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«[…] io ritengo che chi fa il cinematografo deve essere in malafede e in malafede bisogna fare le cose patetiche… […] Però nella mia carriera ho fatto di tutto, perché sono passato, non so, da La damigella di Bard con la vecchietta che inzuppava un biscotto che era l’ultimo della scatola, ai film comici e a film persino spregiudicati» (Mario Mattoli, in Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta, Bulzoni, Roma, 1979).
Il singolare equilibrio di La damigella di Bard si affida quasi per intero alla struggente armonia che unisce due protagonisti d’eccezione: da un lato Emma Gramatica, dall’altro il palazzo della contessina di Bard. Emma Gramatica, una delle più grandi attrici del teatro italiano del primo Novecento, trasforma una potenziale caricatura della Nonna Speranza di Gozzano in un personaggio sensibilissimo, temprato dall’orgoglio nobiliare ma al tempo stesso pervaso dalla serena e disincantata accettazione di un declino epocale. Il palazzo dei Bard è invece il potente Leitmotiv spaziale che attraversa indenne le alterne vicende della Storia, dal declino dell’antica aristocrazia sabauda all’arrivismo della nuova borghesia. Nella geografia inventata di un set diviso tra Torino e gli studi Cines di Roma (per alcuni interni d’epoca torinesi si utilizza il romano palazzo Brancaccio), questo palazzo nobiliare è situato nel film nell’elegante e composta piazza Maria Teresa, sul lato di via della Rocca, una zona tipicamente ottocentesca, già quartiere residenziale della nobiltà sabauda. L’edificio del film nasce dunque dalla fusione tra gli interni romani e gli esterni di uno dei palazzi privati più belli della città, situato non in piazza Maria Teresa ma nella centrale via Carlo Alberto, il palazzo Birago di Borgaro, ora Della Valle (in un’inquadratura è ben visibile l’elegantissimo atrio con la volta a vela, oltre il quale si apre il cortile, chiuso prospetticamente sul fondo da una figura muliebre che tiene sulle spalle un’anfora, chiusa in una grande nicchia). Un alto grado di signorilità e la semplicità dei mezzi sembrano costituire la strategia che unisce l’eleganza di questo palazzo torinese e la regia di Mattoli, «di una correttezza veramente delicata ed armoniosa» (come nota un critico del “Giornale d’Italia”).
Attraverso un sapiente gioco di ellissi ben governato dalla regia di Mattoli, La damigella di Bard scivola con rapidità ma senza traumi dal cuore del Risorgimento subalpino alla Torino prefascista (non è un caso che una delle poche date citate espressamente nel film sia il 1921). Il dialogo tra il vecchio Piemonte e la nuova Italia è condotto (come nel coevo Cavalleria di Alessandrini, sempre prodotto dall’Ici, girato in parte a Torino e sceneggiato proprio da Gotta) sul filo addolcito del ricordo: il XIX secolo di La damigella di Bard non è tanto quello messo in scena “al presente” con tocchi lievi ed eleganti nel prologo (quando il giovane Nigra chiede vanamente al Conte di Bard la mano della figlia); si tratta piuttosto di un Ottocento tutto interiore (che a tratti emerge dal teatro della memoria nel quale abita la damigella, per trasformarsi in inquadratura, come nell’inconsueto, velocissimo flashback che rievoca il successo della gavotta nei salotti piemontesi, resuscitando per associazione quella celebre “ora antica torinese” tanto amata e ironizzata da Gozzano).
L’Ottocento torinese si colora di sfumature crepuscolari e con Salvator Gotta il tono non poteva essere molto diverso. Gotta, che è anche il cosceneggiatore di Addio, giovinezza!, ha dedicato non poche pagine della sua copiosa produzione alla Torino ottocentesca (in particolare con la famosa saga dei Vela). L’Ottocento di Gotta-Mattoli è tutto chiuso nel piccolo scrigno delle lettere di Nigra, il grande amore della contessina, mai vissuto: quello scrigno, conservato gelosamente dalla damigella, diventa così il custode di tutte le rose non colte, di «tutte le cose», come scrive Gozzano, «che potevano essere e non sono state». La Torino ottocentesca si conferma come un luogo dell’immaginario nazionale: l’espressione della giovinezza (dove si intrecciano tempeste amorose e politiche), il cantuccio dove gli amori non finiscono mai perché non sono mai stati consumati.
«La damigella di Bard denuncia anche la passione mattoliana per il teatro nella scelta di un mostro sacro come Emma Gramatica, qui servita da una regia mossa, “francese”, come notarono alcuni critici dell’epoca. È una sorta di sfida alla Cines […] perché Mattoli ricorda bene lo scetticismo dell’avvocato Besozzi ogni qual volta gli proponevano attori di teatro. […] Nel cast si distingue un Luigi Pavese che si avvia a grandi passi verso quelle caratterizzazioni negative cui Mattoli lo chiamerà spesso in futuro» (S. Della Casa, Mario Mattoli, La Nuova Italia, Firenze, 1989).
La critica dell’epoca apprezzò il film soprattutto per l’interpretazione memorabile della Gramatica, anche se «l’arte minuziosa, capillare, da scrittura cinese e da miniatura» (“Illustrazione italiana”, 18.10.1936) non è una rivelazione, perché la grande attrice aveva già portato più volte la pièce di Gotta sulla scena teatrale. E ancora: «il film offre il destro ad Emma Gramatica per una delle sue più belle interpretazioni: la grande artista ha modo di esprimere tutta la sua personalità sensibilissima, profondendovi le sue risorse squisite e le sue doti singolarissime, creando un personaggio d’una umanità delicatissima» (O. Bernardelli, “Il Messaggero”, 3.9.936).
«Ad un film di Emma Grammatica si sa sempre cosa chiedere: l’arte di Emma Grammatica. Ed a tali richieste La damigella di Bard risponde con abbondanza generosa. […] Questa intensa, commovente dedizione […] è divenuta l’anima stessa di questo suo ultimo film […] Un lungo, virtuosistico “a solo” della Grammatica: ecco tutto. E reso patetico da una lontana, quasi impercettibile sfumatura autobiografica, che permette all’attrice di sposare con una sorta di affinità commovente la parte della vecchia signorina di sangue illustre e gentile» (Anonimo, “Cinema”, n. 8, 25.10.1936).
Più severa è invece la valutazione sul complesso dell’operazione: si rimprovera a Mattoli di non aver saputo lavorare a fondo, con il dovuto coraggio, su una «certa poesia sentimentale della vecchia Torino», che rimane ancora, nella parole di un critico dell’epoca, «un tema intatto, almeno per lo schermo» (Anonimo, “Cinema”, 25.10.1936). Ricorrente è comunque l’apprezzamento per gli esterni torinesi, «ariosi e ben scorciati», come appunta un critico attento e un affezionato conoscitore di Torino come Mario Gromo (“La Stampa”, 3.10.1936).