Distribuito in Portogallo nel marzo 1924.
Il film ebbe notevoli problemi con la censura dell’epoca, a causa di alcune situazioni ritenute troppo scabrose e dunque proibite o drasticamente ridotte.
Vittime di un guasto, il pilota Claudio Vinci e il suo fedele meccanico Sfortunello fanno scalo sull’Isola della felicità, situata in un punto sperduto dell’Oceano Atlantico, per avere modo di riparare l’aereo nel minor tempo possibile. Entrano così in contatto con la giovane e bella Magala che, approdata sull’atollo da bambina in seguito al naufragio di un piroscafo, vive in compagnia di un uomo anziano che per lei è più di un padre, sfuggendo le navi di passaggio e l’eventuale possibilità di far ritorno sulla terra ferma. Al momento di ripartire, i due aviatori si offrono di dare un passaggio alla coppia, ma l’uomo non vuole abbandonare l’isola e Magala, legata a lui da riconoscenza e affetto filiale, si rifiuta di lasciarlo solo nonostante l’attrazione che prova per Claudio. A distanza di tempo, alla morte del proprio benefattore, la ragazza vince la paura dell’ignoto e si trasferisce in città dove, incontrato un parente, scopre di avere nobili natali e un notevole patrimonio. Nelle nuove vesti della sofisticata Principessa di Tarnia, ritrova Claudio, che non l’ha mai dimenticata, a una festa.
«Questa, che Luciano Doria ha modestamente chiamato “fantasia”, è veramente un singolare e squisito lavoro cinematografico, nel quale il temperamento dello scrittore, trovandosi in piena corrispondenza ed armonia con gli elementi della sua finzione, riesce a ricavarne il massimo profitto e a raggiungere una fusione quasi perfetta, donde sorge l’equilibrio che governa tutta l’opera [...]. L’isola della felicità, che appartiene a quel genere di lavori sentimentali e fantastici, la cui vicenda sta tra la vita ed il sogno, tra la realtà e la fantasia, è forse il lavoro più organico ed equilibrato che il Doria ci abbia finora dato. Ed è anche il più originale e il più gustoso [...]. Diomira Jacobini si rivela un’artista di profonda, rara sensibilità [...]. Ella vive e vibra nel gioco dei sentimenti e della scena, mutevolmente, ed in lei non si sente mai l’artifizio della finzione scenica. Ottimi Cassini, Collo e Martinelli, nelle rispettive parti. Buona la fotografia» (Dioniso, “La Vita Cinematografica”, 15.4.1921).
«Luciano Doria ha sempre avuto qualche cosa che lo spingeva a creare dei personaggi inverosimili o, per lo meno, molto lontani dalla vita vissuta, come maggiormente ci è apparso nei suoi ultimi lavori; ma questa volta non possiamo tenerci dal dire che si è presentato con un peggioramento che non avremmo voluto da lui. Ed una prova palese di questa ravveduta diminuzione è indubbiamente a parer nostro, il desiderio avuto nel voler mettere in scena lui direttamente questa sua ultima creazione. Ma l’effetto sperato dalla sua fantasia pare, ugualmente, andato a vuoto. Troppo sicuro dei valentissimi interpreti che lo hanno coadiuvato, ha finito, indubbiamente, col vedere della poesia e nulla altro che della poesia, per modo che ci siamo trovati davanti ad un lavoro zoppicante e quasi del tutto stiracchiato» (Zadig, “La Rivista Cinematografica”, n. 12, 25.4.1921).
«In questa film due cose non possono persuadere. Prima cosa: nel naufragio d’un piroscafo un tal signore (Alfonso Cassini) riesce a salvarsi con una bambinella non sua, approdando in un’isola deserta. Perché egli non cerca mai e poi mai di richiamare l’attenzione dei naviganti, e preferisce vivere e morire colà da eremita, trattenendo seco la bambina, fino a che ella diventa donna (Diomira Jacobini) ed a lui crescono i capelli e la barba lunga un metro? Seconda cosa: Quando Dio vuole, la selvaggia fanciulla, che fugge gli uomini, dopo la morte del vecchio chiama una goletta transitante al largo e viene portata in città; ella ha una paura matta degli uomini e delle cose, ritrova uno zio dottore, il titolo di Contessa e molti milioni, (mercè uno scritto lasciatole dal vecchio morto e che ella, sull’isola deserta, non avea saputo leggere). Eccoci: lo stesso giorno in cui ella ritrova queste cose diventa una donna alla moda e cognita di tutte le raffinatezze. Le zoppe non mancano mai, e ci accorgiamo che esse sono sempre nelle trame. Va sans dire che l’interpretazione della Diomira è buona: perfettamente selvaggia nella scogliera ove è vissuta, credo io, per ben 12 anni, e buona nelle vesti di Contessa. Corretto Alberto Collo, ottimo il povero Alfonso Cassini e comico il Martinelli. Messa in iscena e tecnica buone. Fotografia scura, copia orribile» (R. D’Orazio, “La Rivista Cinematografica”, n. 13, 10 luglio 1923).