Altri titoli: The Duchess of Parma
Regia Alessandro Blasetti
Soggetto Alessandro Blasetti
Sceneggiatura Gherardo Gherardi, Libero Solaroli, Mario Soldati, Aldo De Benedetti, Alessandro Blasetti
Fotografia Otello Martelli
Operatore Tino Santoni
Musica originale Amedeo Escobar, Giovanni Fusco, Felice Montagnini
Suono Giovanni Canavero
Montaggio Ignazio Ferronetti
Scenografia Enrico Paulucci
Arredamento Gino Brosio, Valentino Brosio
Costumi Casa d’arte Mattè
Aiuto regia Mario Soldati, Pier Luigi Faraldo
Interpreti Elisa Cegani (Marcella), Antonio Centa (Gino Vanni), Umberto Melnati (Carrani, direttore dell'atelier Printemps), Maria Denis (Adriana), Ugo Ceseri (Marco), Osvaldo Valenti (duca di Satta), Nunzio Filogamo (duca di Sebasta), Pina Gallini (Marta Rossi), Giannina Chiantoni (sarta), Mario Lembo (tassista), Marichetta Stoppa (guardarobiera), Pina Valli (indossatrice), Mirica Albis (indossatrice), Felice Placido Borel e altri giocatori della Juventus
Direttore di produzione stripslashes(Angelo Besozzi)
Produttore esecutivo Roberto Dandi
Produzione I.C.I., Artisti Associati
Distribuzione Artisti Associati
Note Canzoni: Felice Montanini; pellicce: Giuseppe Viscardi.
Locations: Torino (ippodromo di Mirafiori, Parco del Valentino, Stadio, Porta Nuova, corso Agnelli, via Viotti e altre strade cittadine), Val di Susa (il lago di Avigliana), Sestriere.
Sinossi
Una casa di mode torinese, per mostrare i suoi modelli, introduce negli ambienti mondani le sue modelle. Una di queste, Marcella, che indossa un abito chiamato “Contessa di Parma”, viene scambiata per una nobildonna da un giocatore della Nazionale di calcio, Gino Vanni, che se ne innamora. La zia del giovanotto, la volitiva Marta Rossi, diviene proprietaria della casa di mode e protegge la fanciulla senza sapere che il nipote ne è innamorato. L’idillio tra i due prosegue tra equivoci e litigi, fino al chiarimento finale durante un défilé al Sestriere.
Dichiarazioni
«Contessa di Parma è tutto poggiato sulla spigliatezza del dialogo, sulla vivacità della recitazione, sul ritmo delle diverse sequenze, proprio come i suddetti film [Accadde una notte, È arrivata la felicità, Desiderio]. Raccontare una vicenda semplice e non noiosa, cercando di divertire e di far ridere un po', senza scendere a effetti plateali e senza dare l'impressione di aver raffazzonato e precipitato in economie quel che il pubblico paga, sempre con lo stesso denaro: questa è stata, ritengo, la maggiore ambizione dei realizzatori di Desiderio, di È arrivata la felicità e di Accadde una notte. Questa è stata, sempre a parte l'immodestia, la mia ambizione. […] Mi fu dato Soldati. Sì, anzi lo cercai io. Cioè avevamo avuto un incontro polemico. Lui mi aveva detto che io avevo sempre vissuto in un baule e allora gli dissi per piacere di portarmi un po' in giro per il mondo insieme a lui. E feci affettuosissimamente questa sceneggiatura con lui avendone un contributo di spirito, di gusto tutt'altro che trascurabile. […] Io avevo assolutamente bisogno di lavorare, quindi proposi questo film di telefoni bianchi pressapoco per avere un lavoro. Basta. […] È con Retroscena, il più cretino dei film che ho fatto. Vi ho sperimentato le mie capacità umoristiche che avrei realizzato in seguito»
(A. Blasetti, “Cinema”, n. 17, 10.3.1937; in F. Savio, Cinecittà anni Trenta, Bulzoni, Roma, 1979; in AA.VV., Materiali sul cinema italiano, Quaderno Informativo n. 63, Undicesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 1975).
«Abbiamo fatto questo film nella vecchia Fert. C'erano ancora dei grossi magazzini pieni di tesori, di cose false. C'era di tutto. Un vero divertimento. E noi andavamo giù a pescare; mi ricordo che ho chiamato ad aiutarmi nelle scenografie i due fratelli Brosio. Val(entino) Brosio e Gino Brosio. […] Durante la Contessa di Parma avevo costruito un palcoscenico girevole (per la sfilata di moda). Sotto c'erano degli operai che facevano girare l'apparecchio. A un certo momento cerchiamo Soldati... eravamo in ritardo perché c'erano i produttori del film che mangiavano il caviale con le ragazzette lì... dovevamo aspettare perché avevano mandato in giro il trovarobe a cercare champagne, non so, il caviale e dovevamo aspettare. Cerchiamo Soldati. Cerca Soldati, cerca Soldati, dov'è Soldati? Soldati era finito sotto il palcoscenico, insieme agli operai, con dei fiaschi di vino, per far girare la piattaforma. Soldati era straordinario» (E. Paulucci, “Immagine. Note di Storia del Cinema”, Nuova Serie, n. 19, Inverno 1991-92).
Negli anni Trenta Blasetti era senza dubbio la più importate personalità del cinema italiano, in quanto attivo sia nel campo della critica, sia in quello della politica culturale, sia in quello della prassi registica, dimostrando sempre entusiasmo, passione e competenza. Stimato in quell’epoca più per le sue opere d’argomento storico che per le commedie, egli ha talvolta assunto come modelli di messa in scena i film di Lubitsch, Cukor e Capra: il suo obiettivo era quello di inaugurare nel nostro panorama cinematografico il filone della “commedia sofisticata”, che gli americani avevano già portato a livelli di perfezione.
Contessa di Parma dimostra oggi innegabili qualità stilistiche e formali, benché Blasetti (come si legge sopra) lo abbia definito “cretino”, forse solo per designare una commediola leggera, evasiva, priva di quell’ “impegno” politico e sociale che caratterizzava le sue opere più importanti e acclamate. Ma la costruzione drammaturgia della messinscena, la sottile ironia che pone la materia narrativa alla “giusta distanza” dallo spettatore sono tuttora gustosamente accettabili.
Gli esterni di Contessa di Parma sono stati girati in vari luoghi di Torino e del Piemonte, con felice riproduzione della realtà locale; il film inoltre si propone come rara testimonianza del mondo dell’alta moda del tempo, riprodotto con verosimiglianza, acutezza e una sottile vena ironica. Anche il mondo del calcio viene presentato con alcuni rapidi e felici notazioni: il personaggio di Gino Vanni ricalca il calciatore della Juventus Felice Placido Borel, detto “Farfallino”, noto non solo come campione sportivo, ma anche come assiduo frequentatore di ritrovi mondani.
Per quanto la storiella sia esile e banale, la sceneggiatura è costruita in modo solido e coerente, anche grazie all’apporto di Mario Soldati. Gli attori sono amalgamati in maniera perfetta: Elisa Cegani è sicura e spigliata nel suo primo ruolo da protagonista, Maria Denis affronta il suo esordio cinematografico con grazia e compostezza, Antonio Centa è legnoso e impacciato come richiesto dalla parte, Melnati e Filogamo interpretano gustose parodie dei loro abituali personaggi di gagà. «Tanto poetico e rispettoso è il regista con la coppia Cegani-Centa, tanto è scatenato con i ritmi da pochade che caratterizzano la vita dell\'atelier, con i suoi pettegolezzi, le sue permalosità, i suoi intrighi» (M. Scaglione, in S. Della Casa, F. Prono, a cura, Contessa di Parma. Modernità negli anni Trenta a Torino, Fondazione Archivi del 900, Roma, 2006).
Altro elemento fondamentale è la sontuosa e quasi astratta scenografia curata dal pittore Enrico Paulucci, il noto esponente del gruppo dei Sei di Torino, il quale disegna anche i magnifici cartelli dei titoli di testa, ove gli edifici cittadini diventano puri segni grafici, mentre i nomi del cast tecnico ed artistico si trasformano in pubblicità luminosa: la realtà concreta diviene dunque rappresentazione. Questa è la giusta introduzione al film e anticipa perfettamente la prima sequenza, ambientata nella bianchissima, evanescente casa di mode. Le scenografie in cui si muovono i personaggi paiono create a loro dismisura, tanto sontuose da essere adeguate soltanto ad «un’aristocrazia fiabesca, come quella sognata dai ceti popolari italiani dell’epoca; il gusto déco del cinema fascista viene qui decisamente traslato […] verso il “calligrafismo”, verso l’ornato, il sofisticato, il ricercato, l’artificioso, il falso, appunto» (C. Simonigh, Ibidem).
I personaggi sembrano evanescenti, indossano maschere che li qualificano socialmente in modo ingannevole; il denaro stabilisce continuamente il vero ruolo di ognuno, esso è in qualche modo il vero protagonista perché avvicina e allontana i personaggi, li fa agire, controlla i meccanismi della vicenda. Tutti (tranne la ricca zia Marta) fingono, si muovono in un ambiente falso, in una realtà che è solo apparenza, per cui «uno degli elementi più rilevanti è quello della rappresentazione della rappresentazione, un fattore indiscusso della modernità e dei mutamenti che vi sono connessi» (G.P. Caprettini, Ibidem).
La sfilata di moda, in quanto rappresentazione nella rappresentazione, è l’emblema della teatralizzazione della vita, della riduzione del mondo a pura apparenza. «Alla fine, lui e lei, durante i fasti del Sestriere, si ritroveranno sposi: perché in passerella, come al cinema, la massima illusione a volte afferra, a volte indovina, la massima verità del mondo. Sembrerebbe uno dei classici dispositivi da vaudeville. Ed è vero: ma in questo quanta meraviglia» (A. Colasanti, Ibidem).
Blasetti utilizza in modo appropriato inquadrature e movimenti di macchina e mette in scena lo spettacolo cinematografico come su un palcoscenico, osservando spesso i personaggi frontalmente, ritraendoli attraverso vetri o riflessi in specchi. Una luce intensa, brillante, ai limiti della sovraesposizione, caratterizza la visione irreale e falsa di una società che finge ricchezza e gioia di vivere, ma rivela una grave crisi di identità ed un profondo bisogno di rinnovamento.
Perfettamente inserita in questa logica è anche la colonna sonora (affidata ad Amedeo Escobar, Felice Montagnini e il grande Giovanni Fusco) che opera un «raffinato accostamento fra il materiale sonoro – di estrazione popolare ma nobilitato dalla qualità della strumentazione e dalla proprietà degli interventi – ed i profili dei personaggi principali (in special modo della protagonista). La colonna sonora è proprio come lei: talvolta recita, finge con classe e misura (ed anche con una certa timidezza) di appartenere al mondo colto, ed indossa le immagini e la vicenda perfettamente» (L. Giachino, Ibidem).
«La piccola metropoli italiana mostra al suo interno i nuovi spazi della modernità, i luoghi in cui si svolge la vita mondana dell’alta società e si muovono i cinici fautori di un progresso inarrestabile e benefico. Blasetti esalta quest’idea di modernità per negarla immediatamente; da un lato la utilizza per mettere in luce la mistificazione attuata da un mondo che ricorre ad inganni e mascheramenti per nascondere la crisi profonda vissuta in un momento di transizione da società contadina a società industriale, dall’altro lato conferma quali valori sociali fondamentali il matrimonio, la famiglia, il buon senso piccolo borghese. La modernità dunque “preme” con le sue affascinanti lusinghe metropolitane, ma alla fine trionfa la tradizionale ideologia conservatrice, con i suoi codici e modelli di comportamento. I sogni, le aspirazioni, i desideri rimangono inappagati, non possono realizzarsi in un ordine sociale a cui viene imposta l’immobilità» (F. Prono, Ibidem).
Al centro del film si pone dunque «una domanda forte: come si sta rinnovando la scena sociale a partire dalle pressioni esercitate dal moderno? È possibile conciliare le sollecitazioni che giungono dai richiami alla modernità nell\'Italia fascista (il cosmopolitismo, ecc.) con i valori della "genuinità" propri della tradizione italiana?» (R. Eugeni, Ibidem).
La risposta è negativa: negli anni Trenta la miseria in cui vivono tanti Italiani rende inattuale l’ipotesi di un rinnovamento che ha un senso soltanto come progetto. «E questo progetto si realizzerà in un contesto totalmente diverso, che è quello della democrazia, in un mondo in cui non ci sarà più il totalitarismo. […] Le caratteristiche essenziali di questo progetto nascono negli anni Trenta e questo film ci mostra nitidamente nella sua gestazione, nella sua genesi, questo progetto di “fare gli italiani” all’interno del quale l’elemento determinante non sarà più l’ideologia tradizionale ma il consumo, il mercato» (G. De Luna, Ibidem).
Scheda a cura di Franco Prono
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