Visto censura n. 13.045 del 1.11.1917; 1.705 metri.
«Abbiamo assistito ad una visione privatissima di questa film della giovane casa torinese, e possiamo affermare con tutta franchezza che siamo rimasti ammirati, sia per la trama del soggetto, di una drammaticità e sentimentalità interessanti, che per il suo svolgimento, per l’interpretazione e la mise en scène. Mario Casaleggio sostiene la sua simpaticissima parte da gran maestro, ed ha dei momenti di una comicità castigata e piacevole e tal’altri di vero dolore. La sua maschera si presta mirabilmente a rendere i vari sentimenti che agitano l’animo del personaggio del povero cantastorie, ch’egli impressiona, ed ogni sfumatura della parte ha il massimo risalto. Col Casaleggio si distingue assai bene la Frascaroli, la quale rende il personaggio di una delle due derelitte, con un verismo encomiabile. Soltanto le raccomandiamo... di piangere in modo che il suo viso non diventi troppo brutto! Lavora con passione e s’investe della parte che deve impersonare, ma ha momenti di esagerazione che farà bene a mitigare. Anche la piccola bambina che fa la seconda orfanella è carina e brava assai, e così tutti gli altri interpreti sono perfettamente a posto, incominciando dal Cav. Mugnaini, a Giovannetto Casaleggio, alla Fernanda Sinimberghi, e via via. La condotta del lavoro merita una parola di lode sincera e Giovannetto Casaleggio può andarne orgoglioso; bella e ricca la messa in scena; felicemente ritratti gli esterni, che sono davvero incantevoli ed inquadrati da mano maestra, e di ciò va dato merito all’operatore Fiorio. Ottima addirittura la fotografia. In complesso, salvo qualche nèo inevitabile, la pellicola è davvero buona e bella, e noi ce ne congratuliamo colla “Edison”, la quale certamente otterrà un successo che servirà a ripagarla della cura posta nell’esecuzione del lavoro» (“La Vita Cinematografica”, nn. 33-34, 7-15.9.1917).
«Non sono quelle classiche di d’Hennery [D’Ennery, n.d.r.] che tante lagrimuccie pietose hanno strappato e che tante piccole animule borghesi hanno commosso; ma sono invece quelle altre orfanelle, certo delle prime non meno perseguitate dalla guigne più atroce, le quali, se non hanno fatto piangere nessuno, hanno per lo meno divertito la grande folla buona che stipava il “Cinema Teatro Vittoria”. Santa semplicità! E il monito del poverello d’Assisi diventa, nel vertiginoso secolo del gran progredire, una massima, un sistema, un’ideologia. Bisognava vederlo, quel buon pubblico clamoroso, allietarsi con ingenuità valligiana alle lepide trovate di Mario Casaleggio! I critici sono sempre un po’ maligni, in quanto l’esegesi si nutre di bile verdognola ed amara. E si continua a ritenere il pubblico un grande esigente, un incontentabile irremissivo, un débauché nel gusto; mentre invece è tanto, troppo buono e clemente. Lo ha dimostrato nell’assistere a questa visione timida e modesta come le prime violette vergini d’una primavera pudibonda; visione che non ha grandi pretese d’arte, né contatti colla perfezione, ma è – diciamolo pure – famigliare: suo massimo, se non unico pregio. L’hanno strombazzata e non ne valeva la pena: il pubblico sarebbe accorso lo stesso. Non foss’altro, per vedere Casaleggio metamorfosato comicamente in cantastorie, errare, ambulare per le vie della nostra sorridente Torino e di qualche cittadina dei dintorni, divertendosi e divertendo. Quindi è facile il comprendere come nessuna vetta inaccessibile sia stata raggiunta. Valentina Frascaroli, pur non brillando della sua bella luce, commosse: il che non è molto ma è già qualche cosa. Ugualmente lodate vanno la Quaranta, la piccola Stellina e la Sinimberghi: buona triade che coronò dei suoi fiori più belli l’arte non sempre eccelsa dell’interprete. Fra gli esecutori virili notiamo la suggestiva espressività del cav. Mugnaini e la correttezza di Domenico Serra e di Franz Sala. Grande astro in tanto cielo meravigliosamente stellato fu Mario Casaleggio che – come dicemmo – seppe strappare qualche adiposa risata di sapore dolcemente domestico. Buona la parte fotografica. Un’ultima parola d’encomio per Giovannetto Casaleggio che inscenò abilmente il lavoro, e vi sostenne anche una piccola parte, e per Luigi Fiorio, operatore sagace. Tirando le somme da questi modestissimi addendi, possiamo coraggiosamente affermare che il grande pregio della visione è quello di svolgersi in famiglia, tra noi. E per quell’eterna pigrizia che abita al posto d’onore le nostre scatole craniche di pseudo-raffinati, il fenomeno è conosciuto. Perché amiamo un vecchio ritornello verdiano? Perché spesso lo scordato organo di Barberia ce l’ha stonato sotto le finestre del nostro studio. Questa la ragione precipua: si gusta ciò di cui si conosce il sapore. Per gustare il nuovo bisogna anzitutto dare al palato il tempo di abituarsi» (V. Guerriero, “La Vita Cinematografica”, nn. 37-38, 7/15.10.1917).