Altri titoli: Sons, Sons and Daughters
Regia Marco Bechis
Soggetto Marco Bechis, Lara Fremder
Sceneggiatura Marco Bechis, Lara Fremder
Fotografia Fabio Cianchetti
Musica originale Daniel Buira, Jacques Lederlin, “La Chilinga”
Suono Tullio Morganti
Montaggio Jacopo Quadri
Scenografia Caterina Giargia, Paolo Polli
Arredamento Francesca Tessari
Costumi Caterina Giargia
Trucco Paola Gattabrusi
Aiuto regia Emiliano Torres, Duccio Fabbri
Interpreti Carlos Echevarria (Javier Ramos), Julia Sarano (Rosa Ruggeri), Stefania Sandrelli (Victoria Ramos), Enrique Pyneyro (Raul Ramos), Evita Ciri (Alessandra, fidanzata di Javier), Antonella Costa (Ana, la partoriente), Delia Caseau (Julia Borman, l'ostetrica), Marcelo Chaparro (militare in borghese), Adrian Fondari (militare in borghese), Pablo Razuk (militare in divisa), Romina Paula (madre nel sogno), Santiago Traverso (padre nel sogno), Monserrat Alcoverro (dottoressa), Blanca Martinez (impiegata ospedale)
Casting Laura Muccino, Anna Maria Sambucco, Emiliano Torres
Direttore di produzione Francesca De Filippi, Valeria Licurgo
Ispettore di produzione Leonardo Recalcati
Produttore esecutivo stripslashes(Gianluca Arcopinto), Gianluca Arcopinto
Produzione Amedeo Pagani per Storie s.r.l. e Vittorio Cecchi Gori per C.G.G. Fin.Ma.Vi.
Distribuzione Cecchi Gori Distribuzione, Medusa Film
Note 2900 metri.
Fotografo di scena: Andrea Resmini; Dolby Sr.; suono in presa diretta; montaggio del suono: Daniela Bassani; effetti sonori: Massimo Rocchi; fonico di mixage: Alberto Doni; assistenti al montaggio: Valentina Andreoli, F. E. Algeri Bricoli; coordinatore della postproduzione: Cesare Apolito; assistente alla regia: Giulio Lurà; organizzatore: Gianluca Arcopinto; consulenti artistici: Enrique Ahriman, Caterina Giargia; consulenti H.I.J.O.S.: Carlos Pisoni, Veronica Castelli, Maria, Wado; produzione Storie s.r.l.: Luigi Billi, Irene Ranzato, Riccardo Chiarinelli; consulente paracadutismo: Veniero Amprino; segretaria di edizione: Antonella Licata.
Le sequenze in cui appare la villa in cui vive Javier sono state girate sulla collina torinese.
Premio Cinema per la Pace alla 58^ Mostra del Cinema di Venezia; e Premio Aiace 2001; David di Donatello 2002 a Stefania Sandrelli come Migliore Attrice non Protagonista.
Sinossi
9 dicembre 1977. In un ospedale di Buenos Aires, Ana, una giovane donna, partorisce due gemelli, un bambino e una bambina. Fuori dalla sala parto due uomini s’impadroniscono subito del bambino (Javier), la sorella (Rosa) viene nascosta da un’ostetrica, mentre la madre è trascinata via dai militari. Ventitré anni dopo Rosa riesce ad avere notizie del presunto fratello scomparso che vive nel benessere in Brianza con una nuova famiglia, e prende contatto con lui tramite e-mail svelandogli il loro passato. Quando la ragazza si presenta personalmente, Javier decide di seguirla alla ricerca di indizi che possano provare la loro parentela. Si recano a Barcellona, trovano l’ostetrica che fece nascere i due gemelli nel lontano ‘77 e richiedono l’esame del DNA.
Dichiarazioni
«Oggi, in Argentina, Cile, Uruguay e tanti altri paesi latinoamericani, della mia generazione (quelli che avevano vent'anni negli anni settanta) sono rimaste solo le ossa. I parenti delle vitttime scomparse, quando hanno avuto fortuna, hanno ritrovato i figli, i mariti, le mogli, i fratelli e sorelle in qualche fossa comune, la grande maggioranza degli scomparsi del continente, sono scomparsi nel nulla: cimiteri clandestini non ancora ritrovati e il mare. Uno strano cimitero, il mare. Qui in Europa la stessa generazione oggi dirige giornali, imprese, conduce programmi radio e tv. In America Latina è stata decimata. Migliaia e migliaia di morti giovani a cavallo tra gli anni settanta e gli ottanta, un decennio appena. […] E i bambini. Rubati sul nascere alle giovani madri che partorivano nei campi di concentramento. […] Quando uscì Garage Olimpo a Buenos Aires, il pubblico non andò in sala, faceva la fila per andar a vedere l'ultimo film premiato a Cannes. Poteva sembrare che non volessero vedere qualcosa che li riguardava, invece per molti era un film su qualcosa successo "allora", in un'altra dimensione, quasi in un altro luogo. È difficile trovare qualcuno che veramente, dico veramente, sappia e che senta su di sé la quota di responsabilità che gli tocca. Sono pochi. Come sono pochi quelli che si battono perché tutti quei morti e desaparecidos siano parte della storia del proprio paese: nonne, madri e figli di scoparsi che sono stati colpite direttamente dalla violenza militare. La grande maggioranza sente di essere passata indenne da quella tragedia, quindi continua a tenersene alla larga» (M Bechis, “Alias”, supplemento de “il manifesto”, 9.2.2002).
«Nel film parlo del sequestro e del traffico dei bambini nati dai desaparecidos, reso pubblico dalle Nonne di Plaza de MaYo, che hanno una loro banca genetica. Bisogna cercare la verità, ognuno di noi ha il diritto di sapere chi è. Il pensiero conformista di destra dice: "Non bisogna cercare questi giovani, vanno lasciati in pace, non dobbiamo turbare la loro tranquillità familiare". Io credo invece che anche dopo vent'anni bisogna cercare la verità e smascherare i responsabili del sequestro di bambini, che spesso sono anche i responsabili della scomparsa dei veri genitori. Si stima che in Argentina tra il '76 e l'84 i bambini scomparsi dopo la nascita siano circa 500, i casi denunciati sono solo 250. Settantadue sono stati ritrovati vivi (oggi hanno tra i venti e i venticinque anni), otto di loro sono stati ritrovati morti nei cimiteri clandestini, quattro di loro hanno preferito rimanere con i genitori finti, con le mamme che avevano finto la gravidanza col cuscino e si sono impossessate dei neonati. [...] Ci sono anche "Hijos" che hanno rifiutato la prona del Dna e la scoperta della verità biologica, difendendo la propria pace e l'impunità di quelli che riconoscono come genitori. Tenendo le distanze da ogni soluzione consolatoria, e mettendo anche in conto che possono essersi verificati casi di “adozione" in buona fede per quanto illegali, difendo la scelta di accusare chi si è macchiato di responsabilità mostruose. [...] Grave è che non sia stata fatta giustizia. C'è stata impunità per chi ha creato i lager, per chi li ha protetti, ma il furto dei figli non è un reato da amnistiare, anche se quei signori li consideravano un bottino di guerra» (M. Bechis, “Cinecritica” n. 25, gennaio-marzo 2002).
«Il colpo di Stato militare in Argentina del marzo 1976 dette la presidenza della Repubblica al generale Videla e governò il Paese sino al 1982. In quegli anni di regime militare, caratterizzati da feroci repressioni e dal massacro degli oppositori, scomparvero circa 500 bambini, figli di militanti dei sindacati, della sinistra o della guerriglia. I genitori venivano uccisi, a volte lanciandoli in mare dall’alto di aerei. I piccoli venivano dati o venduti a famiglie vicine al governo, ai servizi o alla polizia, che non avevano figli e ne volevano. Questi bambini, detti “apropriados”, hanno oggi 20-25 anni: spesso non sanno chi sono, da dove vengono, chi erano i loro veri genitori “desaparecidos”. Secondo alcuni, dovrebbero essere mantenuti all’oscuro della loro origine; secondo altri sarebbe mostruoso non permettere loro di fare i conti con vent’anni di menzogne. In Figli-Hijos Marco Bechis, il regista quarantacinquenne di Garage Olimpo, nato a Santiago del Cile da madre cilena e padre italiano, cresciuto anche in Argentina dove a vent’anni venne sequestrato e torturato dai militari in un carcere clandestino, racconta tra Milano e Barcellona la storia di due “apropriados”. […] Il film conduce un’analisi profonda e complessa di questi personaggi, più che affrontare direttamente gli aspetti politico-sociali della vicenda: ed è molto efficace, molto riuscito. Il perenne movimento e i tanti mezzi di trasporto (piccoli aerei, taxi, bus, traghetti) danno il senso dell’inquietudine esistenziale. La frequente oscurità evoca l’abisso buio di quanto è accaduto. Il suono incalzante dei tamburi è quello delle manifestazioni argentine. Il montaggio di Jacopo Quadri trasforma il tormento interiore in azione; gli attori sono molto adeguati» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 2.2.2002).
«A parte una leggera perplessità sulla scelta della trasferta barcellonese (forse non necessaria), Figli è un film quasi perfetto: misurato e intenso a un tempo, capace di produrre emozione senza estorcerla, realistico ma ricco di risonanze simboliche. Una questione di stile. Pur raccontando la forte vicenda con partecipazione, Bechis sceglie contemporaneamente (e assegna allo spettatore) il ruolo di un osservatore esterno. I travagli emotivi e psicologici della coppia di fratelli, e di quella dei genitori adottivi alla ricerca del ragazzo, sono inquadrati attraverso una serie di soglie che la macchina da presa sceglie di non oltrepassare: come se spiasse una realtà che non deve essere avvicinata in maniera troppo diretta e traumatica. Accurata anche la colonna sonora, che alterna lunghe pause di silenzio con un crescendo di percussioni culminanti nella (e motivate dalla) sequenza finale. Stefania Sandrelli è convincente nella parte di una madre italianamente in ambasce. Molto bravi i giovani protagonisti» (R. Nepoti, “la Repubblica”, 2.2.2002).
«Alla fine non è importante se la ricerca che un agiato ragazzo milanese, stimolato dall'e-mail della sedicente gemella, provi l’esistenza di un legame di sangue: c’è comunque l’identificazione in una comune tragedia dove sono messi in dubbio gli affetti e le sicurezze primarie: in questo senso l’accusa è ancora più totale di prima e impressiona un corteo ripreso dal vero in cui la gente si muove verso la tana di un criminale. Coraggioso Bechis che, espulso dall’Argentina per ragioni politiche, ci ritorna con la passione di un cinema che si riprende la sua funzione morale e denuncia l’orrore “normalizzato”, reso nel suo essere agghiacciante da una colonna sonora a percussioni che ciascuno riempie con il suo sgomento. […] Bechis ci convince che non c’è medicina né vaccinazione possibile contro le forze di un Male ancora radicato nella connivenza del tessuto sociale. Grave che non sia stata fatta giustizia, che ci sia stata impunità, dice Bechis. Così l’incubo si ripete, esplode, minaccia: il film, che non uscirà mai in Argentina, è fatto di ombre, dubbi, di inutili prove del DNA, degli sguardi di una Stefania Sandrelli come sempre bravissima a essere una finta madre che soffre però davvero. Ed è proprio cercando tra questi genitori bugiardi e colpevoli, ma che ormai amano il figlio acquisito, che il film sfiora la pietas e s’addentra nel terreno minato dei sentimenti contrapposti dell’odio-amore e nel doppio potere della memoria» (M. Porro, “Corriere della Sera”, 2.2.2002).
«Capita raramente che un film di impegno civile, legato a una tragedia di cui ancora si subiscono le conseguenze, si possa fregiare di due meriti: la precisa tenuta di una suspence angosciante come in un giallo ben oliato e la rigorosa continuità di una tensione stilistica. A fatica i due pregi possono essere separati, se non nei modi di una distinzione tecnica: la sceneggiatura (scritta con Lara Fremder), che non fa una grinza nemmeno di fronte all’apparente paradossalità del caso e delle sue “avventurose” complicazioni, e le riprese (coadiuvate da Fabio Cianchetti, insieme direttore della fotografia e operatore), che aggiungono del loro le frequenti invenzioni formali sul campo, la composizione quasi maniacale delle inquadrature, la cura dei dettagli (compresi quelli di valore simbolico o allegorico), il tono spesso freddo o raggelante, il peso dei silenzi e delle assenze. Il montaggio, come sempre eccellente, di Jacopo Quadri fa il resto, e tutta la squadra (senza dimenticare gli intensi protagonisti e i loro corretti comprimari) merita menzione. […] Tre film in dieci anni sono sufficienti a caratterizzare Bechis come un autore determinato e sicuro di sé, che persegue i propri risultati con ostinazione e partecipazione, non disposto a cedere all’effetto o al compromesso […]. Figli si configura così come un falso (doppiamente falso) dramma “domestico”, con cadenze (a voler essere un po’ rétro) ibseniane, incernierato su un conflitto che dall’esistenziale trasmuta in politico, e ovviamente dal privato al pubblico e oltre» (L. Pellizzari, “Cineforum” n. 413, aprile 2002).
«Il dramma dietro Figli di Marco Bechis è talmente immenso da scoraggiare la critica. Eppure stavolta il regista dell'ammirevole Garage Olimpo non convince […] Per non scottarsi Bechis raffredda vicenda e personaggi fino a farne gli elementi di un teorema gelido e astratto. Chi era quel ragazzo cresciuto lontano dalla sua terra, come ha vissuto quegli anni, in che tipo di famiglia? Non basta dargli una passione simbolica e moltiplicare silenzi e tempi morti durante la sua fuga con la presunta sorella per portarci dentro a un'interiorità che il film, semplicemente, non costruisce. Così, ferma restando la sacrosanta denuncia, la Storia di un paese non diventa storia vissuta di individui e Figli resta in una sorta di limbo: elegante ma, paradossalmente, esangue» (F. Ferzetti, “Il Messaggero”, 2.9.2001).
«Interessante sul piano tematico, indubbiamente coraggioso, Figli - Hijos soffre di carenze sul piano della struttura narrativa e l'espediente avventuroso immaginato da Bechis (Rosa e Javier non sono fratelli, lui è sì figlio di un “desaparecido”, c'è stato uno scambio di bambini in ospedale) non la migliora di sicuro» (F. Bolzoni, “Avvenire”, 2.9.2001).
Contrariamente a Garage Olimpo, Figli-Hijos è un film perfino delicato, dove poco è concesso all'evidenza e al clamore. La violenza più cruda ed esteriore è già stata del tutto consumata. Ora è il tempo e lo spazio della rievocazione, del ricordo, della ricostruzione; altrettanto, o forse più, dolorosi, ma anche meno palesi, più intimi, meno esplorabili. La storia, così come la macchina da presa, non può dunque che mantenere una rispettosa distanza. Suggerisce, non scava nella psicologia in divenire dei personaggi, fragili perché defraudati del più prezioso bene: la propria identità. Una situazione drammaturgica classica, di ascendenza plautina, ma ancor più ancestralmente dispersa nei mille rivoli della mitologia e della fiaba popolare, qui tuttavia riceve il suo rovesciamento: l'agnizione non porta a un'improvvisa ascesa e al riconoscimento sociale, ma alla caduta e alla perdita, un'ulteriore perdita. Anche se, sembra dire il regista, ritrovare la verità perduta è in ogni caso conquista e, conseguentemente, happy end drammaturgico. […] Lo stile rende perfettamente conto del disagio interiore dei personaggi, grazie a una fotografia plumbea, dimessa, essenziale, e a una musica martellante di tamburi che nell'inquadratura finale troveranno anche una giustificazione diegetica. L'operazione di Marco Bechis è dunque nel complesso assai ben riuscita. Figli-Hijos è un film che denuncia senza alzare la voce, emoziona senza ricattare né estorcere lacrime, analizza lasciando aperti allo spettatore spazi per porsi delle domande» (R. Farina, “Cinemasessanta” n. 2/264, marzo-aprile 2002).
«La sfera politica in Bechis appare come la diretta, ma non scontata, conseguenza di una dolorosa conoscenza dei (mis)fatti, che rimettono in discussione molti principi e molte premesse psicologiche, morali, parentali ed affettive. I suoi film sono principalmente parabole educative dove i protagonisti si presentano - e non potrebbe essere diversamente - giovani. La loro condizione anagrafica assume spesso un significato emblematico e tendenzioso, poiché obbliga il tracciato narrativo a coincidere con quello formativo. E a trasformare la verità in un percorso contraddittorio, tortuoso, ma indispensabile, secondo un'impostazione educativa che non è tuttavia né didascalica né edificante, ma chiama in causa la coscienza di chi sa, non sa o non vuole sapere, senza distinzioni. Un meccanismo, questo, che certamente appare più evidente nella continuità tematica che lega Garage Olimpo a Figli/Hijos, entrambi segnati dall'immagine di aerei che sorvolano la superficie terrestre, nonché la superficie della verità, tanto per scaricare in mare le vittime di un eccidio politico quanto per veicolare uno sport nel quale l'inconsapevole Javier, figlio di quelle vittime, si abbandona ad una rischiosa pratica di allontanamento/avvicinamento nei confronti della verità rimossa, latente, inaccettabile. [...] Nell'ultimo film di Bechis, salvo che in un paio di agghiaccianti flashback esplicativi, non occorre quasi più mostrare i tremendi abusi dei soldati su quei prigionieri destinati all'occultamento del corpo, dell'identità e della discendenza. È il clima stesso di tranquillità familiare, di appartenenza ad un ambiente agiato e distante dai luoghi della tortura, esemplificata dalla collocazione geografica norditaliana, ad acquistare una maggiore rilevanza sul piano della brutalità inespressa e del metabolismo malefico. Se l'intensità dell'atto criminale è inversamente proporzionale al grado di incidenza psicofisica sull'individuo che lo compie, allora la costruzione narrativa di Figli/Hijos, che pone un'ulteriore distanza dallo spettacolo orrorifico, non fa che accentuare il senso politico dell'operazione» (A.G. Mancino, “Cinecritica” n. 25, gennaio-marzo 2002).
«Apparentemente sacrificata alla verità della Storia, Maria riemerge, in realtà, dalle ceneri di Garage Olimpo, in Figli/Hijos, sotto le rinnovate spoglie di Rosa. Quest' ultima presenta, non a caso, il medesimo temperamento della sua precedente incarnazione: stessa forza, stessa tenacia, stessa fragilità, stesso orgoglio. Identico è anche lo stato d'animo e il comportamento della figura maschile: Javier, dopo aver scoperto di aver vissuto un'intera esistenza all'insegna della menzogna ha, comunque, paura del cambiamento e decide ad un certo punto di tornare al gelido "nido" familiare. In verità, la sua vita non potrà mai più tornare ad essere quella di prima: dopo una lunga lotta interiore, egli sceglie, infine, di fuggire dalla casa-prigione milanese e di seguire Rosa. Con il suo sofferto e coraggioso gesto si ri-appropria di se stesso e riscatta il fragile Juan e il pavido Felix. Il cinema di Bechis, allora, non è affatto "politico", nel senso riduttivo di cinema di genere ma ha l'ampiezza di respiro e la profondità della tragedia classica. [...] Il suo eroe, Jean/Felix/Javier, rappresenta l’individualità positiva, l'Io che trova la sua origine nel Padre e il fine nel diventare, a sua volta, sempre Padre, ma con un superiore livello di autocoscienza, determinato dall'aver subìto la passione del mondo fenomenico. Simile in questo a figure immortali, quali Edipo nel mito, Odisseo nell'epos, Ivan nella fiaba, Cristo nella religione, Jean/Felix/Javier è costretto a fare in conti con il Potere, incarnato nel mito da Laio, nell'epos da Laerte, dal Re nella fiaba, da Dio nella religione» (M. Cruciani, “Cinecritica” n. 25, gennaio-marzo 2002).
«Con Garage Olimpo e Figli/Hijos il regista italo-cileno, nato e vissuto per vent' anni in Argentina, sembra quasi voler risarcire il nostro debito di verità denunciando la cecità degli occhi del mondo (un mondo complice, purtroppo) oggi come allora. E subito dopo facendo riemergere le tracce dell'orrore, gli indizi e la sporcizia della Storia. La sua sfida giustifica molte scelte estetiche e ideologiche. l prigionieri incappucciai e bendati di Garage Olimpo o l'atteggiamento di Javier, che all'inizio di Figli/Hijos si ostina a non voler sapere/vedere. I primi alla cecità sono costretti: in quanto oppositori politici, avevano come grande colpa proprio quella di avere guardato troppo, e con lucidità. nel cuore del regime. II secondo è invece reso cieco dalla capacità di mimetizzazione del male. In questo senso Stefania Sandrelli e Enrique Pineyro, rispettivamente madre e padre di Javier, sono straordinarie maschere dell'orrore reiterato, burocratizzato, inconsapevole. Anche l'opacità della fotografia di Figli/Hijos (ottimo l'operatore Fabio Cianchetti) si pone come filtro e ostacolo allo sguardo, che fatica ad andare oltre la nebbia, il freddo palpabile o l'umidità dell'inverno brianzolo (splendida la sequenza che mostra Javier e il padre in barca, a pesca) o di quello assai più impenetrabile che ottenebra le coscienze» (M. Gervasini, “Segnocinema” n. 112, novembre-dicembre 2001).
«C'è un sottile filo rosso che lega Figli a Garage Olimpo e va oltre il semplice fatto di essere l'ideale proseguimento di un discorso sulla tragedia della dittatura militare argentina del 1976-83. Un filo impercettibile, a prima vista, ma che si insinua sottopelle allo spettatore che ha avuto la fortuna di vedere entrambi i film. Una delle prime inquadrature di Figli riproduce in modo pressoché invariato l'ultima immagine di Garage Olimpo: la superficie del mare, inquadrata da una prospettiva aerea, appena increspata, continua a nascondere l'orrore di morti ignote, come se vent'anni non fossero passati. Morti ignote, corpi gettati in acqua da un aereo militare guidato da gente come Raul Ramos. Sembra che quest'esperienza tragica vissuta dai genitori abbia in qualche modo avuto un riflesso nell'inconscio di Javier, che fa il paracadutista. Nella casa in cui vive con i genitori o presunti tali campeggia un tavolo da ping pong che, in Garage Olimpo, era l'unico passatempo a disposizione dei carcerieri del lager per i detenuti politici. Pare proprio che la verità del passato, accuratamente sommersa, cancellata e rimossa, continui a dar segno di sé attraverso l'emersione di insignificanti dettagli. Che il lancio finale di Javier, che procrastina all'infinito l'apertura del paracadute, segni la sua definitiva scelta di rompere la superficie dura e apparentemente infrangibile della menzogna di regime? [...] L'intento è quello di plasmare lo stile di ripresa sulla continua instabilità emotiva dei personaggi, dovuta alla vertiginosa scoperta della vera origine (costruita su menzogna e violenza)» (F. de Girolamo Marini, “Film” n. 56, marzo-aprile 2002).
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