Altri titoli: The Bankers of God: The Calvi Affair
Regia Giuseppe Ferrara
Soggetto Giuseppe Ferrara, Armenia Balducci
Sceneggiatura Giuseppe Ferrara, Armenia Balducci
Fotografia Federico Del Zoppo
Musica originale Pino Donaggio
Suono Andrea Giorgio Moser, Marco Streccioni
Montaggio Adriano Tagliavia
Scenografia Davide Bassan
Costumi Enrica Barbano
Interpreti Omero Antonutti (Roberto Calvi), Giancarlo Giannini (Flavio Carboni), Alessandro Gassman (Francesco Pazienza), Rutger Hauer (Vescovo Marcinkus), Pamela Villoresi (Clara Calvi), Vincenzo Peluso (Silvano Vittor), Alessandra Bellini (Anna Calvi), Francesco Cordio (Carlo Calvi), Pier Paolo Capponi (Roberto Rosone), Franco Diogene (Luigi Mennini), Carlo Saito (Alex Mennini), Pietro Di Legami (Emilio Pellicani), Camillo Milli (Licio Gelli), Franco Olivero (Michele Sindona), Gaetano Amato (boss romano)
Produttore esecutivo Enzo Gallo
Produzione Enzo Gallo, Giuseppe Ferrara per Sistina Cinematografica, Metropolis Film
Distribuzione Columbia Tristar Film Italia
Note 3400 metri.
Suono Dolby Digital; altri interpreti: Antonio Inzadi (uomo Del Gobbo), Mario Marchetti (il Gobbo), Augusto Zucchi (Umberto Ortolani), Liliana Paganini (Graziella Corrocher).
Locations: Castello di Venaria, Palazzina di caccia di Stupinigi, palazzi e strade di Torino tra cui Palazzo Paesana e il vecchio tribunale di via Corte d’Appello; Belgrado.
Film realizzato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il sostegno di Film Commission Torino Piemonte.
Sinossi
La storia inizia con la caduta del finanziere Sindona e con la sua richiesta di aiuto al presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, che però rifiuta. È questo l’inizio della fine, uno scandalo finanziario intricato e denso di misteri che coinvolge banche, il Vaticano, la loggia massonica P2, i servizi segreti italiani e inglesi, il mondo della politica, la mafia e la camorra. Il film termina con la morte di Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, sostenendo apertamente l'ipotesi di omicidio.
Dichiarazioni
«Era il 1986 ed avevo appena finito di girare Il caso Moro in cui recitava Gian Maria Volontè. Fu un incontro straordinario, e subito mi innamorai della capacità di Gian Maria di entrare nei personaggi e viverli in prima persona. Da allora ho iniziato a pensare a questo progetto che avrei voluto portare sullo schermo proprio con Volontè! Sono trascorsi quindici anni: lungo la strada tante difficoltà, tanti ostacoli, un nuovo straordinario interprete per il ruolo di Calvi, Omero Antonutti, ma è rimasta intatta la natura di una vicenda attuale più che mai e che ci riguarda tutti da vicino» (G. Ferrara, www.fctp.it).
«È un film che dovrebbe fare il giro del mondo: anche perché storie del genere non sono esclusiva di un solo paese. Sciascia ci aveva definito un paese senza memoria: con questo film cercheremo di risvegliarla. Non smetterò mail di scandagliare con il cinema il sottosuolo politico italiano, per riportare in primo piano i suoi poteri occulti (cui fa parte anche la mafia), che sono il cancro della democrazia» (G. Ferrara, “la Repubblica”, 20.7.2001).
«Per me il cinema è una missione. Non spreco pellicola in autobiografie ma mi dedico da sempre alla rievocazione dei fatti e persone che in qualche modo hanno scritto la Storia. Così è stato per Moro come Giovanni Falcone, ecc. » (G. Ferrara, “Il Messaggero”, 20.7.2001).
«Questo film fa paura al punto che la sezione credito cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro sta cercando di fermarlo e con scuse capziose e grottesche blocca il finanziamento previsto di 4 miliardi e 600 milioni. È un fatto gravissimo, un attentato alla libertà di espressione per una pellicola che, fra l’altro, è già stata acquistata dalla Rai e da una televisione a pagamento e che, grazie alla distribuzione nelle sale della Columbia, sarà venduta anche all’estero» (G. Ferrara, “La Stampa”, 20.7.2001).
«Questo è anche un film civile in quanto è doveroso realizzare lavori in cui si racconta una pagina della nostra storia. È giusto che i giovani sappiano che cosa succedeva. Calvi era un personaggio cinico, inquietante, impenetrabile: quello che mi ha più intrigato è il Calvi privato, fragile e sempre bisognoso di confronto da parte della famiglia. Uomo venuto dal nulla, egli riuscì a portare il Banco Ambrosiano a livelli internazionali. L’ambizione l’ha tradito, trasformandolo persino in un ingenuo» (O. Antonutti, “La Stampa”, 20.7.2001).
Giuseppe Ferrara ritorna alla sua riproposizione di certo cinema “d’impegno civile” come quello italiano degli anni Settanta, anni dopo il suo Il caso Moro con Gian Maria Volontè. Ci sono voluti quindici anni per realizzare il progetto, con l’abbandono di molti produttori, come Ferrara ribadisce nella lunga campagna di presentazione del film tra associazioni culturali, cineclub, feste di partito e centri sociali. Purtroppo al genuino desidero di far luce su alcune delle più intricate e allucinanti vicende della storia recente d’Italia non si accompagna una realizzazione rigorosa quanto auspicabile; come segnalano quasi tutte le recensioni, «La materia proposta è super abbondante, si fanno nomi, si mettono avanti ipotesi, si recuperano testimonianze. Molto strepito, molta confusione, poca concretezza. Alla fine tutto sembra ridursi ad una specie di telefilm d'azione, che si vede e subito dopo si dimentica» (Segnalazioni Cinematografiche, vol.135, 2003). Il film fa ampio utilizzo dei palazzi di Torino e dintorni per “interpretare” i palazzi del potere di Roma, New York, Zurigo, Londra...
«I banchieri di Dio - uscito nelle sale dopo quindici anni dalla sua ideazione - prende una posizione, sostenendola senza remore, su una delle tante vicende irrisolte del nostro Paese: il caso Calvi. In una rapida e intricata successione di eventi, in cui sono coinvolti tutti i poteri dello Stato - da quelli istituzionali della politica e del Vaticano, a quelli sommersi della mafia e delle organizzazioni massoniche - prende forma la storia personale e pubblica di uno degli uomini più influenti del mondo finanziario italiano. […] il racconto risulta perlopiù didascalico ed eccessivamente particolareggiato, senza lasciare né il tempo, né lo spazio per dubbi o domande. Malgrado il coraggio di Ferrara nel sostenere una tesi ben precisa […] è bene ricordare che Scotland Yard ha ben presto archiviato il caso Calví come suicidio. In Italia, invece, a distanza di vent'anni dalla sua morte, non c'è ancora una sentenza che attesti con certezza se realmente Roberto Calvi si sia tolto la vita, oppure se qualcuno l'abbia ucciso» (F. Manfroni, “Film” n. 57, maggio-giugno 2002).
«Ricostruendo la vicenda del banchiere Guido Calvi, e tutti i suoi intricatissimi legami con la P2, lo Ior, il Vaticano e le stanze più esclusive della politica italiana, Giuseppe Ferrara e Armenia Balducci (sceneggiatrice) vanno alle radici dei più misteriosi misteri italiani, e ricapitolano -grazie a una ricostruzione puntigliosa - un episodio centrale della nostra Storia recente. Detto che lo scopo è nobile, l’esito dei film è disastroso: la narrazione sta a cavallo fra un affastellato reportage televisivo e un teatrino dei pupi, e l’insieme è di impressionante bruttezza. Le prestazioni dei sosia di Andreotti e Craxi, nonché di un papa Wojtyla ripreso sempre di spalle (per ragioni “di rispetto”, ci informa una didascalia: ma quali, visto che gli si mettono in bocca - giustamente - battute agghiaccianti?), sono forse la cosa più imbarazzante vista ai cinema da molti anni a questa parte. Ferrara voleva girare il film 14 anni fa, con Volontè. Oggi il ruolo di Calvi è stato affidato a Omero Antonutti, l’unico bravo di un cast allucinante» (A. Crespi, “Film Tv”, n. 12, 2002).
«Gli intenti di Ferrara sono facilmente intuibili: riportare all'attenzione dell'opinione pubblica fatti su cui pesa ancora l'ombra dei depistaggi, delle stragi fasciste, degli omicidi "eccellenti" insoluti. Purtroppo alla buona volontà non corrisponde adeguata sensibilità espressiva: la mano di Ferrara si conferma didascalica, greve, senza misura. La scelta di ricercare ad ogni costo la verosimiglianza dei protagonisti reali con attori-freak (compreso l’insostenibile puntiglio nella restituzione degli accenti regionali), finisce per franare sotto il peso del grottesco involontario. L'effetto d'insieme è una galleria, degna di un bizzarro quanto abominevole museo delle cere, di diretta derivazione televisiva. Gli attori, selezionati da un folle e ibrido miscasting - a metà tra il peggior tvmovie e il cabaret totalitario del Bagaglino - assurgono a inverosimili maschere brechtiane ~ si pensi alla figura di papa Woityla, perennemente inquadrato di spalle, mentre fa cvclètte, a Nlarcinkus che gioca a golf, o ai sosia posticci di Craxi-Andreotti-Forlani). Su tutto salviamo l’ottima performance di Omero Antonutti, clone a comando di Sindona/Calvi, perfetto trasformista capace di lavorare sui tic del personaggio senza farne una caricatura. La corrività assoluta della messinscena, all'estremo dell’instant-movie postdatato, diviene l'ingovernabile palla al piede di una ricostruzione minuziosa che procede per accumulazione successiva di dati e indizi, senza riuscire a incidere significativamente sullo scavo della vicenda, ridotta a mera e burocratica elencazione di fatti» (A. Soncini, “Cineforum” n. 4/414, maggio 2002).
«L'intreccio risulta tanto intricato e impensabile, che neppure il film riesce spesso a essere chiaro, a farsi seguire con facilità. Nel caso di analoghi docudrama sulla storia recente, Oliver Storie sceglie a esempio un punto di vista nella contraddittoria confusione o sovrapposizione degli eventi,e segue quello a rischio di risultare schematico. Ferrara è più scrupoloso (ha a che fare con poteri tuttora forti e determinanti, racconta di alcuni personaggi ancora esistenti) ma meno nitido: e del resto anche nella realtà, anche vent'anni dopo, in quelle vicende molto è ancora fumoso, torbido, impunito. [...] Il film imperfetto, un poco rozzo, a volte approssimativo, resta appassionante, e speriamo che il suo contributo civile non susciti attacchi o polemiche: non soltanto perché ricorda di quali infamie i cittadini italiani siano stati vittime, ma anche perché insegna a riconoscere infamie simili pure nel presente» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 8.3.2002).
«II film propone un disegno semplice, per non dire semplicistico; ma nell'esposizione dettagliata e frastagliata dei fatti anche lo spettatore che ne sa qualcosa si troverà disorientato fra allusioni, discorsi abbozzati, figurette che entrano ed escono di scena senza adeguata presentazione e a danno dei protagonisti. Nella chiave di una rispettabile tensione morale, sullo schermo si riscontra sovrabbondanza di informazione e insufficiente padronanza della drammaturgia. [...] Se questo film generoso e discutibile ha momenti in cui esce dai limiti della comparsa di Tribunale per abbozzare il ritratto di un eroe negativo, lo si deve soprattutto ad Antonutti, interprete tanto convinto e ispirato da ricordare Volontè» (T. Kezich, “Corriere della Sera”, 9.3.2002).
«Ci sono voluti 13 anni perché il progetto di Ferrara prendesse forma cinematografica, più o meno quanti sono occorsi perché dopo indagini e sentenze emergesse la verità sul suicidio simulato. Ferrara divulga con spavalderia controinformativa e orgoglio ideologico l'Italia degli anni '70 e '80 degli affaristi, dei faccendieri, dei potenti finanzieri e dei politici collusi e corrotti, degli Ortolani, dei Gelli, dei Sindona, per approdare a una ricostruzione finale dell'omicidio di Calvi.
Ma sul palcoscenico di un'Italia nel periodo più intricato e misterioso della sua storia recente Craxi, .Andreotti, Piccoli, Forlani, Pazienza (un disinvolto Alessandro Gassman), Carboni (un sovreccitato Giancarlo Giannini), Marcinkus e io stesso Calvi (un misurato Omero Antonutti [...]) sfilano tra la parodia da Bagaglino, lo stile rozzo da teatro-inchiesta, il goffo intimismo da giovane e inesperto cineasta italiano» (A. Castellano, “II Mattino”, - 14.3.2002).
Scheda a cura di Franco Prono
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