Altri titoli: We All Fall Down
Regia Davide Ferrario
Soggetto Dal romanzo omonimo di Giuseppe Culicchia
Sceneggiatura Davide Ferrario
Fotografia Giovanni Cavallini
Operatore Massimiliano Trevis
Musica originale C.S.I. Consorzio Suonatori Indipendenti
Musiche di repertorio CCCP, CSI, Marlene Kuntz, Il Santo Niente, Disciplinata, Africa Unite, Ustmamò, Madaski, Lou Dalfin, Umberto Palazzo, AFA, Sergio Berardo, Corman & Tuscadu
Suono Tiziano Crotti
Montaggio Luca Gasparini, Claudio Cormio
Effetti speciali Stefano Ballirano
Scenografia Franca Bertagnolli
Costumi Cristiana Bruguier Pacini, Emanuela Pischedda
Trucco Nadia Ferrari
Aiuto regia Enrico Verra
Interpreti Valerio Mastandrea (Walter Verra), Carlo Monni (padre di Walter), Benedetta Mazzini (Valeria), Gianluca Gobbi (Alessandro Castracan), Caterina Caselli (zia Caterina), Tommaso Ragno (Lurido), Sergio Troiano (Lupo), Luciana Littizzetto (impiegata delle Poste), Adriana Rinaldi (madre di Walter), Alessandra Casella (giornalista), Roberto Accornero (professor Trepp), Andrea Moretti (Pasquale), Anita Caprioli (Beatrice), Alessandro Partexano (medico militare)
Casting Barbara Daniele
Ispettore di produzione stripslashes(Lia Furxhi)
Produttore esecutivo Mino Barbera
Produzione Gianfranco Piccioli per Hera International Film
Distribuzione Columbia Tristar Films Italia
Note Operatore steadycam: Massimiliano Trevis; fotografo di scena: Enrico Appetito; suono in presa diretta; montaggio del suono: Tiziano Crotti; assistente al montaggio: Tommaso Gramigna; aiuto scenografo: Alessandro Marrazzo; assistente scenografo: Francesca Bocca; sarta: Maria Castrovilli; parrucchiera: Rosalia Pecoraro; assistente alla regia: Chiara Cremaschi; altri interpreti: Tina Venturi (Alberta), Marco Casellato (Marco), Mara Redeghieri (assistente universitaria), Sergio Berardo (suonatore di fisarmonica), Wladimir Luxuria (viado), Giovanni Lindo Ferretti, Paolo Belletrutti, Claudio Bertoni, Alessandra Botticelli, Cristina Maccà, Giorgio Molino, Beppe Rosso, Elisabetta Cavallotti, Laura Saraceni, Raffaele Vannoli, Massimo Zamboni, Roberto Schinardi, Francesca Vettori, Valentina Calabrò, Alessandro Marrapodi, Susan Rennie Geiger, Benedetta Francardo; direttore di produzione: Emanuela Carozzi; segretaria di produzione: Simonetta Marocco, Fabio Tagliavia, Andrea Odasso; direttore amministrativo: Pietro Caliandro; teatri di posa: Unistudio, Torino.
Il film è stato realizzato con il contributo del Dipartimento Spettacolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la collaborazione di Regione Piemonte, Città di Torino, Banca Nazionale del Lavoro e con il sostegno dell’European Script Fund, programma Media dell’Unione Europea.
Alla fine del film compare una didascalia: «Questo film è dedicato a Lindsay Anderson. “Bite the Hand”»
Premio a Valerio Mastandrea come Miglior Attore al Festival di Locarno 1997.
Sinossi
Walter Verra è un ventiduenne tornato controvoglia in famiglia a Torino dopo un’adolescenza trascorsa a Roma. Senza soldi, senza lavoro e senza prospettive, ma dotato di una feroce quanto disarmante ironia, ciondola su e giù per le vie del centro, osservando gli odiati e invidiati segni della ricchezza e fantasticando di una storia d’amore che valga la pena di essere vissuta. Frequenta all’università la Facoltà di Filosofia, ma lo fa più per inerzia che per convinzione, così come fa il servizio civile presso un centro di assistenza per nomadi ed extracomunitari. La morte dell’amata zia Caterina in un incidente stradale gli fa perdere le ultime speranze e illusioni. Tuttavia un suo racconto viene inserito in un’antologia curata da Pier Vittorio Tondelli e Walter trova un lavoro in un ipermercato. Al lavoro incontra Fatima, una bella coetanea conosciuta al campo nomadi. Forse inizia l’età adulta, forse esplode una nuova rabbia che nell’inquadratura finale per un attimo accomuna il giovane arrabbiato al padre riottoso.
Dichiarazioni
«Ho cominciato a frequentare Torino negli anni Settanta, quando la mia amica Donata Pesenti Campagnoni si trasferì in città per lavorare al progetto di animazione teatrale voluto da Liberovici durante la giunta Novelli. Avevamo entrambi vent’anni: adesso Donata è la curatrice del Museo del Cinema e io faccio il regista. Non credo che l’avremmo mai immaginato, nemmeno nelle fantasie più sfrenate. Ma negli anni Settanta a Torino c’erano troppe cose da fare per perdere tempo a sognare: la città era terribilmente vitale. […] È stato quindi per caso, ma non a caso che sono finito qui a girare Tutti giù per terra. La scelta era in qualche modo obbligata, essendo il libro ambientato in città, ma la collocazione non era così forte che non si sarebbe potuta trasportare altrove. In fin dei conti Walter, il protagonista, attraversa delle situazioni quasi archetipiche, che avrebbero funzionato in qualsiasi contesto urbano. Tanto è vero che, dal punto di vista degli attori, mi sono preso ampie libertà regionali, dal romano Valerio Mastandrea al fiorentino Carlo Monni fino a Caterina Caselli. (In quella famiglia l’unica vera torinese, Adriana Rinaldi, non parla mai perché il personaggio è afasico...). Torino era insostituibile non tanto come scenario, ma come personaggio muto. Ho spesso ripetuto che la città è straordinaria dal punto di vista architettonico. Non perché è “bella” in senso generico: ma perché, per esempio, basta prendere il “3” per passare dal centro alle Vallette e già solo filmare quel tragitto di tram, dall’ex capitale al Fiat-Nam, narra una storia. Il punto è proprio questo: Torino è estremamente varia, forse spesso contraddittoria, ma è soprattutto una città che racconta. […] Semmai, con Tutti giù per terra, ho tradito la città dal punto di vista musicale, optando per i Csi e gruppi collegati e ignorando quasi del tutto la scena cittadina a cominciare dai Mau Mau, anche se nella colonna sonora ci sono Madaski e un pezzo degli Africa Unite, e i Marlene Kuntz, ancorché scarnificati da un montaggio assassino... Non certo per mancanza di stima, però con i Csi, data la contiguità personale e artistica, c’era la possibilità di costruire facilmente un progetto che invece con altri avrebbe dovuto essere concepito ex novo e con tempi troppo lunghi» (D. Ferrario, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura di, Torino città del cinema, Il Castoro, Milano, 2001).
Primo film di Davide Ferrario a Torino, città nella quale si trasferisce e ambienta parte del suo film successivo, Figli di Annibale (che inizia nella periferia torinese). Primo film in Piemonte anche per Gianfranco Piccioli, coraggioso produttore che negli anni Ottanta lancia Francesco Nuti e che torna in Piemonte per Ormai è fatta! di Enzo Monteleone.
Torino, inedita e inquietante, è vista dal basso, dai piedi in marcia che percorrono marciapiedi, o è vista verso l’alto con squarci di cielo tra file interminabili di anonimi palazzi. La città, nell’unico “totale”, è vista da sopra, dal culmine delle strutture vuote della Mole Antonelliana (all’epoca non ancora sede del Museo del Cinema), una visione cinematografica dal monumento delle visioni meravigliose.
«Godetevi questo Tutti giù per terra dalla prima all’ultima sequenza, ma non date retta a chi vi parla di spaccato sociale, di ritratto di una condizione disagiata, di sguardo sulla perdita dei valori dell’età post-adolescenziale e di altre amenità. […] Il film di Davide Ferrario, ex-critico cinematografico, per fortuna non vuole essere niente di tutto questo e riesce persino, nel suo “distacco” dalla facile sociologia, a superare il testo di riferimento, quel Tutti giù per terra scritto da Giuseppe Culicchia. […] La forza del lavoro di Ferrario è tutta nella “messa in scena” del racconto (le incursioni nell’estetica “videoclippara” – inquadrature sghembe, immagini rutilanti, mix cromatici, stacchi violenti – dimostrano che il linguaggio e l’iconografia del video non sono sempre una specie di virus che infetta la visione), ma anche nel ritmo, nella buona conduzione dei protagonisti, nel sapiente dosaggio di elementi eterogenei: la comicità, la tinta grottesca, la malinconia… Il “mestiere del cinema” insomma, quello che tanto manca ai registi del nostro paese» (M. Gervasini, “Panoramica Panoramiques”, n. 18, autunno 1997).
«Per raccontare il disagio d’un ragazzo contemporaneo, Davide Ferrario […] affronta il romanzo di Culicchia alla maniera di certi giovani registi americani: grottesco, autoironia, senso del ridicolo, molta musica, niente pathos, mai lagna. Adotta uno stile molto diverso da quello dei suoi inizi, più facile e manierato ma forse più adatto a comunicare con gli spettatori giovani: inquadrature sghembe, rovesciate, frammentate o velocizzate, intermezzi surreali di immaginazioni-desiderio, voce-guida» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 28.4.1997).
«Come il “romanzo” di Culicchia tre anni fa ha costituito […] una bella “rottura” dell’asfittico panorama editoriale, così il film di Ferrario costituisce oggi una “sgradevole” novità nel campo di un imperante minimalismo filmico, fatto di bei panorami, di agghindati interni, di futili dialoghi e di molte servitù teatrali. Una premessa anche per dire che la filiazione letteraria non pesa su una trascrizione che è in buona parte una reinvenzione, che i due prodotti si possono ignorare (o essere ignorati) reciprocamente […] Cercare delle ascendenze è sempre pericoloso. Se può apparire sin troppo generosa l’espressione “un piccolo Holden” attribuita da Cesare Cases all’eroe di Culicchia (che è molto più leggero e ironico, molto meno spavaldo e dissacrante rispetto all’eroe di Salinger), appare certo deviante il riferimento a Ecce Bombo proposto da qualche critico per il film di Ferrario, autore che è immune dal moralismo e dalla spocchia, dall’autoflagellazione e dalla pedanteria di quel Nanni Moretti» (L. Pellizzari, “Cineforum”, n. 3, aprile 1997).
«Non è casuale la dedica a Lindsay Anderson che si legge nei titoli di testa. In effetti, lo spirito che aleggia in Tutti giù per terra non è poi così distante da quello che pervadeva alcune commedie del cinema inglese, primi anni Sessanta, come Billy il bugiardo di Schlesinger o Non tutti ce l’hanno di Lester» (M. Argentieri, “Cinemasessanta”, n. 3-229, maggio/giugno 1996).
«Tutti giù per terra potrebbe diventare il piccolo Trainspotting italiano. Le analogie non mancano. Anche qui – a parte le affinità stilistiche, innegabili – c’è una colonna sonora da brivido. Diversa da quella del libro: pure un libro può avere una colonna sonora – lo conferma Culicchia, “Io scrivo a orecchio, cerco di far entrare la musica nelle parole…” – ma nel romanzo c’è il punk vecchia maniera, Ramones, Clash, Sex Pistols. Invece Ferrario ha radunato attorno al progetto del film le migliori menti della scena rock nazionale di oggi. Rock in senso lato: perché accanto ai Csi, che firmano le partiture originali, debordano – Oh battagliero, Spara Juri – reliquie dei Cccp, che dei Csi sono le radici, e s’accavallano i contributi della scena più attuale […] Musiche criminali e strappanervi, dai dub radicali al folkpunk (G. Ferrari, “La Stampa”, 22.4.1997).
«Tutti giù per terra (1997) conferma la voglia di raccontare un Nord nel quale l'attenzione si focalizza sul contesto metropolitano e postindustriale perfettamente sintetizzato dallo scenario di Torino, città di adozione dello stesso regista. Il film, tratto dall'omonimo cult letterario di Giuseppe Culicchia, torna a mettere in scena un ribelle senza causa il cui nichilismo è tuttavia meno arrabbiato e più rassegnato rispetto a quello dei due protagonisti dell'opera prima. Il Walter del film, studente di filosofia fuori corso, ha i tratti dolenti (e al tempo stesso indolenti) di Valerio Mastandrea (da qui lanciato nell'Olimpo dei giovani attori italiani), un "romano a Torino" (opportunamente giustificato con un escamotage di sceneggiatura), il cui sguardo fortemente soggettivato sull'ambiente circostante si traduce in una serie di trovate espressive che Ferrario sembra parzialmente mutuare dal Danny Boyle di Trainspotting (film uscito d'altronde solo un anno prima). L'ampio impiego di inquadrature sghembe e di un montaggio nervoso la cui cifra è costituita dalla mancanza di raccordi e dalla continua giustapposizione di accelerati e rallentati - confermando l'urgenza di sperimentazione di un regista che qui si avvale per la prima volta anche dell'editing digitale - si rende così funzionale a suggerire nello spettatore uno smarrimento ed un disagio pari a quelli provati dal protagonista nei confronti del mondo che lo circonda. Tale frenesia visiva si traduce coerentemente in un paesaggio urbano frazionato nel quale la periferia si mescola con il centro, i casermoni popolari con i monumenti storici, il contesto della fabbrica con quello dell'università, configurando un territorio sostanzialmente inospitale e caotico il cui ideale contrappunto è la campagna, subito fuori dalla città, dove abita la vitale e anticonvenzionale zia Caterina (Caterina Caselli), nella quale Walter trova l'unico riparo dal proprio malessere» (C. Uva, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
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