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Lungometraggi |
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Milarepa
Italia, 1972, 35mm, 108', Colore
Regia Liliana Cavani
Soggetto Liliana Cavani, liberamente ispirato a "Tibet’s Great Jogi Milarepa", Oxford University Press
Sceneggiatura Liliana Cavani, Italo Moscati
Fotografia Armando Nannuzzi
Operatore Giuseppe Bernardini, Federico Del Zoppo
Musica originale Daniele Paris
Suono Roberto Moreal
Montaggio Franco Arcalli
Scenografia Jen-Marie Simon
Costumi Jen-Marie Simon
Trucco Manlio Rocchetti
Aiuto regia Paola Tallarigo
Interpreti Lajos Balázsovits (Milarepa/Leo), Paolo Bonacelli (Marpa/prof. Albert Bennet), Marisa Fabbri (Madre di Milarepa/Leo), Marcella Michelangeli (Damema/Karin), George Wang (zio di Milarepa)
Produzione Lotar Film per Rai, Radiotelevisione Italiana
Note Girato in Eastmancolor; consulenza storica: Boris Ulianich; effetti sonori: Roberto Arcangeli; collaborazione a scenografie e costumi: Yves Bernard, Alain Baliteau, Teatro Stabile dell’Aquila; bozzetti dei costumi: Rostislav Doboujinsky; realizzazione dei costumi: sartoria Umberto Tirelli; organizzazione generale: Sergio Iacobis; direttori di produzione: Bruno Ridolfi, Nicola Venditti; settore della Rai che ha prodotto il film: “Film per la TV” a cura di Ludovico Alessandrini.
Sinossi
A causa di un incidente stradale, prof. Bennett rimane intrappolato nell’auto e, mentre sua moglie va in cerca di soccorsi, il giovane allievo Leo - che ha tradotto il testo di Milarepa su sollecitazione del professore stesso – gli narra la storia del grande poeta, mago ed eremita tibetano, compiendo un viaggio immaginario sull’Himalaya e un viaggio intimo dentro se stesso. Il racconto, nel quale Milarepa ha le sembianze di Leo e il suo maestro Marpa quelle di Bennett, si struttura in tre parti: quello della magia nera (il protagonista, incitato dalla madre, impara l’arte di uccidere), quello della magia bianca (compie il cammino verso la perfezione grazie ai duri insegnamenti di Marpa) e quello della trasfigurazione (il raggiungimento dell'assoluto distacco da ogni realtà materiale).
Dichiarazioni
«La lettura di Milarepa ha fatto muovere in me le letture di Jung che a suo tempo mi avevano molto appassionato. Ho ritrovato anche in Milarepa i miti della mia stessa cultura: la liberazione dal padre, dalla madre, dal paese, dal backgrond, la ricerca del maestro, la liberazione dal maestro ecc. Il collegamento tra i miti della cultura occidentale e orientale è stimolante per la ricerca del quid in comune, per l’indagine sul profondo; ricerca che non finisce mai e tutto quello che mi ci conduce mi affascina. […] Il film è la storia di una persona, un ragazzo di oggi che s’identifica con la vicenda di Milarepa restando quel che è, cioè viaggiando soltanto con il pensiero, entrando in un’avventura che solo apparentemente sembra escluderlo, mentre invece lo riguarda molto da vicino. […] Il viaggio del protagonista è immaginario: lo immagina attraverso e parole del testo di Milarepa. Una ricostruzione semplice e complessa a un tempo. Un oriente più onirico che reale, non tanto suggerito dalle nozioni di chi è esperto ma dall’emozione della lettura. Potevo solo raccontare le cose così come sono state per me: un viaggio dalla mia cultura in un’altra in cui c‘è qualcosa che io cerco» (L. Cavani, Milarepa, Cappelli, Bologna, 1974).
«Milarepa ha la cadenza di un lungo pensiero sulla possibilità che i contemporanei del Sessantotto e dintorni vengano a contatto, cercandola appassionatamente, attraverso persino dure prove mentali e del corpo, con una dimensione spirituale tale solo in apparenza e in parte. È forse solo spirituale un’esperienza, come quella condotta da Milarepa, vestito di tela, povero, tra sassi e i dirupi delle montagne, che impone un allenamento fisico senza confronti? O non è piuttosto, appunto, un allenamento psicofisico per fare di un uomo un uomo, e non un soggetto manipolabile? Modernità e semplicità, sottile fascinazione senza orpelli orientaleggianti, sono le qualità principali del racconto che comincia in una città del Nord Italia e si trasferisce nelle montagne asiatiche segnando il contributo che la regista ha pensato di dare, presa dall’emozione della scelta vissuta da Milarepa» (I. Moscati, in R. Festi, O. Semellini (a cura), Lilina Cavani. Lo sguardo e il labirinto, Associazione Fondo Liliana Cavani, Carpi, 2003).
Liliana Cavani interpreta le aspirazioni di quei giovani che all’inizio degli anni Settanta cercano una risposta ai problemi contemporanei nelle filosofie orientali, e contemporaneamente prosegue la sua ricerca nel campo dei miti e delle religioni che aveva già iniziato a percorrere con Francesco d’Assisi e I cannibali. Se il mondo odierno è malato, alienato, in crisi, occorre guardare verso il mondo del misticismo che appartiene al passato, ma può essere vitale anche oggi. La regista si pone di fronte alla storia di Milarepa senza dimenticare d’essere un’intellettuale occidentale molto distante da quella realtà, ma lavorando proprio sull’attrazione, sulla fascinazione che essa esercita in lei.
Gira a Torino (il centro, piazza Maria Teresa) le sequenze ambientate nella città contemporanea e sulle montagne dell’Abruzzo quelle ambientate sull’Himalaya, in quanto non vuole rappresentare il vero Tibet (e come potrebbe riuscire, una regista italiana, a capire qual è il vero Tibet?), ma il Tibet così come lei stessa lo immagina, un luogo dell’anima, non della realtà. Il pianoro battuto dal vento su cui sbattono i candidi teli della tenda di Marpa sono un luogo dello spirito: «Se l’anima ha un luogo, questo è il luogo dove la puoi incontrare». Allo stesso modo i vestiti dei tibetani sono realizzati basandosi solamente sulla fantasia della regista e dei costumisti italiani. Il film, insomma, non racconta la storia di un mistico tibetano dell’undicesimo secolo, ma mostra un’esperienza universale buona per tutti i tempi e tutti i luoghi.
«La regista, che ha saputo meditare la lezione di Mizoguchi e Pasolini, ha ottenuto questo notevole risultato grazie a una commossa identificazione con il protagonista, dovuta a sua volta a quella che Stendhal chiamava la cristallizzazione, cioè al raccogliersi spontaneo dei suoi più profondi interessi intorno alla figura di Milarepa. A queste identificazioni si deve pure se i nudi, deserti, luminosi paesaggi dell’Appennino acquistano anche un loro senso “tibetano”, insieme di prova da superare e di ambiente che aiuta ed esalta» (A. Moravia, “L’Espresso”, 16.12.1973).
D’altra parte la figura dell’eremita orientale non rappresenta soltanto il bisogno individuale di scoprire le radici profonde, mitiche, dell’esistenza umana: «Milarepa nella solitudine delle alte vette e del suo pellegrinaggio coscienziale non è un disertore della socialità. Non lo è proporzionalmente all’intenzione di purificarsi per capre il prossimo e calare in esso, avendo scoperto nuove leggi, un senso più umano in cui scorgere un riverbero divino. Egli è un contestatore di molti secoli or sono e anche di oggi […]. La sua sete di verità reclama una sovversione interiore che preluda a una convivenza più libera e giusta». (M. Argentieri, “Rinascita”, 26.4.1974).
In questa chiave il giovane studente universitario Leo, torinese post sessantottino di origini proletarie, può identificarsi con Milarepa, compiendo con la fantasia un viaggio immaginario che diventa un’esperienza totale.
Il mago-poeta Milarepa riesce a trovare la verità, la saggezza, l’equilibrio esistenziale grazie ad un apprendistato lunghissimo, faticoso, umiliante. Marpa infatti impone la crudeltà e il sadismo come metodo per percorrere «le linee del rigore più freddo e più cosciente, il quale solo può reinventare e recare la pace»; allo stesso modo «il film impone allo spettatore di “spogliarsi”, di ritrovare una sua nuova capacità di “leggere” soprattutto nella accettazione di tutta una crudele serie di delusioni che si possono incontrare nel corso della “lettura”, considerando che proprio nel ritrovamento e nel superamento di tali delusioni rivive forse la scienza. […] Milarepa trova il suo equilibrio e la sua unitarietà tra la più completa e razionale geometricità religiosa-filosofica e la libera spontaneità della invenzione laica e artistica» (C. Tiso, Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze, 1975).
A proposito di tale “geometricità religiosa-filosofica” ha scritto un bellissimo saggio sulla rivista “Cinema Nuovo” Pier Paolo Pasolini in: «la Geometria che sintetizza tutti i punti di vista possibili della vita (vissuta e vista vivere) di Milarepa, ha, come dire, tecnicamente i caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre polivalente e onnicomprensiva (lo sguardo della santità “razionale” è quello di un perfetto e sublime pittore cubista, che vede contemporaneamente tutte le superfici di una realtà oggettiva). L’andirivieni di Milarepa che cerca il sapere o un modello inaugurale di sapere attraverso cui interpretare la vita, si cristallizza nel film della Cavani in una serie di linee quasi rigidamente ritmiche: una successione di inquadrature ferme, di panoramiche per lo più irregolari (in cui si giustifica anche qualche movimento di zoom) su un mondo “profilmico” stranamente geometrico anch’esso: un Abruzzo brullo e azzurro, speso con nuvole o nebbie vaganti su distese di rocce perdute in una solitudine particolarmente profonda. Anche nella parte moderna, che fa da cornice e da fondamento all’esperienza religiosa di Milarepa, e che ha la funzione di renderla esplicitamente onirica, la Geometria […] è perfetta. Onirica anch’essa. Un sogno su cui s’impianta un altro sogno» (P.P. Pasolini, “Cinema Nuovo”, n. 229, maggio-giugno 1974).
«Pier Paolo Pasolini e Liliana Cavani sono in Italia i due maggiori rappresentanti, e forse i soli, di un cinema strutturalista, nel senso della teoria antropologica formulata da Levi-Strauss. Non si intendono Edipo re e Teorema di Pasolini, né I cannibali e ora Milarepa di Liliana Cavani, se non ci si rifà a Levi-Strauss, ossia al più motivato esponente, oggi, “della credenza nella perennità della natura umana” e in “uno spirito umano costantemente identico a se stesso”. […] Ora, dopo la parentesi de L'ospite, la Cavani torna con Milarepa al cinema strutturale, […] la lontana vicenda di Milarepa, esponente della religione buddista tibetana, e del suo maestro Marpa, non solo ha un correlativo parallelo nella vicenda odierna di uno studente che traduce la biografia del santo asiatico e in quella gemella del suo maestro all'università, un professore di storia delle religioni, ma viene trasposta dal Tibet nelle montagne dell'appennino abruzzese, come il Cristo di Pasolini nei sassi di Matera. C'è di più: Milarepa e lo studente sono interpretati dallo stesso attore, al pari delle rispettive madri, del maestro Marpa e del professore universitario, nonché delle compagne di questi due ultimi personaggi. Così, nell'andamento binario del film, ogni interprete serve due personaggi, uno che va in macchina, uno che vive sotto una tenda o all'addiaccio e si perfeziona nella dottrina di Budda. Eppure, nonostante la distanza, i personaggi moderni hanno la stessa anima dei loro archetipi tibetani. Tanto più che, nella particolare materia affrontata dalla Cavani, soccorre un aggancio specifico: la dottrina buddista della trasmigrazione delle anime. […] Forse Milarepa è un film nella trascendenza e non sulla trascendenza: parla da dentro e non può fare affermazioni precise da fuori. In questo sta magari il limite di una certa sua allusiva ambiguità. Ambiguità che d'altra parte, ossia dal punto di vista estetico, gli conferisce il fascino di una grande densità espressiva. Il fascino dell'introdurre senza spiegare, impostare senza dire l'ultima parola, interrogare senza rispondere. Dove il discorso perde in rigore psicologico e antropologico, guadagna in ricchezza semantica: è sempre un discorso condotto sul sottile crinale che separa opposti declivi di idee culture e religioni. Ed è un discorso, nell'apparente classicità delle immagini, moderno sia nello stile che nelle implicazioni proposte dalla materia. A tutt'oggi siamo davanti all'opera migliore di Liliana Cavani, e a una delle più sottili e rigorose delle ultime stagioni italiane» (S. Frosali, “Sipario” n. 333, febbraio 1974).
Scheda a cura di Franco Prono
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