Torino città del cinema
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ENCICLOPEDIA DEL CINEMA IN PIEMONTE

Lungometraggi



La donna della domenica
Italia / Francia, 1975, 35mm, 105', Colore

Altri titoli: La Femme du dimanche, The Sunday Woman

Regia
Luigi Comencini

Soggetto
dal romanzo omonimo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini

Sceneggiatura
Age (Agenore Incrocci), (Furio) Scarpelli

Fotografia
Luciano Tovoli

Operatore
Romano Albani

Musica originale
Ennio Morricone

Suono
Giorgio Pallotta

Montaggio
Antonio Siciliano

Scenografia
Mario Ambrosino

Arredamento
Claudio Cinini

Costumi
Mario Ambrosino

Interpreti
Marcello Mastroianni (commissario Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio), Jean Louis Trintignant (Massimo Campi), Aldo Reggiani (Lello Riviera), Maria Teresa Albani (Virginia Tabusso), Omero Antonutti (Benito, domestico di Dosio), Gigi Ballista (Vollero, mercante d’arte), Renato Cecilia (agente Nicosia), Claudio Gora (architetto Garrone), Lina Volonghi (Ines Tabusso), Pino Caruso (De Palma), Tina Lattanzi (signora Campi), Antonino Faà Di Bruno (Paolo Campi), Franco Nebbia (Bonetto), Gil Cagné (coiffeur)

Ispettore di produzione
Egidio Valentini

Produttore esecutivo
Roberto Infascelli, Marcello D’Amico

Produzione
Primex italiana, Fox Europa

Note

Nulla Osta n. 77.537 del 4.12.1975.

Direttore d’orchestra: Ennio Morricone; assistenti alla regia: Vincenzo D’Errico, Elio Ghirlanda; altri attori: , Massimo Giuliani, Mauro Vestri, Giuseppe Anatrelli, Mario Ferrero, Antonio Orlando, Marcelle Bron, Jean Claud Clement, Ennio Antonelli, Dante Fioretti, Clara Bindi, Eleonora Spinelli, Nancy Lecchini e Aurelio Bertola.





Sinossi
Nella Torino borghese della metà degli anni Settanta avviene un delitto “scandaloso”, vittima un architetto di mezza età che alterna un’esistenza anonima a passioni sessuali clandestine. Una lettera giunta attraverso ignoti spinge il commissario Santamaria a sospettare di un giovane di buona famiglia, Massimo, e della ricca e altolocata Anna Carla, che pare siano amanti e abbiano ucciso l’architetto per liberarsi di un fastidioso intruso. Ma i sospetti si rivelano infondati, quando si scopre che Massimo ha in realtà una relazione omosessuale con un coetaneo che, per scagionarlo, intraprende, parallelamente ad Anna Carla, ansiosa di uscire dalla monotonia di una vita dorata, un’indagine più serrata e più rapida di quella del commissario Santamaria. Quest’ultimo, perso nei labirinti oscuri del chiuso mondo altolocato di una città a lui sconosciuta e distratto dal fascino misterioso di Anna Carla, procede stentatamente nelle proprie ricerche che approderanno, naturalmente, ad un insospettabile.



Dichiarazioni

«[…] l’obbligo di andare a girare delle scene esattamente nei luoghi determinati dall’autore del soggetto e del libro da cui è tratto il film non è altro che un modo pigro di concepire le immagini, assimilabile all’indolenza che ci spinge a far parlare a tutti quanti il “romanesco” a Roma, il milanese a Milano, e via dicendo. Quando ho realizzato La donna della domenica non ho avuto esitazioni: contro il parere del produttore, che ragionava in termini economici, volevo girare la maggior parte delle scene a Torino […] si trattava di un libro che chiaramente si svolgeva nella Torino d’oggi. Faceva la satira di una certa borghesia, grande e piccola, tipica, secondo gli autori, di questa città. In un film moderno, in cui ci si sposta fra la gene con la macchina da presa, l‘obiettivo capta replica tag heuer sempre delle cose inusuali, magari addirittura impreviste, che per via della localizzazione danno spessore all’immagine. Del resto è la lezione del neorealismo: girare in scenari veri, fra la gente vera, con la gente vera» (L. Comencini, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).

«Dovevo fare il commissario Santamaria, un meridionale immigrato a Torino che doveva indagare su uno strano delitto. Il film era La donna della domenica, ed era tratto da un romanzo di Fruttero e Lucentini, che si erano ispirati per il personaggio a un commissario della Squadra Mobile molto noto in città. Io però non lo conoscevo ed ero un po’ imbarazzato di fronte a tutti i giornalisti che mi dicevano: “Ma come gli assomigli, ma sei proprio identico”. Del film mi piaceva l’idea che si raccontasse un’altra Torino, la Torino della borghesia, la Torino segreta delle ville in collina e dei vizi inconfessabili, la Torino che vede però le signore della buona società andare senza problemi al mercato delle pulci mescolate con tutti gli altri. Sono sensazioni che si possno vivere soltanto qui» (M. Mastroianni, Ibidem).






Gran parte della fascinazione che Torino produce in chi vi si accosta dall’esterno risiede in genere nella contraddizione tra una corazza austera, rigorosa, elegante anche se vagamente rétro, e un nascosto substrato estremamente fervido, vivace, multiforme, ricco di fermenti sorprendenti: è questa l’idea che spinge gli scrittori Carlo Fruttero e Franco Lucentini a cimentarsi in un romanzo poliziesco capace di cogliere una certa idea di “torinesità”. «Un giorno ci venne un’idea comune: la voglia di scrivere qualcosa su Torino. L’idea di confrontarci letterariamente con una grande città moderna, con tutte le sue classi sociali, le macchine, il subbuglio, ci esaltava. Ci pensammo a lungo, poi cominciammo a scrivere dei bozzetti, degli aneddoti, imperniati sulla figura centrale di una signora torinese. Infine ci dicemmo: “Perché non farne un romanzo?”. Però, convinti della validità della tecnica Zen, per cui tu miri là per colpire qui, non abbiamo detto: “Facciamo un grande romanzo su Torino”, ma “Facciamo una bella storia poliziesca e la ambientiamo a Torino”. Così è nata La donna della domenica».

Il primo lettore del libro (pubblicato nel 1972), Luigi Firpo, afferma che quella di Fruttero e Lucentini «è una Torino vera fino alla sfumatura dialettale dei diversi ceti e del dettaglio topografico. […] Ogni lettore che ci abiti non potrà fare a meno di ravvisarvi il ritratto di un vicino di casa» (L. Firpo, “La Stampa”, 25.5.1972).

«Il romanzo di Fruttero e Lucentini aveva rilanciato il giallo in letteratura (fioriranno – e presto sfioriranno – le collane dedicate ai giallisti italiani), abbandonando il giallo d’azione su sfondi italiani a favore di uno svolgimento più vicino al giallo ad enigma» (C. Bragaglia, Il piacere del racconto, La Nuova Italia, Firenze, 1993).

 

In seguito al grande successo editoriale de La donna della domenica (14 edizioni e 200.000 copie vendute in Italia, 18 traduzioni nel mondo) nasce l’idea di farne un film: una grossa produzione internazionale e la regia affidata a Luigi Comencini, autoreinsofferente alle costrizioni normative dei generi cinematografici, che pare attraversarli e percorrerli con estrema disinvoltura, ridisegnandone i confini, riformandone i codici per dar vita a un proprio originale e inconfondibile stile, in cui il peculiare tratto è nella ricerca di compenetrazione nell’umanità più profonda dei suoi personaggi.

Per Age e Scarpelli non è stato facile tradurre il romanzo in sceneggiatura, in quanto la narrazione è povera di colpi di scena, ma si basa soprattutto sui personaggi, sui caratteri, sull’ambiente cittadino, sui dialoghi, sul linguaggio parlato. «In principio, e alla fine», nota Bruno Gambarotta, «c’è la parola. La donna della domenica inizia con una discussione sull’esatta pronuncia di “Boston” e termina con la corretta interpretazione di un vecchio proverbio piemontese, “La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra”» (B. Gambarotta, “tuttoLibritempoLibero”, supplemento de “La Stampa”, 9.2.2002).

Ma il lavoro di Comencini è eccellente, e positivi sono anche i giudizi sull’adattamento cinematografico del romanzo: F. & L. stessi si dichiarano molto soddisfatti. «Dice Lucentini: “Noi avevamo cercato di fare un libro scritto benino, rispettando le regole del giallo. Comencini ha fato la stessa cosa sullo schermo”. E le battute aggiunte da Age e Scarpelli? “Sono divertentissime, dice Fruttero; sembra quasi invidioso di non averci pensato prima lui. Confessa, in più tratti, di avere riso durante la proiezione. “Ridevo come vedessi una storia di cui non sapevo niente”. “È bello perché è diverso. Se fosse uguale non ci saremmo divertiti”, aggiunge Lucentini. Gli autori cercano di non domandarsi se la Anna Carla dello schermo (Jacqueline Bisset) era quella, insieme chiara e sfuggente, piena di trasparenti contraddizioni, immaginata da loro. Preferiscono ricordare l’ambientazione del film, nella quale riconoscono la “loro” Torino. “Io credevo che ci fosse una Torino fatta di esterni e attraverso questa si arrivasse alla storia – dice Lucentini -. Invece la città viene fuori dalla trama del film, prima che dagli ambienti”» (G. Calcagno, “La Stampa”, 17.12.1975).

«Il film è una delle poche opere italiane che siano al tempo stesso dichiaratamente commerciali e impeccabilmente confezionate. Possiede un ritmo sicuro e incalzante e poco cambia rispetto al romanzo […]. Come nel romanzo, la città ha un ruolo di primo piano: ambigua, classista nel fondo, chiusa e al tempo sesso metropolitana, lontana da tutto e cosmopolita. Su questo strano palcoscenico si muovono i personaggi del romanzo, in una sorta di balletto dalle mosse perfettamente congegnate che conducono alla scoperta dell’assassino r della ragione del duplice omicidio» (C. Bragaglia, Op.cit.).

Comencini riesce a trasporre in maniera soddisfacente l’idea della “torinesità” e quell’aura, quell’atmosfera colta con grande ironia tra le righe del romanzo, attraverso una sceneggiatura che – nello stile classico di Age e Scarpelli – fa della lingua e delle inflessioni dialettali un elemento interno alla struttura dell’opera, un motore della sua azione, ma soprattutto attraverso la qualità della storia poliziesca, l’indagine difficoltosa e sonnecchiante – tra ville della collina e centro città – di un commissario che annaspa disorientato in una città a lui sconosciuta, che attraverso un’opposizione salda e misteriosa vanifica ogni suo tentativo di penetrarla e di comprenderne le contraddizioni.

Filo conduttore del film è lo spaesato (nel vero senso della parola) commissario interpretato da Marcello Mastroianni, impegnato in uno di quei ruoli di uomo tranquillo, affabile, garbato, che appaiono congeniali alla sua natura vagamente indolente e sorniona. Il film, che si colloca nella fase più matura del suo lavoro, mette in luce la capacità pressoché assoluta di dominare gli strumenti interiori ed esteriori della propria arte, in modo da attribuire una risonanza vibrante alla gamme delle emozioni e degli atteggiamenti, in un vero e proprio virtuosismo espressivo. Unico attore del cast del film in qualche modo legato a Torino (se non altro per avervi trascorso la propria infanzia), Mastroianni è affiancato da colleghi d’oltralpe come Jean-Louis Trintignant, scisso tra il perbenismo impostogli dalla famiglia e il desiderio di vivere liberamente e felicemente i propri sentimenti omosessuali, e Jacqueline Bisset, che ben incarna l’ideale di donna dei film di Comencini, caratterizzata da una dimensione di attivismo quasi nevrotico e di misteriosa inconoscibilità.



Scheda a cura di
Franco Prono

Persone / Istituzioni
Luigi Comencini
Age (Agenore Incrocci)
(Furio) Scarpelli
Luciano Tovoli
Ennio Morricone
Marcello Mastroianni
Jean Louis Trintignant
Aldo Reggiani
Maria Teresa Albani
Omero Antonutti
Gigi Ballista
Claudio Gora
Lina Volonghi
Pino Caruso
Tina Lattanzi

Luoghi
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