Nella stagione dei trionfi del neorealismo, Mario Soldati dimostra di essere un regista capace di realizzare film diversi da quelli “calligrafici” e “formalisti” fatti fino ad allora (Piccolo mondo antico, Malombra). In Fuga in Francia riesce ad amalgamare in modo gradevole umori diversi provenienti in parte dalla maniera neorealista, in parte dal noir americano, senza peraltro trascurare la confezione raffinata dello spettacolo “popolare”.
«Soldati individualmente, forse casualmente, riuscì almeno in un caso significativo a collocarsi "dentro" una cornice di riferimento: realizzò un solo film di vaga ascendenza neorealista e impronta politica, Fuga in Francia, nel 1948. Invece tutti gli altri titoli fecero un po' storia a sé all'interno del percorso dello scrittore per vocazione e cineasta per necessità. [...] La politicità del film di Soldati sta tutta nella capacità di riflettere un clima di cambiamento, di crisi, di ripensamento. E un film dunque che, ad un certo punto, sembra volere assumersi il compito di configurare l'effetto politico della complessità, di misurarsi con una realtà articolata, di tutti, dove le questioni, i tempi, le realtà politiche e umane si sommano, si scontrano, si sovrappongono e reclamano uno sguardo d'insieme. Facendo esplodere al suo interno contraddizioni di ogni sorta cerca di comprendere un insieme di ragioni di varia provenienza, di osservarle simultaneamente, non di giustificarle o di conciliarle. [...] Certo, è in qualche modo un film ancorato al passato, a una "maniera" narrativa dove la contrapposizione tra Bene e Male, ovvero tra antifascismo e fascismo garantisce la solidità dell'impianto. Un film che non ha raggiunto un livello politico compiuto [...] Indubbiamente quello neorealista, pur nella sua varietà di esemplari, contingenze produttive e scelte autoriali, era stato un cinema politico: politico era lo sguardo nuovo sulle classi popolari e sulle miserie d'Italia, mistificato dal cinema d'evasione o calligrafico voluto dal fascismo; politico era spesso sinonimo di "antifascista"; politica era ovviamente la lotta di classe, nonché il tentativo, ridimensionato dall'esito elettorale del 1948, di creare un cinema popolare e ideologico che dialogasse con le masse, secondo i canoni prevalenti dei marxismo. Se Fuga in Francia contiene elementi di una politicità nuova, non riconducibile né a schemi ideologici definiti né a spinte qualunquiste, ciò accade perché riesce ad articolare una serie di contraddizioni. Le rende presenti. E "compresenti"» (A.G. Mancino, “Cinecritica”,n. 44, ottobre-dicembre 2006).
Soldati riproduce con attenzione la realtà fisica dei luoghi attraversati dal protagonista e dal figlio nel loro breve viaggio, da Moncalieri (alle porte di Torino), a Oulx in Val di Susa, allo Chaberton, al Moncenisio. In questi pochi chilometri il regista riesce a raccontare la vita del personaggio e quella dei suoi antagonisti, inserendoli in un territorio ben caratterizzato storicamente e culturalmente. Il dialetto, le canzoni di montagna, i racconti della gente nelle osterie conferiscono verità e vivacità a tutta la vicenda.
La struttura narrativa è invece debitrice soprattutto degli schemi linguistici del genere noir, che non contrasta affatto spiacevolmente con i dati naturalistici già osservati. Pietro Germi, qui ottimo attore nel ruolo di un reduce, sembra quasi anticipare in Fuga in Francia la concezione di cinema che avrebbe portato avanti nei film di cui sarebbe stato attore e regista, amalgamando anche in questi realismo, noir e melodramma.
La critica dell’epoca non riconobbe la complessità dell’operazione compiuta in questo film, la commistione tra generi e stili diversi. Secondo Giuseppe Turroni, con Fuga in Francia Soldati ha abbandonato «l’ottocento romantico e sentimentale e il decorativo formalismo», avviandosi «verso il così detto neo-realismo. Soldati, temendo di cadere nella letteratura, ha narrato la vicenda, di per se stessa povera di fatti, con una distaccata e quasi cronachistica freddezza. Proprio l’opposto del suo temperamento: che, d’altronde, si ritrova in alcune sequenze come quella, bellissima, risolta con una finezza di notazioni esemplare, della notte d’amore di Gino e Pierina. Si noti l’uso del materiale plastico: la sciarpa e la canzone, scritta sul foglio, che i due hanno precedentemente cantato e che Gino fischietta mentre la ragazza giace morta» (G. Turroni, Hollywood”, n. 181, 5.3.1949).
Di parere completamente diverso è Guido Aristarco, il quale non riscontra una “rottura” tra questo film e quelli realizzati in precedenza: secondo lui Soldati «crede forse di aver abbandonato il mondo e la maniera cinematografica a lui cari: l’Ottocento e la “pittura” dei precedenti film […] In verità anche questo Fuga in Francia può, in un certo senso, dirsi ottocentesco nel senso, cioè, che mancando problemi attuali, personaggi e ambienti sono “contemporanei” solo perché hanno una veste esteriore di contemporanei. E come tali essi sono pretesti, semplici elementi che servono a Soldati per la sua consueta rettorica letteraria. In fondo, sono “il colore”, la “macchietta”, il “dialetto” che ancora una volta lo interessano:l’”elzeviro”, in altre parole. […] Senonché gli elzeviri cinematografici di Soldati non uguagliano gli elzeviri della pagina dello stesso Soldati. […] All’attivo di Soldati va messa la sequenza della identificazione del criminale, da parte dei due operai e del Tunisino. Qui i vari elementi visivi e sonori raggiungono contrappunti e un ritmo emotivo efficacissimi» (G. Aristarco, “Cinema”, n. 8, 15.2.1949).
Un buon rilievo espressivo hanno appunto anche la musica di Nino Rota, la scenografia di Piero Ghepardi e la fotografia di Domenico Scala e Armando Nannuzzi; ma fulcro di tutto il film è la figura imponente del protagonista, Riccardo Torre, un essere bieco, viscido, complesso e misterioso, un vero e proprio gigante del male che non si ferma di fronte a nessun imperativo morale. Il bravissimo Folco Lulli dà al personaggio un volto terribilmente espressivo, una presenza fisica imponente e paurosa che fa pensare all’Orson Welles di Il terzo uomo. I frequenti primi piani, l’illuminazione dal basso di tipo espressionista, conferiscono al volto di Torre e al suo corpo, chiuso come in una corazza dentro un cappottone nero, una valenza simbolica che va oltre i dati naturalistici della raffigurazione.
Si noti che Lulli nella sua vita ebbe un curioso destino: durante la guerra fu uno dei pochissimi attori attivamente impegnati nella Resistenza e nel dopoguerra si trovò a dover interpretare spesso il ruolo di un bieco fascista.