«Abbiamo iniziato con Ouverture nel 1984 ma non sapevamo che avremmo proseguito su questa strada. Per noi era l'occasione di entrare in un museo nuovo, il Castello di Rivoli costruito dallo Iuvarra, con degli spazi molto particolari che per la prima volta si trasformavano sotto i nostri occhi in un luogo per l'arte contemporanea. Per noi era un atelier d'arte enorme, il più grande che avessimo potuto immaginare. Queste sono state due fascinazioni molto forti. In due settimane, abbiamo girato 15 ore per montare un lavoro di 15 minuti. Con Ouverture io e Marco abbiamo capito che vi erano delle cose veramente interessanti che potevamo e dovevamo approfondire. La nostra esperienza, che fino a quel momento era stata fondamentalmente di cinema, poteva benissimo rientrare in gioco. Abbiamo fatto una scommessa: fare cinema dentro l'arte contemporanea. Nessuno di noi ci aveva mai pensato. Abbiamo subito capito che non ci interessava il documentario classico, quello che descrive anziché raccontare. Volevamo utilizzare il modo di raccontare del cinema come linguaggio. Qui entra in campo un fattore fondamentale: l'emozionalità che sta dentro al cinema: il cinema è emozione e sentimento. Come fare questo sull'opera di altri? Così abbiamo pensato di utilizzare l'artista e l'opera come i protagonisti del nostro racconto. Il divenire dell'opera crea il racconto e il protagonista del film, l'artista, ci guida con il suo fare. lo e Marco così non sappiamo mai dove stiamo andando. Nel cinema, solitamente, c'è una sceneggiatura, ma il regista a mano a mano che va avanti scopre la sua storia e la può modificare. Inoltre, noi non siamo esperti conoscitori d'arte. Secondo me, paradossalmente, per conoscere bisogna non-conoscere, solo così ci si ripulisce lo sguardo e questo è fondamentale quando si lavora sull'opera di altri» (G. Barberi, in P. Scremin, a cura di, Gianfranco Barberi e Marco Di Castri. Quando il video incontra il cinema, Antenna Cinema Arte, XXVIII Festival Internazionale del Film sull’Arte, Treviso, 1996).
«Non tutti gli artisti amano che la loro immagine sia associata al proprio lavoro, pensiamo al concettuale LeWitt che fa addirittura eseguire il lavoro alla sua équipe. Non siamo riusciti a girarlo. Anche in Ouverture, dove noi giravamo con un occhio ancora "ingenuo", qualche artista che si è visto ripreso senza preavviso, ci ha chiesto la cancellazione delle immagini, salvo poi ricredersi e venire a cercarci alcuni giorni dopo, chiedendoci di filmare la propria installazione. A volte avvicinarsi alle cose senza barriere critiche può portare a delle incomprensioni. Ma è giusto che emerga una sana diffidenza da parte dell'artista che non conosce il tuo lavoro. Molti artisti hanno avuto brutte esperienze con la televisione, per esempio, che tende a uniformare le opere» (M. Di Castri, Ibidem).