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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



Lettere dal Sahara
Italia, 2006, 35mm, 126', Colore


Regia
Vittorio de Seta

Soggetto
Vittorio De Seta

Sceneggiatura
Vittorio De Seta

Fotografia
Antonio Grambone

Operatore
Mauro Calanca, Luciano Federici, Alessandro Filippucci

Musica originale
Mario Tronco, Orchestra di Piazza Vittorio

Musiche di repertorio
W.A. Mozart, Laura Inserra

Suono
Gianluca Costamagna, Luca Bertolin

Montaggio
Marzia Mete

Scenografia
Fiorella Cicolini

Costumi
Fabio Angelotti

Trucco
Edi Rossello, Nadia Ferrari

Aiuto regia
Michele Banzato, Valerio Valente

Interpreti
Djibril Kébé (Assane), Paola Aimone Rondo (Caterina), Madawass Kébé (Makhtar), Thierno Ndiaye (maestro), Luca Francesco Barbeni (Luca), Fifi Cisse (Salimata), Stefano Saccotelli (don Sandro), Ndeye Thiaba Diop (sorella), Awa Mbaye (madre), Cheikh Fall (Ibu), Roberta Fornier (Antonella), Luciano Cravino (medico), Rasmane Bayere (Safil), Diego Casale (Rocco), Carlos M. Mendes de Sousa (Sylla)

Casting
Jorgelina De Petris, Michele Banzato

Direttore di produzione
Katia Franco, Renato Faust, Tina Pistoia, Michele Banzato, Abdou Ndaye

Ispettore di produzione
Enrico De Lotto, Giovanni Ledda, Giovanni Iacobis, Federico Fusco, Sandra Cristofanilli

Produttore esecutivo
Agnese Fontana

Produzione
Donatella Palermo per A.S.P. e Metafilm

Distribuzione
Istituto Luce

Note
Assistente operatore: Claudio Cofrancesco; fotografo di scena: Gianni Fiorito; suono in presa diretta Dolby Digital; microfonisti: Vito Martinelli, Massimiliano Trevisan, Alioune Sica Mbow; montaggio del suono: Lilio Rosato; montaggio effetti sonori: Piergiorgio De Luca; consulenza scenografica per l’Africa: Lorenzo De Seta; scenografo per l’Africa: Picasso Ndiaye Moustapha; assistenti scenografi: Gretel Fatibene, Andrea Pitet; assistenti costumisti: Angelo Porretti, Caterina Micheli; assistenti al montaggio: Chiara Russo, Alberto Ruffino, Danilo Torre, Cristina Sardo, Cinzia Benetazzo, Maria Fantastica Valmori; parrucchiera: Alessandra Conti; assistente alla regia: Gaia Chiara Russo Frattasi, Bruno Oliviero, Giuseppe Del Volgo; altri interpreti: Samoura Karfalla (Papa Diouf), Corrado Denegri (musicista), Milko Cardinale (ragazzo), Carmen Panarello (ragazza castana), Maria Uttilla (ragazza scura), Moumar Talla Dia (Maurice); direzione doppiaggio: Yuri Bedini; stunt coordinator: Arnaldo dell’Acqua; collaborazione al casting: Guido Colla, Clara Clemente; supervisione post produzione: Franco Casellato; segretari di produzione: Gaetano Santangelo, Maura Cuda, Sara Busto, Pamela Maddaleno, Salvatore Milano; organizzazione: Katia Franco, Renato Faust, Tina Pistoia, Abdou Ndiaye, Michele Banzato; amministrazione: Maria Ludovica Bologna, Concetta Pistoia
 
Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale Cinema, con la collaborazione di Film Commission Torino Piemonte e con il patrocinio del Comune di Firenze.
 
Locations: Lampedusa, Porto Empedocle, Villa Literno, Roma, Prato, Torino (Porta Nuova, piazza Vittorio Veneto, Lungopo, Porta Palazzo, piazza Castello, via Garibaldi, piazza Carlo Felice, Palazzina di caccia di Stupinigi, Docks Dora, Aeroporto di Caselle, ecc.) Senegal (Dakar, Cap Skirring).
 
Premio Città di Roma alla Biennale di Venezia 2006; Prêmio Humanidade al Sao Paulo International Film Festival 2006.




Sinossi
Assan è un senegalese naufrago sull'isola di Lampedusa. In meno di sei mesi risale l'Italia passando per Napoli, Prato e Torino, cambiando di volta in volta lavoro. Quando finalmente riesce a ottenere il permesso di soggiorno, viene quasi linciato in una rissa fuori da una discoteca ed entra in crisi. Decide allora di tornare a Cap Skiring, in Senegal, e una volta tornato al suo villaggio, di fronte alle insistenze del suo vecchio maestro, racconta la sua esperienza.




Dichiarazioni
«Io sono un evoluzionista. Non credo nel film in testa al regista. Credo in quello che nasce strada facendo. E nell’obbligo morale di dire la verità, anche adesso che cinema e tv si muovono su un piano virtuale. Per me il tempo delle cinematografie nazionali è passato: dobbiamo abbattere gli seccati e fare opere multiculturali. Aprirci, ascoltare, comprendere. Se ci chiudiamo siamo finiti. La salvezza può venirci solo agli stranieri» (V. De Seta, “La Stampa”, 1.9.2006).
 
«Se dovessi fare un altro film, potrei al limite rinunciare al direttore della fotografia, ma servono tre bravi operatori di macchina. Poi si mettono insieme quelle quattro luci, che ormai sono davvero quattro: noi abbiamo usato al massimo due kilowatt, due kilowatt e mezzo. Avevamo un camion di ventisette kilowatt che non ci è servito a niente. Con il senno di poi, avremmo dovuto prendere una troupe televisiva, gente che lavora con queste macchine tutti i giorni. Il digitale è sempre stato denigrato anche perché a fare la fotografia in pellicola sono i grossi operatori, che quindi la fanno bene; anche da ciò nasce la favola per cui "la pellicola è un'altra cosa". Ma se stampi in pellicola l'arte la conservi comunque. Pensa che noi siamo intervenuti praticamente su ogni inquadratura: puoi rifare il quadro, per esempio, ingrandendolo, come una volta si riquadravano le fotografie; puoi accelerare, rallentare, voltare gli sguardi. Poi, una volta che hai fatto tutte queste cose, non puoi più partire dalla pellicola, devi partire dal master digitale. E allora tanto vale girare in digitale. I vantaggi superano di molto gli svantaggi. [...] Considera che tutto il cinema è pre-impressionista. L'impressionismo aveva la grana grossa. Il cinema è ancora a Corot, a David. Poi ci sono stati Van Gogh, il divisionismo...» (V. De Seta, “Cineforum” n. 458, 8.10.2006).





«[…] in definitiva, Lettere dal Sahara appa­re soprattutto un modello produttivo e "di metodo" per molti giovani registi che abbiano voglia e curiosità di guar­darsi intorno, interrogandosi sul cosa, il perché e il come filmare. E allora bi­sognerà vedere da vicino questa lezione di libertà e di metodo, che alla fine lascia sconsolati sulle possibilità del nostro cinema. Già la vicenda produttiva del film, la cui lavorazione è iniziata nel 2001 e si è conclusa cinque anni dopo, è trava­gliatissima, e legata per lo più alla sua inclassificabilità nel panorama italia­no, alla sua quasi impossibile gestione e collocazione in un sistema pseudo­manageriale, e che tende a privilegiare prodotti e "format" che non azzardino troppo in senso estetico e produttivo. […] De Seta ha girato quasi senza sce­neggiatura, accumulando una quantità di materiale enorme (75 ore di girato); di conseguenza, gli bastava una troupe molto più leggera del solito, ma in com­penso molto più tempo al montaggio. De Seta insomma è partito con una di­sponibilità assoluta, rifiutando comple­tamente il modello produttivo del cine­ma italiano attuale e costruendosi un modello produttivo a partire dalle esi­genze della storia. A cominciare dalla scelta del digitale, assunta con una ra­dicalità liberatoria […]. Poi però il suo film, pur sbloc­cato, è comunque finito nella vera strettoia del cinema italiano, la distri­buzione: è uscito in pochissime sale, durante Venezia, senza nessuna spe­ranza di pubblico. […] La riuscita così evidentemente alterna del film con­fermava questa alterità: il film è sem­pre più bello man mano che si allontana dai modelli narrativi indigeni, dalle psi­cologie e dalle sceneggiature, dalla ti­pizzazione sociale e dalla volontà di completezza […]. E sorprende che si debba aspettare il ritorno a De Seta per trovare un film che affronti, e dal di dentro, temi di così scottante attualità come l'immigrazio­ne, in modi così liberi e sperimentali, a cominciare dal rigoroso uso del digitale. A suo modo, Lettere dal Sahara è un' "opera prima"; piace pensarlo come un punto d'inizio, con le generosità e gli er­rori di chi si lancia anima e corpo in una impresa nuova. A non sapere chi l'ha diretto, lo si direbbe davvero, dicia­mo, l'esordio di un trentenne africano che cerchi di raccontarsi e raccontarci» (E. Morreale, “Cineforum” n. 458, 8.10.2006).

«Vittorio De Seta, gran maestro di cinema, uomo colto, diritto e ammirevole […] alto e nobile come un albero o una roccia, laconico, ritrova il cinema abbandonato da tanto tempo e la Mostra di Venezia dov’è stato l’ultima volta 45 anni fa. È un avvenimento, anche il suo film lo è. I dimenticati, gli esclusi, gli emarginati, gli isolati dalla malattia o dall’ignoranza sono sempre stati i suoi protagonisti prediletti (i documentari, Banditi a Orgosolo, Diario di un maestro) […]. Più forte del rovesciamento del film (l’emigrante non trova quanto cercava e quanto forse riuscirà a trovare nel suo Paese) è la maestria di De Seta nel fondere personaggi e ambiente, nel dare energia e poesia a quella che non è una storia di fallimento ma di vittoria» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 1.9.2006).

«De Seta è abile nel comprendere che la pellicola si gioca sullo sguardo di Assane, sul mondo che con i suoi occhi esplora. […] Semmai la pecca più vistosa di un film girato in digitale, quindi di per sé vi­sivamente già soffocante, è questa inca­pacità (comune a moltissimo cinema ita­liano) di raccontarsi come paese, come popolo, come insieme di soggetti sociali e politici, se non con una dicotomica se­parazione tra buonissimi e cattivissimi. In Lettere dal Sahara manca quella libertà di sguardo verso i più vicini, i più prossi­mi elementi della discussione: gli italiani che stanno nel mezzo, che si crogiolano nel pregiudizio. Ma visto che De Seta al­la fine è un maestro del documentario, quando Assane torna in Senegal nel suo villaggio, ci sono circa 40 minuti di spet­tacolo puro, di muta contemplazione ad occhi aperti, il regista esplora alcuni sfondi urbani ed extraurbani del Senegal e la macchina da presa fluttua agile, libe­ra, intransigente verso quel monologo fi­nale spiattellato in faccia' al viziato spet­tatore occidentale. […] Umile lezione di convivenza pacifica tra realtà, religioni e culture diverse e dì cinema dal forte im­patto civile» (D. Turrini, “Liberazione”, 1.9.2006).

 «Diviso in tre parti, il film parte con l'incubo di Lampedusa; poi c'è una zona torinese che pare lo spot del buonismo; infine la spiega au­toctona, discorso di orgoglio senza pre­giudizio del prof. africano. Racconto di tutto rispetto: va proiettato nelle scuole e per i selvaggi che chiamano gli immi­grati “bingo bongo”» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 8.9.2006).
 
«Assane entra nel ri­schioso “giro della morte” dell'emigra­zione clandestina. […]  L'attraversamento del Sahara, gli scafisti, l'incubo cpt e la camorra nel napoletano, non lo annien­tano. E neanche la droga, perché è proi­bita da una fede musulmana che, a giu­dicare dall'episodio fiorentino, è ancora un po' mal interpretata: perché si sovrap­pongono i soliti opportunismi maschilisti senza che Maometto ne abbia la benché minima colpa. Infine Torino, l'acciaieria, il doppio lavoro, l'astuzia burocratica, l'e­vento transcultural-musicale che potreb­be far scattare la scintilla della conviven­za possibile. […] Girato in digitale tra il 2002 e il 2003, do­po 20 anni di silenzio (non voluto, anzi obbligato dall'imbarbarimento grave, nel nostro paese, della politica dell'immagi­nario) questa sorta di Paisà nero […] con­ferma le qualità di questo documentari­sta del reale, dall'occhio acuminato e dal cuore apolide» (R. Silvestri, “il manifesto”, 1.9.2006).
 
«Girato in digitale, non soltanto per ragioni economiche ma anche per il desiderio che aveva De Seta di sperimentare le tecnologie “leggere", il film s'ispira a una storia realmente avvenuta e s'inserisce coerentemente nella sua poetica. Come fu per il microcosmo dei pastori sardi di Banditi a Orgosolo (1961), anche per gli africani approdati in Italia può valere la medesima dichiarazione d'intenti: "Io volevo esprimere l'isolamento non solo di un individuo, ma anche di una società". Analogamente a quel film, dove i non attori parlavano in dialetto sardo, anche qui i protagonisti si esprimono nella loro lingua, il Wolof, e la sonorità del film ha quindi l'autenticità di un documento (oltre metà film è parlato in senegalese). […] Ma se in Un uomo a metà (1966) De Seta aderiva fino in fondo alla soggettività del protagonista, seguendolo nei suoi risvolti più sgradevoli, più squilibrati, in Lettere dal Sahara si limita a sfiorare l'interiorità di Assane e non gli disegna nodi di contraddizioni. L'unica eccezione è rappresentata dalla sequenza in cui il giovane rifiuta l'ospitalità della cugina modella perché la sua intransigenza religiosa gli impedisce di accettare le scelte di vita della donna (che convive con un occidentale senza averlo sposato). Purtroppo questo episodio è l'unico dove s'insinuino sfumature complesse e problematiche. Il racconto dell'amaro viaggio "italiano" del giovane Assane non si affranca quasi mai dalla schematicità didattica e dimostrativa di un progetto umanitario, nobile ma raramente convincente. Questi limiti stridono soprattutto nell'episodio torinese, dove De Seta non riesce a evitare la retorica nel descrivere l'associazione umanitaria cattolica (e l'episodio dell'incontro di Assane con il fratello "disturbato" di Caterina è una parentesi molto infelice). La specularità fra l'episodio dei giovani buttati a mare dagli scafisti e la violenta aggressione a Tonno, quando Assane e il suo amico vengono gettati in acqua, cade anch'essa in un'enfasi ridondante (anche a causa dell'uso del ralenti)» (R. Chiesi, “Segnocinema” n. 142, settembre-ottobre 2006).
 
«Tutto asciutto, autentico, svolto con una progressione drammatica che però non sembra dover mai nulla alla finzione: tanto gli ambienti sono reali e í perso­naggi, tutti i personaggi, sembrano col­ti lì all'improvviso da una macchina da presa che, per merito anche del digitale, dà ad ogni gesto, ad ogni reazione, per­sino ad ogni dialogo scopertamente im­provvisato, una sensazione splendida di immediatezza. […] Con il sussidio qui anche di interpreti, per la maggior parte non professionisti che, esprimendosi spesso, soprattutto i senegalesi, nella loro lin­gua, aumentano quell'effetto "dal vero" cui il film tende dal principio alla fine. Con una forza civile che sa diventare ci­nema» (G.L. Rondi, “Il Tempo”, 18.9.2006).
 
«De Seta si avvicina. a un mondo, quello dell'immigrazione, che fino ad oggi non ha interessato più di tanto il cinema ita­liano. […] De Seta, alla ma­niera di Zavattini, pedina il protagonista del suo film […] Misurato e per alcuni versi un po' ingenuo (nel senso buono del termine, di uno sguardo candido), Lettere dal Sahara, senza ricorrere alla fa­cile drammatizzazione degli eventi, evi­denzia bene il problema dell'immigrazio­ne e getta uno sguardo abbastanza og­gettivo (ma gli immigrati sono sempre buoni mentre tra gli italiani s'annidano i cattivi) sulla difficile integrazione di cul­ture diverse» (P. Armocida, “Il Giornale”, 1.9.2006).


Scheda a cura di
Franco Prono

Persone / Istituzioni
Vittorio de Seta
Luciano Federici


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