Regia Fausto Paravidino
Soggetto Fausto Paravidino, Iris Fusetti, Carlo Orlando
Sceneggiatura Fausto Paravidino, Iris Fusetti, Carlo Orlando
Fotografia Gherardo Gossi
Musica originale Nicola Tescari
Suono Gianluca Costamagna, Maximilien Gobiet
Montaggio GiogiĆ² Franchini
Effetti speciali Fabio Luongo, Fabrizio Pistone
Scenografia Laura Benzi
Costumi Sandra Cardini
Aiuto regia Alberto Mangiante, Barbara Pastrovich
Interpreti Fausto Paravidino (Enrico), Riccardo Scamarcio (Gianluca), Valeria Golino (Maria), Valerio Binasco (Alessandro), Carlo Orlando (Davide), Iris Fusetti (Cinzia), Alessia Bellotto (Elisa), Teco Celio (Aldo Baretti), Gloria Sapio (Franca Baretti), Valeria Sabel (Italia), Eugenio Spineto (Leso), Francesco Pizzo (Oklahoma), Nicola Colajanni (Paco), Katy Markannen (Coma), Pierluigi Pasino (Tranquillo)
Casting Francesco Vedovati
Direttore di produzione Elia Mazzoni
Produzione Domenico Procacci per Fandango
Distribuzione Medusa Film
Note 2750 metri.
Suono dolby Digital; altri interpreti: Roberta Andreoni (Moby), Simone Gandolfo (Picchiami), Davide Lorino (Natale Del Rio), Egidio Sonsino (Pinuccio), Federico Bonato (Albertino), Matteo Lombardi (Mirko Baretti), Franco Ravera (Nino Scarsi), Silvana Vigevani (Luisa Scarsi), Oreste Soro (Meo Del Rio), Ludovico Bettarello; organizzatore generale: Ivan Fiorini; collaboratori alla produzione: Medusa Film, Sky.
Film realizzato con il contributo di Film Commission Torino Piemonte.
Locations: Alessandria, Rocca Grimalda, Ovada (AL).
Sinossi
Vita di un gruppo di amici ad Ovada, in provincia di Alessandria, raccontata attraverso le notti di tre sabati in novembre, dicembre e febbraio. Davide è figlio dei proprietari di un negozio di alimentari che ha cessato l'attività; il fallimento economico si rispecchia nel fallimento del ragazzo che cerca di riscattarsi in qualche modo. Cinzia si vergogna di essere figlia di contadini e lavora in un supermercato cercando un riscatto sociale; è innamorata di Gianluca, un ragazzo indipendente che vive con i suoi, proprietari di un'officina. Enrico è tornato da poco a casa e cerca di capire quanto i suoi amici siano cambiati durante la sua assenza. Il quarantenne Alessandro per far contento suo padre, un ex-partigiano, ha sposato Maria, la maestra del paese, con la quale ha un rapporto tiepido e superficiale. Da parte sua, Maria sogna una vita diversa e si innamora anche lei di Gianluca. In questi tre sabati gli amici si trovano a bere, parlare, sentire musica. Emergono vigliaccherie, dubbi, nevrosi, perplessità, rabbia. Ognuno cerca di trovare la sua strada nella vita.
Dichiarazioni
«È un mondo molto popolato di piccoli personaggi con grandi storie per un piccolo contesto. I nostri personaggi vivono contemporaneamente l’orgoglio e il senso di colpa della periferia, due vettori contrastanti che ne provocano l’immobilità e l’isteria. Il loro ideale grido “A New York a New York” (culturalmente imposto) ricorda molto l’”A Mosca a Mosca!” di ?echov, e cecoviani sono in parte personaggi e struttura. Deboli, indecisi, rassegnati, ironici. Parlano molto per coprire i silenzi. Dicono per nascondere quello che non dicono. Temono più di ogni altra cosa di “fare brutta figura” e i loro sforzi per evitarla li spingono fatalmente in quella direzione. […] E dato che il sogno americano dei nostri Texani del Piemonte ci ricordava tanto il sogno moscovita (o parigino) dei provinciali di ?echov, sempre da ?echov abbiamo cercato di mutuare parte della struttura. Il film è diviso in quattro atti, dove il primo riprende il quarto e fa da cornice, gli altri tre raccontano la storia di questi personaggi suddivisa in tre distinte giornate raccontate (quasi) in presa diretta. Lo sviluppo dei rapporti si misura quindi sulle modifiche che questi portano in un contesto di abitudini. Il film (rispetto a ?echov) rinuncia deliberatamente al cosiddetto “quarto atto” interrompendosi prima. Nei quarti atti in genere spara il fucile che avevamo visto carico all’inizio e così facendo dà importanza, legittima e spiega tutto quello che era stato fin lì narrato e descritto. Io i quarti atti li ho sempre trovati – a mio gusto – un po’ tendenziosi quando non patetici. Sono i primi a passare di moda perché perdono spesso la magia dell’esplorazione innocente della realtà per piegarsi un po’ alla Volontà (o senso del dovere) degli autori. La nostra storia è architettata in modo che il “Quarto atto” non abbia bisogno di accadere se non a livello quasi privato per i nostri personaggi. L’aumento di carico emotivo non trova un vero e proprio sfogo o per lo meno non trova una catarsi pubblica e collettiva. La pistola che è stata caricata all’inizio sta per sparare ma alla fine rinuncia. La storia non diventa Storia. E probabilmente non verrà raccontata dai personaggi una volta finita la vicenda ma resterà un ricordo raramente riesplorato per pudore» (F. Paravidino, www.fctp.it).
«Il Texas del titolo è in realtà un Piemonte collinare In cui, come si dice all’inizio, gli eredi di Pavese e Fenoglio si sentono fratelli di Kurt Cobain e del cow boy solitari. Un paesaggio contadino in cui un gruppo di ventenni accarezzano sogni di fuga e fanno baldoria per ingannare la noia nella prima mezz’ora del film, invero non molto stimolante […]. Gli eventi sono narrati con una struttura cronologica Un po’ alla Pulp Fiction (si va avanti e indietro nel tempo con grande libertà) e precipitano in una resa dei conti che mette in circolo memorie partigiane, armi sotterrate alla fine della guerra, gelosie e vendette. La riappacificazione dell’epilogo mostra la vacuità del “sogno americano” e restituisce la provincia alla sua Inquieta, ma salubre inazione» (O. Iarussi, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 7.9.2005).
«Lo spunto della vicenda […] nasce dall'idea di raccontare le rapide trasformazioni di una campagna che, dal secondo dopoguerra, ha mutato radicalmente fisionomia, con conseguenze sia sul piano sociale, che economico. Un luogo "non luogo", situato geograficamente nell'alessandrino, più simile a una periferia ai confini di una città che ad una zona rurale, in cui ai piccoli borghi e singoli negozi, si sono rapidamente sostituiti supermercati e centri commerciali. Sul piano umano, il panorama è quello stratificato di generazioni distanti tra loro, dove, rispetto ai contadini che hanno subito la guerra e ai loro figli che hanno conosciuto il boom economico, i giovani sembrano avere la peggio. Figli della televisione, gli indecisi ventenni vagano in quegli spazi insoddisfatti e col sogno, forse un giorno, di andarsene. Un tema interessante, che però si lascia travolgere da alcuni vezzi linguistici e stilistici di un certo cinema dalla decisa propensione al racconto generazionalgiovanilistico; primo fra tutti, l'uso della voce fuori campo, I'io narrante. …
Quei giovani ventenni rimangono macchiette, chi alla ricerca del sesso, chi dei piaceri dell'alcool. Forse un racconto lineare avrebbe reso più credibile e meno pretenzioso il film, che pure non è privo di momenti, seppure brevi, in cui riesce a restituire la sensazione di abbandono e di isolamento di quel paesaggio umano» (L. Ceretto, “Film” n. 78, novembre-dicembre 2005).
«Lascia ben sperare l’esordiente Fausto Paravidino. Giovanissimo e già affermato a teatro, debutta al cinema con un film ben congegnato, anche se ricco di ingenuità. Il suo Texas è una provincia depressa qualsiasi. Un grappolo di case e poco più, dove la gente mormora e i giovani stentano a trovare spazio. L’inizio del film lascia perplessi e disorientati. Una carrellata di quadretti che, con una regia frenetica e giovanilistica, presentano un bestiario di protagonisti al limite del grottesco. […] Dopo la prima mezz’ora la regia muta radicalmente. Comincia ad affacciarsi il Paravidino che traghetterà la storia verso la sua parte migliore. Seppur non nuovissima, la struttura narrativa si rivela efficace. Si parte con l’epilogo, una rissa in cui tutti picchiano tutti, tra le macerie affettive di un branco allo sbando. Poi una serie di flashback su un corale intreccio di amicizie e tradimenti, sogni e delusioni, che legano a filo doppio i protagonisti principali. […] Il film riserva il meglio per il finale: una conclusione forte e drammatica, che non nega spazio alla speranza» (L. Raganelli, “Rivista del Cinematografo” n. 10, ottobre 2005).
«Raro trovare un “deb” con la coerenza stilistica del 29enne Fausto Paravidino, che unisce cinema, teatro, autobiografia raccontando in un puzzle altmaniano i ricordi di tre sabati sera di provincia del nostro West ligure-piemontese dove i new vitelloni apatici, tronfi e indifferenti non sognano più di scappare. Smorfie tragicomiche, tavernette, nani in giardino. E cose banali: liti di famiglia, l'amore proibito tra la brava maestrina Golino e l'irruente ed espressivo Scamarcio, ma alla fine nessuno ha forza per far tragedie. Un reality sull'Italia di oggi con le sue vite inutili da tv, ripresa tra autogrill, ipermercati, autostrade di notte coi fari accesi sulla fatica di vivere. Ardito, ambizioso ma riuscito mix tra l'iper realtà di Hopper, la nostalgia di Amarcord, il cinismo di Lynch» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 14.10.2005).
«Fausto Paravidino è talento riconosciuto delle nuove generazioni teatrali, coccolato dalla critica più esigente, che coi suoi racconti in scena ha saputo dirci molto del vissuto italiano e di questa nostra sempre più “eccentrica” realtà. Ecco perché Texas, il suo esordio dietro alla macchina da presa, era molto atteso, segnando anche un ulteriore passaggio tra palcoscenico e schermo, movimento questo che ha saputo rivelare negli ultimi anni talenti a sorpresa e ricchezze di immaginari. […] Eppure qualcosa (molto) in questo sabato italiano - assai celebrato a Venezia - non funziona. La storia intreccia le vite di ventenni nel fine settimana a Ovada, Alessandria, provincia italiana desertificata come tante: supermercati, pub, un sociale di ricchi e di piccola borghesia divorata dalle nuove economie. Cibo junk, alcol canne e pasticche, qualche scopata ogni tanto, i ragazzi passano le serate a casa dell'amica ricca col fratellino che declama il manuale della “lotta di classe”, bella incursione di imprevedibile nella monotonia delle tipologie abbandonata però a se stessa. […] Umorismo, ironia e gusto del gioco restano fuori campo, risucchiati in una scrittura di personaggi, luoghi, situazioni senza chiaroscuri e a bassa intensità. Forse è vero che la provincia italica nel 2005 è meno divertente e più Isola dei famosi di quella a cui ci hanno abituati le commedie classiche italiane, ma questo Texas non ci prova neppure a spiazzare la sua stessa materia, a prenderne distanze, a non caderci dentro imprigionato in disagi e noia che non hanno punti di fuga narrativi e emozionali. Il meccanismo è sempre lo stesso, l'amicizia complice virile rovinata dalle fanciulle, la famiglia o la coppia distrutte dal femminile, in una visione questa sì davvero “antica”, dove i personaggi sembrano non avere corpo, emozioni, conflitti. E anche quella provincia ci dice poco sulla sua essenza profonda, schermo un po' vuoto, o riflesso che mai spalanca vertigini, che sembra neppure volere guardarsi intorno» (C. Piccino, “il manifesto”, 15.10.2005).
«Texas è un misto di energia e debolezza, di idee e approssimazioni (soprattutto in sceneggiatura: con un Io narrante che, a un certo punto, si perde per strada); perché, soprattutto, comincia stentatamente, prendendo quota solo dopo una buona mezz’ora. In una piccola città piemontese alla periferia di tutto, un gruppo di ventenni sciala il tempo tra sbronze, liti e amoretti senza prospettive né fiducia nel futuro. Una provincia asfittica e mediocre, non nuova ma messa in scena con rabbia giovane. […] Senza barare sull’ambizione di realizzare un film “generazionale”, Paravidino ha il doppio merito di non fare sconti a nessuno e di non indulgere ad atteggiamenti condiscendenti, che potrebbero ingraziargli di più il pubblico. È faticosa, però, la struttura narrativa, che propone la scena corale dell’epilogo all’inizio per poi, con una serie di flashback un po’ pasticciati, dipanare le cause individuali all’origine dell’episodio collettivo. Insomma, il film lancia molti input riuscendo a elaborarne solo una parte» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 15.10.2005).
«Fausto Paravidino, giovanissimo e minuto regista teatrale, gira la sua opera prima con marchio Fandango. Il ritratto di provincia non ha l'acutezza e la cattiveria alla Germi, ma forse è il concetto di provincia in sé ad essere mutato. Proprio per questo Texas raccoglie tutte le insicurezze, le idiosincrasie di una quasi universale classe medio-bassa di ventenni "italiani” che non scappano mai di casa e sottolinea la sfaldatura, lo sfilacciamento del rapporto tra generazioni. Poco impregnato di carinerie e di autoreferenzialità, ma forse troppo scritto sulla carta e poco visivamente coinvolgente» (da.tu., “Segnocinema” n. 141, settembre-ottobre 2006).
«Quello raccontato da Paravidino non è tanto uno sbandamento o una crisi generazionale quanto il malessere di una società intera, minata alla base dalla disgregazione della famiglia, entità onnipresente che come un gorgo vorticoso al tempo stesso allontana e attira. Quando è presente provoca tensioni e nervosismo ma quando manca, la sua assenza è insostenibile. Famiglia messa in difficoltà dalla perdita delle certezze acquisite, con nonni costretti a fare i genitori a causa di figli che si comportano come nipotini. Purtroppo le velleità di analisi sociologica e il tentativo di dipingere uno spaccato intergenerazionale rimangono sulla carta e il risultato finale è sicuramente inferiore alle intenzioni del giovane autore. Il primo problema è che il film nel suo insieme soffre di un'eccessiva (e in taluni casi quasi irritante) dipendenza dallo stereotipo, sia a livello di sceneggiatura che di regìa. […] II secondo problema è quella che potremmo scherzosamente chiamare sindrome di Dams. In altre parole il regista sembra uno studente che al momento di preparare una videotesina voglia mostrare al professore di aver studiato tutto il manuale: eccoci di fronte a una grammatica ipertrofica (back stories, macchina a spalla, riproduzioni teatrali, citazioni cinematografiche, sguardi in macchina, inquadrature fisse nei momenti caotici e riprese instabili e movimentate durante tranquilli dialoghi, e via discorrendo) che non diventa però mai stile. In generale la maggior, parte delle trovate che vorrebbero dare uno spessore alla storia si rivelano piuttosto retoriche - le persone all'interno del centro commerciale come operai in una catena di montaggio, lui e lei che s'innamorano sulla giostra (della vita?) e la cui storia termina sull'altalena (dei sentimenti?), la neve purificatrice - e i tentativi di metafora, la pistola che in passato sparava per motivi politici e ora si appresta a sparare per porre fine ai pettegolezzi, hanno il fiato piuttosto corto» (M. Bisato, “Segnocinema” n. 137, gennaio-febbraio 2006).
«Un’opera prima italiana. L’ha realizzata però un autore-attore, Fausto Paravidino, già abbastanza noto sia in teatro sia in tv. Una provincia tra Piemonte e Liguria che, come insinua il titolo, si vorrebbe confrontare, almeno da un punto di vista letterario, con un certo tipo di provincia americana. Tre momenti, tutti collocati all’interno di un sabato sera. Uomini e ragazzi alla ricerca di uno scopo, anche dell’amore, naturalmente, nonostante, quelli già sposati, tendano a ricercarne dei nuovi. L’occasione che si ripete è una festa, con molte bevande, nella casa della più ricca del gruppo, poi da lì, puntando di più su casi singoli, si passa alla vicenda della maestrina del paese che, pur sposata, intreccia una relazione con il fratello di un suo allievo, suscitando non solo pettegolezzi ma furie varie […] Poi, dopo molte fratture, tutto rientrerà nell’ordine. O quasi... Quei sabati e quei festini non riflettono molto ordine narrativo e i tanti personaggi che vi si evolvono in mezzo stentano abbastanza a proporsi con fisionomie ben definite, quando però l’intreccio si stringe attorno al caso della maestrina l’azione ha modo di precisarsi con una sua logica e i caratteri non tardano ad acquistare un loro segno, in equilibrio fra il patetico o il drammatico. Con cifre in cui il dolore, la rassegnazione e lo sconforto vengono fatti a poco a poco levitare: per creare, anche su tutto il resto, un’atmosfera in cui, appunto, il vuoto di una certa vita di provincia riesce a farsi avanti. In linea con le intenzioni dell’autore» (G.L. Rondi, “Il Tempo”, 16.10.2005).
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