Regia Vittorio de Seta
Soggetto Vittorio De Seta
Sceneggiatura Vittorio De Seta
Fotografia Antonio Grambone
Operatore Mauro Calanca, Luciano Federici, Alessandro Filippucci
Musica originale Mario Tronco, Orchestra di Piazza Vittorio
Musiche di repertorio W.A. Mozart, Laura Inserra
Suono Gianluca Costamagna, Luca Bertolin
Montaggio Marzia Mete
Scenografia Fiorella Cicolini
Costumi Fabio Angelotti
Trucco Edi Rossello, Nadia Ferrari
Aiuto regia Michele Banzato, Valerio Valente
Interpreti Djibril Kébé (Assane), Paola Aimone Rondo (Caterina), Madawass Kébé (Makhtar), Thierno Ndiaye (maestro), Luca Francesco Barbeni (Luca), Fifi Cisse (Salimata), Stefano Saccotelli (don Sandro), Ndeye Thiaba Diop (sorella), Awa Mbaye (madre), Cheikh Fall (Ibu), Roberta Fornier (Antonella), Luciano Cravino (medico), Rasmane Bayere (Safil), Diego Casale (Rocco), Carlos M. Mendes de Sousa (Sylla)
Casting Jorgelina De Petris, Michele Banzato
Direttore di produzione Katia Franco, Renato Faust, Tina Pistoia, Michele Banzato, Abdou Ndaye
Ispettore di produzione Enrico De Lotto, Giovanni Ledda, Giovanni Iacobis, Federico Fusco, Sandra Cristofanilli
Produttore esecutivo Agnese Fontana
Produzione Donatella Palermo per A.S.P. e Metafilm
Distribuzione Istituto Luce
Note Assistente operatore: Claudio Cofrancesco; fotografo di scena: Gianni Fiorito; suono in presa diretta Dolby Digital; microfonisti: Vito Martinelli, Massimiliano Trevisan, Alioune Sica Mbow; montaggio del suono: Lilio Rosato; montaggio effetti sonori: Piergiorgio De Luca; consulenza scenografica per l’Africa: Lorenzo De Seta; scenografo per l’Africa: Picasso Ndiaye Moustapha; assistenti scenografi: Gretel Fatibene, Andrea Pitet; assistenti costumisti: Angelo Porretti, Caterina Micheli; assistenti al montaggio: Chiara Russo, Alberto Ruffino, Danilo Torre, Cristina Sardo, Cinzia Benetazzo, Maria Fantastica Valmori; parrucchiera: Alessandra Conti; assistente alla regia: Gaia Chiara Russo Frattasi, Bruno Oliviero, Giuseppe Del Volgo; altri interpreti: Samoura Karfalla (Papa Diouf), Corrado Denegri (musicista), Milko Cardinale (ragazzo), Carmen Panarello (ragazza castana), Maria Uttilla (ragazza scura), Moumar Talla Dia (Maurice); direzione doppiaggio: Yuri Bedini; stunt coordinator: Arnaldo dell’Acqua; collaborazione al casting: Guido Colla, Clara Clemente; supervisione post produzione: Franco Casellato; segretari di produzione: Gaetano Santangelo, Maura Cuda, Sara Busto, Pamela Maddaleno, Salvatore Milano; organizzazione: Katia Franco, Renato Faust, Tina Pistoia, Abdou Ndiaye, Michele Banzato; amministrazione: Maria Ludovica Bologna, Concetta Pistoia
Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale Cinema, con la collaborazione di Film Commission Torino Piemonte e con il patrocinio del Comune di Firenze.
Locations: Lampedusa, Porto Empedocle, Villa Literno, Roma, Prato, Torino (Porta Nuova, piazza Vittorio Veneto, Lungopo, Porta Palazzo, piazza Castello, via Garibaldi, piazza Carlo Felice, Palazzina di caccia di Stupinigi, Docks Dora, Aeroporto di Caselle, ecc.) Senegal (Dakar, Cap Skirring).
Premio Città di Roma alla Biennale di Venezia 2006; Prêmio Humanidade al Sao Paulo International Film Festival 2006.
Sinossi
Assan è un senegalese naufrago sull'isola di Lampedusa. In meno di sei mesi risale l'Italia passando per Napoli, Prato e Torino, cambiando di volta in volta lavoro. Quando finalmente riesce a ottenere il permesso di soggiorno, viene quasi linciato in una rissa fuori da una discoteca ed entra in crisi. Decide allora di tornare a Cap Skiring, in Senegal, e una volta tornato al suo villaggio, di fronte alle insistenze del suo vecchio maestro, racconta la sua esperienza.
Dichiarazioni
«Io sono un evoluzionista. Non credo nel film in testa al regista. Credo in quello che nasce strada facendo. E nell’obbligo morale di dire la verità, anche adesso che cinema e tv si muovono su un piano virtuale. Per me il tempo delle cinematografie nazionali è passato: dobbiamo abbattere gli seccati e fare opere multiculturali. Aprirci, ascoltare, comprendere. Se ci chiudiamo siamo finiti. La salvezza può venirci solo agli stranieri» (V. De Seta, “La Stampa”, 1.9.2006).
«Se dovessi fare un altro film, potrei al limite rinunciare al direttore della fotografia, ma servono tre bravi operatori di macchina. Poi si mettono insieme quelle quattro luci, che ormai sono davvero quattro: noi abbiamo usato al massimo due kilowatt, due kilowatt e mezzo. Avevamo un camion di ventisette kilowatt che non ci è servito a niente. Con il senno di poi, avremmo dovuto prendere una troupe televisiva, gente che lavora con queste macchine tutti i giorni. Il digitale è sempre stato denigrato anche perché a fare la fotografia in pellicola sono i grossi operatori, che quindi la fanno bene; anche da ciò nasce la favola per cui "la pellicola è un'altra cosa". Ma se stampi in pellicola l'arte la conservi comunque. Pensa che noi siamo intervenuti praticamente su ogni inquadratura: puoi rifare il quadro, per esempio, ingrandendolo, come una volta si riquadravano le fotografie; puoi accelerare, rallentare, voltare gli sguardi. Poi, una volta che hai fatto tutte queste cose, non puoi più partire dalla pellicola, devi partire dal master digitale. E allora tanto vale girare in digitale. I vantaggi superano di molto gli svantaggi. [...] Considera che tutto il cinema è pre-impressionista. L'impressionismo aveva la grana grossa. Il cinema è ancora a Corot, a David. Poi ci sono stati Van Gogh, il divisionismo...» (V. De Seta, “Cineforum” n. 458, 8.10.2006).
«[…] in definitiva, Lettere dal Sahara appare soprattutto un modello produttivo e "di metodo" per molti giovani registi che abbiano voglia e curiosità di guardarsi intorno, interrogandosi sul cosa, il perché e il come filmare. E allora bisognerà vedere da vicino questa lezione di libertà e di metodo, che alla fine lascia sconsolati sulle possibilità del nostro cinema. Già la vicenda produttiva del film, la cui lavorazione è iniziata nel 2001 e si è conclusa cinque anni dopo, è travagliatissima, e legata per lo più alla sua inclassificabilità nel panorama italiano, alla sua quasi impossibile gestione e collocazione in un sistema pseudomanageriale, e che tende a privilegiare prodotti e "format" che non azzardino troppo in senso estetico e produttivo. […] De Seta ha girato quasi senza sceneggiatura, accumulando una quantità di materiale enorme (75 ore di girato); di conseguenza, gli bastava una troupe molto più leggera del solito, ma in compenso molto più tempo al montaggio. De Seta insomma è partito con una disponibilità assoluta, rifiutando completamente il modello produttivo del cinema italiano attuale e costruendosi un modello produttivo a partire dalle esigenze della storia. A cominciare dalla scelta del digitale, assunta con una radicalità liberatoria […]. Poi però il suo film, pur sbloccato, è comunque finito nella vera strettoia del cinema italiano, la distribuzione: è uscito in pochissime sale, durante Venezia, senza nessuna speranza di pubblico. […] La riuscita così evidentemente alterna del film confermava questa alterità: il film è sempre più bello man mano che si allontana dai modelli narrativi indigeni, dalle psicologie e dalle sceneggiature, dalla tipizzazione sociale e dalla volontà di completezza […]. E sorprende che si debba aspettare il ritorno a De Seta per trovare un film che affronti, e dal di dentro, temi di così scottante attualità come l'immigrazione, in modi così liberi e sperimentali, a cominciare dal rigoroso uso del digitale. A suo modo, Lettere dal Sahara è un' "opera prima"; piace pensarlo come un punto d'inizio, con le generosità e gli errori di chi si lancia anima e corpo in una impresa nuova. A non sapere chi l'ha diretto, lo si direbbe davvero, diciamo, l'esordio di un trentenne africano che cerchi di raccontarsi e raccontarci» (E. Morreale, “Cineforum” n. 458, 8.10.2006).
«Vittorio De Seta, gran maestro di cinema, uomo colto, diritto e ammirevole […] alto e nobile come un albero o una roccia, laconico, ritrova il cinema abbandonato da tanto tempo e la Mostra di Venezia dov’è stato l’ultima volta 45 anni fa. È un avvenimento, anche il suo film lo è. I dimenticati, gli esclusi, gli emarginati, gli isolati dalla malattia o dall’ignoranza sono sempre stati i suoi protagonisti prediletti (i documentari, Banditi a Orgosolo, Diario di un maestro) […]. Più forte del rovesciamento del film (l’emigrante non trova quanto cercava e quanto forse riuscirà a trovare nel suo Paese) è la maestria di De Seta nel fondere personaggi e ambiente, nel dare energia e poesia a quella che non è una storia di fallimento ma di vittoria» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 1.9.2006).
«De Seta è abile nel comprendere che la pellicola si gioca sullo sguardo di Assane, sul mondo che con i suoi occhi esplora. […] Semmai la pecca più vistosa di un film girato in digitale, quindi di per sé visivamente già soffocante, è questa incapacità (comune a moltissimo cinema italiano) di raccontarsi come paese, come popolo, come insieme di soggetti sociali e politici, se non con una dicotomica separazione tra buonissimi e cattivissimi. In Lettere dal Sahara manca quella libertà di sguardo verso i più vicini, i più prossimi elementi della discussione: gli italiani che stanno nel mezzo, che si crogiolano nel pregiudizio. Ma visto che De Seta alla fine è un maestro del documentario, quando Assane torna in Senegal nel suo villaggio, ci sono circa 40 minuti di spettacolo puro, di muta contemplazione ad occhi aperti, il regista esplora alcuni sfondi urbani ed extraurbani del Senegal e la macchina da presa fluttua agile, libera, intransigente verso quel monologo finale spiattellato in faccia' al viziato spettatore occidentale. […] Umile lezione di convivenza pacifica tra realtà, religioni e culture diverse e dì cinema dal forte impatto civile» (D. Turrini, “Liberazione”, 1.9.2006).
«Diviso in tre parti, il film parte con l'incubo di Lampedusa; poi c'è una zona torinese che pare lo spot del buonismo; infine la spiega autoctona, discorso di orgoglio senza pregiudizio del prof. africano. Racconto di tutto rispetto: va proiettato nelle scuole e per i selvaggi che chiamano gli immigrati “bingo bongo”» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 8.9.2006).
«Assane entra nel rischioso “giro della morte” dell'emigrazione clandestina. […] L'attraversamento del Sahara, gli scafisti, l'incubo cpt e la camorra nel napoletano, non lo annientano. E neanche la droga, perché è proibita da una fede musulmana che, a giudicare dall'episodio fiorentino, è ancora un po' mal interpretata: perché si sovrappongono i soliti opportunismi maschilisti senza che Maometto ne abbia la benché minima colpa. Infine Torino, l'acciaieria, il doppio lavoro, l'astuzia burocratica, l'evento transcultural-musicale che potrebbe far scattare la scintilla della convivenza possibile. […] Girato in digitale tra il 2002 e il 2003, dopo 20 anni di silenzio (non voluto, anzi obbligato dall'imbarbarimento grave, nel nostro paese, della politica dell'immaginario) questa sorta di Paisà nero […] conferma le qualità di questo documentarista del reale, dall'occhio acuminato e dal cuore apolide» (R. Silvestri, “il manifesto”, 1.9.2006).
«Girato in digitale, non soltanto per ragioni economiche ma anche per il desiderio che aveva De Seta di sperimentare le tecnologie “leggere", il film s'ispira a una storia realmente avvenuta e s'inserisce coerentemente nella sua poetica. Come fu per il microcosmo dei pastori sardi di Banditi a Orgosolo (1961), anche per gli africani approdati in Italia può valere la medesima dichiarazione d'intenti: "Io volevo esprimere l'isolamento non solo di un individuo, ma anche di una società". Analogamente a quel film, dove i non attori parlavano in dialetto sardo, anche qui i protagonisti si esprimono nella loro lingua, il Wolof, e la sonorità del film ha quindi l'autenticità di un documento (oltre metà film è parlato in senegalese). […] Ma se in Un uomo a metà (1966) De Seta aderiva fino in fondo alla soggettività del protagonista, seguendolo nei suoi risvolti più sgradevoli, più squilibrati, in Lettere dal Sahara si limita a sfiorare l'interiorità di Assane e non gli disegna nodi di contraddizioni. L'unica eccezione è rappresentata dalla sequenza in cui il giovane rifiuta l'ospitalità della cugina modella perché la sua intransigenza religiosa gli impedisce di accettare le scelte di vita della donna (che convive con un occidentale senza averlo sposato). Purtroppo questo episodio è l'unico dove s'insinuino sfumature complesse e problematiche. Il racconto dell'amaro viaggio "italiano" del giovane Assane non si affranca quasi mai dalla schematicità didattica e dimostrativa di un progetto umanitario, nobile ma raramente convincente. Questi limiti stridono soprattutto nell'episodio torinese, dove De Seta non riesce a evitare la retorica nel descrivere l'associazione umanitaria cattolica (e l'episodio dell'incontro di Assane con il fratello "disturbato" di Caterina è una parentesi molto infelice). La specularità fra l'episodio dei giovani buttati a mare dagli scafisti e la violenta aggressione a Tonno, quando Assane e il suo amico vengono gettati in acqua, cade anch'essa in un'enfasi ridondante (anche a causa dell'uso del ralenti)» (R. Chiesi, “Segnocinema” n. 142, settembre-ottobre 2006).
«Tutto asciutto, autentico, svolto con una progressione drammatica che però non sembra dover mai nulla alla finzione: tanto gli ambienti sono reali e í personaggi, tutti i personaggi, sembrano colti lì all'improvviso da una macchina da presa che, per merito anche del digitale, dà ad ogni gesto, ad ogni reazione, persino ad ogni dialogo scopertamente improvvisato, una sensazione splendida di immediatezza. […] Con il sussidio qui anche di interpreti, per la maggior parte non professionisti che, esprimendosi spesso, soprattutto i senegalesi, nella loro lingua, aumentano quell'effetto "dal vero" cui il film tende dal principio alla fine. Con una forza civile che sa diventare cinema» (G.L. Rondi, “Il Tempo”, 18.9.2006).
«De Seta si avvicina. a un mondo, quello dell'immigrazione, che fino ad oggi non ha interessato più di tanto il cinema italiano. […] De Seta, alla maniera di Zavattini, pedina il protagonista del suo film […] Misurato e per alcuni versi un po' ingenuo (nel senso buono del termine, di uno sguardo candido), Lettere dal Sahara, senza ricorrere alla facile drammatizzazione degli eventi, evidenzia bene il problema dell'immigrazione e getta uno sguardo abbastanza oggettivo (ma gli immigrati sono sempre buoni mentre tra gli italiani s'annidano i cattivi) sulla difficile integrazione di culture diverse» (P. Armocida, “Il Giornale”, 1.9.2006).
Scheda a cura di Franco Prono
|