Visto censura n. 10.276 del 19.8.1915 (alcune fonti indicano il 13.8.1915)
Distribuito in Spagna nell’aprile 1916, in una versione lunga 1300 metri.
«L’umile protagonista dimostra che sullo schermo può con efficacia emotiva e con nobiltà estetica apparire l’umile protagonista dell’oscuro dramma sociale: vita di umili, sofferenza di umili, dignità e fierezza di umili. Dimostra quanta bellezza intima si sprigioni dai quadri che riproducono l’umanità quale realmente è e non quale l’immagina il capriccio di un interprete o di un direttore di scena. Il mondo chiuso dei salotti; delle cavalcate, degli adulteri si è aperto, per lasciar passare un’ondata di vita più larga e sincera, e l’abilità del ricostruttore può dunque felicemente manifestarsi nella ricerca di ambienti modesti che riescono certe volte più interessanti delle leziosaggini aristocratiche e della retorica del fasto. La modesta casa del lavoratore, la vita di bordo dell’emigrante, le amarezze e le delusioni della terra promessa, il ritorno che mescola il disonore, la miseria, la mesta e profonda poesia del lavoro onesto, dell’umile desco familiare che consiglia all’infelice mondana l’abbandono della vita dissoluta, ecco altrettanti quadri fedeli, precisi, interessanti, senza divagazioni e senza insulse ricerche dell’effetto. Ermete Zacconi è un grande mimo, nella sovrietà [sic] del suo gestire, nella potenza psicologica della sua maschera, nella verità della sua personificazione del dolore, della fatica, dell’ira, del mite sorriso. Ecco finalmente un po’ d’arte in tanto dialogare di mestieranti...» (A. Dondeno, “Il Tirso al Cinematografo”, 7.4.1916).
«Ecco, ad esempio, il caso tipico dello sfruttamento di un nome famoso – quello di Ermete Zacconi – per farne il salvacondotto, presso il grande pubblico, di una cosa mediocre. Semplicemente di un nome, ché dell’attore non è il caso di parlare, per essere lo Zacconi attore eminentemente “teatrale” e quindi inadatto pel cinematografo. Il soggetto dell’Emigrante è una discreta cosa. Buona novella, non ha però le doti di movimento, di varietà d’azione necessarie alla sua trasformazione in dramma cinematografico. Per simulare l’esistenza di questa azione deficiente, per dare l’illusione di una trama che progredisca intensamente come lo schermo richiede, si è costretti a sviluppare infiniti quadri d’ogni genere: la vita di un emigrante a bordo, scenette paesane, il lavoro degli operai; ma il dramma non c’è. Restano soltanto le vecchie, oh, quanto vecchie, situazioni del racconto popolare “di maniera”: il padre lontano che lavora e soffre, la figliola che perde l’onore, l’aristocratico seduttore, la megera mezzana, ecc., ecc. E per legare i pochi momenti in cui ci troviamo di fronte ad un contrasto di sentimenti più forti che fermi l’attenzione e muova l’interesse, v’ha tutta una lunga, frammentaria, lentissima serie di quadri senza sapore e senza colore, che sembrano la traduzione plastica degli umili sforzi descrittivi di uno scolaretto sentimentale. Né la fine della breve, quanto diluita storia può appagare lo spettatore, come forse persuade i lettori della novella su cui infelicemente è tratto il soggetto. Sullo schermo v’ha bisogno d’una maggiore compiutezza d’intreccio corrispondente al carattere di sommarietà, per così dire in confronto degli altri generi d’arte; sullo schermo occorre che ogni personaggio, quando la film termina, abbia esaurita o necessariamente segnata la sua via che ogni situazione sorga dalla visione del logico svolgimento dei particolari che, in sostanza, anche l’azione si conchiuda definitivamente dinanzi agli occhi dello spettatore. Nell’Emigrante non è così; la scena finale tace una crisi passata e non illumina un avvenire certo; è un chiaroscuro da novella, che sullo schermo sembra un capestro improvviso posto al dramma, e ne suggella adeguatamente la povera mediocrità. L’esecuzione vale il soggetto. Un ben modesto sforzo si richiedeva per la preparazione di scene della vita comune, né era necessaria alcuna speciale virtù d’attori. Si vede che tutto questo grigio doveva avere la luce da Ermete Zacconi. Il quale, come è grande in tanta vasta parte del teatro contemporaneo, è mediocre anch’esso nel più umile, ma assai diverso, campo del cinematografo. Qui vedete, chiara e continua, la monotonia di un giuoco esteriore, che male s’addice all’ingenuo protagonista; qui vedete il tremolio morboso e lo sbarrare degli occhi di Osvaldo; qui vedete l’attore preoccupato del suo effetto personale, immediato come se dominasse ancora nel mondo della ribalta. È la più netta conferma – e non ce n’era bisogno – che l’attore di teatro non può divenire attore cinematografico, e tanto meno questo, quanto più quello ha esperienza e bravura nell’arte sua. L’Emigrante è quindi un netto insuccesso, tanto più inutile in quanto non ha combattuto alcuna buona battaglia» (AR [A. Rosso], “Apollon”, aprile 1916).