di questa arte e la sua affermazione nel campo internazionale. È vero che manca l'innovazione dei dettagli così cari ad alcune film moderne e cosi utile per far rifulgere le virtuosità della Lyda Borelli, mancano pure alcune preziosità stilistiche che avrebbero reso l'opera più originale ma in complesso si presenta organica, unita, forte nel rilievi e delicata nelle mezze tinte, cosi da giungere ancora gradita ai nostri occhi dissueti da certe forme ed espressioni. Questa ripresa se può dar motivo ai critici di confronti e giudizi, non è indifferente al pubblico che conserva sempre i suoi favori e le sue preferenze a artisti e forme d'arte a lui gradite. Perciò buon concorso di pubblico» (Gulliver, “La Rivista Cinematografica”, a. VI, n. 12, 30 giugno 1925).
«Il ritrovamento di questo frammento può avere una straordinaria importanza: infatti, dei primissimi film della Borelli sono sopravvissuti soltanto i negativi originali, senza didascalie e senza i cromatismi che all'epoca venivano eseguiti sulle copie positive. Ma l'amor mio non muore è stato presentato l'anno passato dalla Cineteca Italiana di Milano alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. La copia era completa, con una grande qualità fotografica, ma con poche didascalie, non originali. Per questo il ritrovamento, anche se solo del primo rullo, può permettere di capire meglio la costruzione del film, la successione delle immagini e delle didascalie, il testo di queste ultime, le scelte cromatiche operate per la realizzazione di quest'opera chiave del cinema muto italiano» (Catalogo del Festival del Cinema Ritrovato, Bologna, Cineteca del Comune di Bologna, 1994).
«Lungo tutto il periodo della prima guerra mondiale - e ancora per qualche tempo negli anni del primo dopoguerra - i pubblici italiani e quelli di molti altri paesi del mondo saranno interamente prostrati in adorazione di Bertini e Borelli e di tutte le altre Dive che fanno loro da contorno. Sarà Petrolini, con una sua famosa canzone, a lanciare il primo sasso in direzione della Borelli:
Tutto muore quaggiù! Muore l’istinto,
muore il cane, il cavallo ed il cammello
muore il rospo, la pecora e il capretto
muore il pesce, il mammifero, l’uccello,
muore la pianta, la radice, il fiore...
ma l’amor mio, ma l’amor mio non muore!
Poco più di una quindicina d’anni dopo i figli degli stessi spettatori che avevano disperatamente pianto vedendo Ma l’amor mio non muore! di fronte alla recitazione della Borelli in una sciagurata versione sonorizzata e accelerata "si tengono la pancia dal gran ridere" [...] "e dove più c’era da piangere più il pubblico rideva", come spietatamente ci racconta Antonio Baldini. Questi spettatori forse in gran parte vestiti in orbace sembrano ben felici di vivere in tempi che sembrano lontanissimi e privi di alcun rapporto con quel mondo. Forse è questa reazione iconoclastica diffusa, questa dissacrazione nata semplicemente dalla cesura storica e dall’incapacità di capire le diversità dei modelli culturali, che ha fatto desiderare al cinema muto l’uscita dalla memoria e ha spinto le Dive a un lungo, dignitoso e orgoglioso silenzio. O meglio a una vera e propria seconda morte apparente, da cui però si spera che i pubblici odierni e quelli delle successive generazioni vogliano continuare a strapparle, per ammirarle ancora nelle loro luci e nei colori ritrovati e più di tutto nella loro aura e nel loro fascino misterioso, ormai lontano e tuttavia così familiare» (G.P. Brunetta, “Fotogenia” n. 4/5, Bologna, Edizioni CLUEB, 1999).