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Il boia di Lilla - La vita avventurosa di Milady
Italia/Francia, 1952, 35mm, 88', Colore
Altri titoli: Milady et les Mousquetaires, Abenteuer der Lady De Winter, Anna und der Henker
Regia Vittorio Cottafavi
Soggetto da un episodio del romanzo "I tre moschettieri" di Alexandre Dumas, padre
Sceneggiatura Siro Angeli, Giorgio Capitani, Riccardo Averini, Vittoriano Petrilli, Vittorio Cottafavi
Fotografia Vincenzo Seratrice
Operatore Enzo Oddone
Musica originale Renzo Rossellini
Suono Giovanni Canavero
Scenografia Giancarlo Bartolini Salimbeni
Costumi Ruggero Peruzzi
Trucco Amato Garbini
Aiuto regia Giorgio Capitani
Interpreti Rossano Brazzi (conte de la Fère, poi Athos), Yvette Lebon (Anna, poi Milady), Armando Francioli (Erberto), Jean Roger Caussimon (il boia), Raymond Cordy, Vittorio Sanipoli, Maria Grazia Francia, Massimo Serato, Nerio Bernardi, Enzo Fiermonte, Renato De Carmine, Nico Pepe, Lina Marengo, Ebe Vinci, André Gardere, Franco Balducci, Cesare Bettarini, Adolfo Geri
Direttore di produzione Carlo Serrutini
Produzione Giorgio Venturini per produzione Venturini
Note Nulla Osta n. 12.982 del 20.10.52; 2348 m.
Direttore dei duelli: André Gardere; segretaria di edizione: Lina D’Amico; produttore associato: Nino Martegani.
Locations: Torino e Provincia (Castello del Valentino, Castello di Agliè, ecc.) e Studio FERT di Torino.
Il soggetto del film non è tratto – come viene detto in alcuni testi - dal romanzo Le bourreau de Lille di Alexandre Dumas padre, ma da un episodio de I tre moschettieri che spiega i motivi dell’odio di Athos per la mogie ladra e infedele.
Sinossi
Lady Anna de Beuil, fantesca di un monastero, ruba una preziosa collana, seduce un giovane ufficiale, Erberto, e fugge con lui. La loro fuga dura poco: arrestati, il giovane viene condannato per diserzione e furto, mentre la ragazza riesce a fuggire. Il fratello di Erberto, il boia di Lilla, per vendetta le imprime sulla spalla il marchio d’infamia. Ma Erberto, ancora innamorato, evade e la raggiunge. Giunti al castello del conte de la Fère, Anna si fa passare per una perseguitata politica e presenta Erberto come suo fratello. Il conte le propone di sposarla e lei non esita a liberarsi di Erberto facendolo denunciare. Ma il fratello del giovane la smaschera costringendola alla fuga. Con il nome di Milady entra al servizio del conte di Rochefort, che se ne serve come spia. Entrato con nome di Athos nel corpo dei moschettieri del re, il conte de la Fère, assieme agli amici Porthos, Aramis e D’Artagnan, dà la caccia alla donna, che cadrà alla fine nelle loro mani e verrà decapitata dal boia di Lilla.
Dichiarazioni
«[Giorgio Venturini] Mi chiamò a lavorare e mi propose cose che non erano proprio quelle che desideravo. Tuttavia, ad esempio, Il boia di Lilla mi interessava molto per il mondo di Dumas visto da un’altra prospettiva, cioè visto in una sola pagina. In altre parole, non I tre moschettieri, ma la storia di Milady che è narrata in un paio di pagine: i suoi precedenti, la storia del fratello del boia di Lilla che lei ha corrotto, e tutto il resto. Io vi introducevo un elemento ironico, che mi nasceva dai miei studi su Brecht. Cercavo l’estraniamento, come lo si poteva ottenere: ed ero pazzo, perché il cinema porta al sogno, all’identificazione con l’eroe della vicenda. Se noi ironizziamo e creiamo continuamente l’avvenimento per darne un giudizio, noi uccidiamo il cinema» (V. Cottafavi, in G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980).
«Venturini aveva appena finito Il figlio di Lagardère di Fernando Cerchio, e voleva tentare di ammortizzare meglio i costi recuperando le scenografie per un altro film: è il pretesto che dà origine a Il Boia di Lilla. Credo che la produzione si trasferisse a Torino perché c'era una banca disposta a finanziare l'operazione. I noleggiatori del Nord, annoiati dalla prepotenza romana, guardavano con favore ad un polo di produzione decentrato. E poi c'erano gli stabilimenti della FERT, dove era rimasto in attività un gruppo di tecnici, ormai un po' invecchiati, ma bravissimi, che si erano fatti le ossa ai tempi del muto. Tra tutti mi ricordo Gallea, un direttore della fotografia eccezionale. A me danno invece per il primo film Vincenzo Seratrice, giovane, ma altrettanto bravo. Il boia di Lilla lo abbiamo girato tutto nei dintorni di Torino, salvo qualche interno a Genova, a casa del figlio di Fogazzaro. A Torino stavo all'Hotel Fiorina, vero e proprio stato maggiore degli spettacoli, dove si fermavano anche tutte le compagnie di giro. L'ambiente del cinema, nel complesso, aveva l'ingenuità di chi è rimasto un po' in provincia e la volontà di dimostrare a Roma che sapeva fare altrettanto bene» (V. Cottafavi, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
«Giorgio Venturini lo conosco nel 1951, avevo appena fatto Moglie per una notte con la Lollobrígida e Gino Cervi, gli ero piaciuto e mi propone di fare Il boia di Lilla. Io accettai con molto piacere, anche per il fatto di lavorare con Cottafavi che, a parte la sua bravura, è davvero un gran signore con il quale è sempre piacevole lavorare. E poi fare il cinema a Torino era molto bello, rispetto a Roma. C'era la calma della città, gli stabilimenti erano anche un po' fuori, e si era molto seguiti, come quando uno va in un piccolo ristorante a conduzione familiare, dove si mangia bene, l'ambiente è accogliente, non c'è la freddezza che può avere Cínecittà. Era come stare in famiglia, ma con professionisti di alto livello, primo tra tutti Gallea, straordinario anche sul piano umano. Per Il boia di Lilla abbiamo girato gli esterni a Venaria, mi ricordo che faceva molto freddo, c'erano nove gradi sotto zero» (A. Francioli, in L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla FERT (1952-1957), Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
«Per tutti gli anni cinquanta si possono riconoscere e raggruppare degli insiemi che mostrano la fiducia nella capacità della letteratura popolare di potenziare la vitalità del corpo produttivo. Basti solo pensare ai titoli realizzati a Torino dalla Venturini film nei primi anni cinquanta: Il boia di Lilla di Cottafavi (da Dumas Padre)» (G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico 1945-1959, Editori Riuniti, Roma, 1982) è appunto uno di questi, e insieme a Il cavaliere di Maison Rouge (1953) e I piombi di Venezia (1952, da Cottafavi solo supervisionato) forma una sorta di trilogia di pellicole «di chiaro intento popolare, in larga misura debitrici della tradizione del romanzo avventuroso e d’appendice, ma ricche, quale più quale meno, di quegli elementi contenutistico-formali che ne fanno esempi interessanti, seppur limitati, di una sorta di “metacinema” del genere a cui appartengono. Ed è […] il rigore della mise en scène di Cottafavi – cioè di quel lavoro di confezione del prodotto che fa di Cottafavi, per sua esplicita e quasi compiaciuta ammissione, un regista piuttosto che un autore – a dare alla materia narrativa e drammatica non soltanto la giusta dimensione spettacolare, ma anche un ampliamento di significato che tocca direttamente i modi e le forme della rappresentazione filmica. Anzi, per certi aspetti, il lavorare su un materiale già codificato dalla tradizione letteraria, lontano dai problemi dell’attualità, fuori dagli schemi del neorealismo allora imperante, fu per Cottafavi un’occasione per meglio sperimentare i suoi mezzi d’espressione, per cercare e applicare soluzioni di linguaggio che erano in primo luogo problemi tecnici, ma che potevano contenere anche indicazioni più ampie, di rivelazione degli aspetti del reale nascosti nelle pieghe della storia e dei personaggi. […] È indubbio che la regìa di Cottafavi è un meccanismo che serve non soltanto per dare forma e sostanza allo spettacolo, ma anche per evidenziare gli elementi drammatici che più contribuiscono a fare di un film un testo analitico della realtà umana. Come dire che dietro una sequenza registicamente esemplare, un’inquadratura rigorosa, un passaggio narrativo ben calibrato, c’è spesso – tendenzialmente dovrebbe esserci sempre – uno sguardo introspettivo che supera i dati immediati della percezione sensibile dell’immagine per aprirsi su prospettive inconsuete, mettendo in discussione non già la natura stessa dello spettacolo, quanto piuttosto i temi che compaiono, via via, durante lo sviluppo della narrazione dei fatti» (G. Rondolino, Vittorio Cottafavi, Bologna, Cappelli, 1980).
Gli attori sono ottimi professionisti: a Brazzi, Sanipoli, Bernardi, Pepe e Tosi, già sotto contratto con Venturini, si aggiunge l’elegante e intelligente Armando Francioli, un trentenne già apprezzato in teatro. La protagonista femminile, Milady, non può non essere la moglie del produttore francese, Yvette Lebon, la quale si dimostra all’altezza del compito, anche perché Cottafavi «riserva alle donne uno sguardo caldo, avvolgente, attento ai brevi scorci rubati: Milady che si alza dal letto, che esce dal carrozzone ribaltato, e sono le cosce, che si riveste nella locanda, ed è il corpo, distesa a terra con il fiordaliso, e sono le spalle, sulla soglia della tenda ed è il viso, il collo… Ma Milady è soprattutto la seduttrice. Seduce per istinto, al di là dei disegni e delle ambizioni che pur la premono, quasi per assecondare il destino che le ha assegnato questo ruolo anche se ne scandisce la rovina. […] Yvette Lebon, non bellissima, non certo una grande attrice, è ottimamente calata in questa Lulù del XVII secolo. Lulù bambina scalza vendeva fiori nel caffè di Berlino, Milady ragazza scalza lava i pavimenti del convento. Una volta lessi che Milady avrebbe meritato la penna di un Balzac; intanto ha trovato la mdp di Cottafavi. Le avventure, la tensione e lo scatenarsi di amori e odio attorno a questa donna sono il nucleo drammatico del film. No posso però trascurare il dato più squisitamente stilistico che già in questo film si manifesta specialmente nell’uso dei piani sequenza o in molte felici, rapide inquadrature» (L. Ventavoli, Pochi, maledetti e subito, Museo Nazionale del Cinema, Torino, 1992).
Come molti dei film di Cottafavi, e in particolar modo quelli avventurosi, Il boia di Lilla ha ricevuto, in Italia, scarsa attenzione da parte di pubblico e critica. La rivista “Intermezzo”, ad esempio, scriveva del film: «Ispirato alla storia e alle avventure dei famosi moschettieri di Dumas, Il boia di Lilla narra di un’avventura di quasi normale amministrazione, senza sollevarsi molto al di sopra della mediocrità. Gli interpreti fanno del loro meglio per rimanere a galla» (S. Nati, “Intermezzo”, nn. 11/12, 30.6.1953).
Scheda a cura di Matteo Pollone
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