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Cinema muto |
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La casa di vetro
Italia, 1920, 35mm, B/N
Altri titoli: A casa de cristal (Portogallo); La casa de cristal (Spagna)
Regia Gennaro Righelli
Soggetto Luciano Doria
Sceneggiatura Luciano Doria , Nunzio Malasomma
Fotografia Tullio Chiarini
Interpreti Maria Jacobini (Gaby Printemps ), Amleto Novelli (Roberto Landi), Oreste Bilancia (Max Andreani), Alfonso Cassini (padre di Roberto), Carlo Benetti, Orietta Claudi (Grazia), sig. Paquali
Produzione Fert Film, Roma/Torino
Distribuzione Pittaluga
Note 1969 metri
Nulla Osta n. 15.666 del 1.12.1920
Prima proiezione italiana: Roma, 21.2.1921
Prime proiezioni all’estero: Portogallo (Lisbona) 5.3.1923; Spagna (Madrid) 20.12.1920.
Sinossi
Durante un viaggio, Gaby Printemps, una ragazza di città che ama il divertimento e la vita mondana, viene colpita dalla quieta vita che si conduce in una paese di montagna, tanto che decide di fermarsi, nel villaggio. Qui conosce Roberto, un ragazzo semplice e onesto e se ne innamora. I due si trasferiscono in città, ma i differenti stili di vita ben presto si fanno evidenti. Il padre di Roberto va a trovare il figlio e lo mette di fronte alle evidenti differenze tra i due. Roberto ritorna al villaggio di montagna e si ricongiunge alla fidanzata di sempre, mentre Gaby ritrova se stessa nei divertimenti e negli agi della vita di città.
Dichiarazioni
«Una fragile casa di vetro, che al primo urto s’infrange, è il ménage quieto e onesto che una cocotte elegante, Gaby Lanson, per un desiderio di vita diversa e per un raffinato gioco di fantasia, si costruisce con un uomo timido e raccolto, ch’ella ha rapito alla provincia. Capitata d’inverno in un paese d’Abruzzo, per uno strano capriccio di mondana, ella ha voluto provare la vita onesta, quella che non era mai riuscita a vivere. E fintasi una giovane vedova, ha finito per ingannare gli altri e se stessa, sicché, persa nella sua rete, è stata travolta dalla passione un po’ primitiva, ma pur tanto dolce, di Roberto Salvi, un giovane ricco proprietario del paese. E questi, dimenticando per la donna nuova la famiglia e la fidanzata, è fuggito con lei. Ma passa la prima febbre d’amore, la natura così diversa dei due amanti li allontana poco a poco quasi invisibilmente, ma purtroppo irreparabilmente. La vita raccolta, la famiglia vigile e affettuosa, il paese onesto e pieno di piccoli ricordi e di sorridenti gioie, tolgono ogni giorno maggior fascino allo sterile sogno dinanzi alle pupille dell’abbacinato sognatore. E d’altro lato i tentacoli di quella che fu un giorno la vita di Gaby giungono di nuova sino a lei, e la riprendono senza più scampo, aprendo un leggero sbadiglio su quella immobile e un po’ grottesca felicità in pantofole. Così, in una sera di Natale, Gaby crede opportuno separarsi da Roberto, affinché egli ritorni ad allietare la sua famiglia nella festa di rinascita. E mentre col suono della zampogna “discende dalle stelle il Re del Cielo”, Gaby abbandona Roberto fra le braccia del padre di lui, con una lacrima di rimpianto per l’amore incenerito e per la felicità illusoria che al primo soffio è svanita» (L. Doria, “Fert, Produzione Cinematografica, Primo Bollettino”, brochure pubblicitaria).
«Luciano Doria ci ha imbastito un soggetto senza dubbio carino, se non del tutto originale nello spunto. Ma è caduto, ahimé!, in due sdruccioloni, non troppo gravi, è vero, e che per noi, del resto, volentieri gli perdoneremo: ha scelto per il suo lavoro, un titolo di colore oscuro, e ha tratteggiato il carattere di Gabriella, la protagonista, con linee così brevi ed arruffate, che la figura ne è saltata fuori evanescente e punto persuasiva. Il titolo è ora qui cosa secondaria, e dà noia fino a un certo punto; ma la imprecisata indole di Gabriella, che ora ha un’anima e ora ne ha un’altra, del tutto opposta, toglie in parte la schietta freschezza degli episodi, che risultano ora intempestivi ed ora addirittura inutili. Tuttavia la virtuosità del soggettista è stata tanta, che pur queste mende sono affogate nell’onda rigurgitante delle vene. Non poco merito ha avuto, a questo fine, la genialità fine del direttore artistico, con quelle sue trovate sottili e graziosissime, con quella vistosità o castigatezza degli ambienti che rasserenano l’animo in tanto mareggiar di brutture. Maria Jacobini è stata la solita attrice castigata e simpatica, senza le smancerie e le pose di coloro che ad esse ricorrono perché prive di ogni soccorso dell’arte. Amleto Novelli, che in alcune parti ci è sembrato veramente superiore a se stesso, ha affermato le sue qualità uniche di attore. Che dire di Alfonso Cassini? Ogni parola (ora ch’Egli è chiuso nella sua pace dopo la vita sì laboriosa), ogni lode sarebbe superflua, e turberebbe nella tomba la sua quiete serena. Sia la nostra lode fatta di reverenza ed ossequioso silenzio. Non sappiamo se la scarsa luminosità della fotografia dipenda da deficienze iniziali o da posteriore consumo della film. Non azzardiamo, perciò alcun giudizio. Nel complesso, una buona film, che ci auguriamo di poter presto vedere al fianco di alte simili e anche più belle» (Da Verona - Casa di vetro, “La Rivista Cinematografica”, a. II, n. 19, 10.10.1921).
«Come Margherita Gauthier, Gaby Printemps, l’eroina del dramma, sacrifica il suo romantico amore alla pace dell’uomo che, per la prima volta, le ha fatto comprendere l’amore: come la pallida donna del Dumas, Gaby si allontana, con la morte nell’anima, da colui che ama, e si getta nuovamente nel vortice di una vita febbrile, la quale ormai non potrà più che straziarla. Pure, ci ha commossi, ci ha fatto piangere la storia dolorosa di Gaby quanto quella della popolare Signora delle camelie! No: l’infelice amante di Roberto Landi è meno umana di Margherita: il suo amor, che vorrebbe essere nobile e grande, ha a volte atti e parole poco comprensibili. Il dramma cinematografico è però assai ben condotto, almeno sin quasi agli ultimi quadri; questi sono un po’ troppo precipitati e quindi poco persuasivi. Si sarebbe dovuto veder di più il sacrificio, il disperato ritorno alla vita gaudente di Gaby: si poteva svolgere meglio il dolore dell’amante abbandonato, il drammatico incontro con il padre. Questi errori, però, non tolgono il valore del dramma, il quale ha, fra gli altri il merito di portarci in ambienti e luoghi ancor quasi inesplorati, come le terre ridenti dell’Abruzzo forte e gentile. Passano così dinnanzi ai nostri occhi ammirati i paesi della Maiella, i paesi di rocce di verde, ove la vita civile non ha ancor potuto portare le sue eleganze raffinate. Gaby Printemps è stata Maria Jacobini, l’attrice semplice e commovente, non ancora guastata dal divismo. Pure, in Casa di vetro, ella ci è parsa meno grande del solito: la sua interpretazione è stata meno potente delle altre. È stata però indubbiamente brava; ma il nostro ricordo riandava ad un’altra creatura che da lei ebbe vita e colore: a Dorina; alla piccola e cara protagonista di Addio giovinezza, e allora Gaby ci è sembrata poco convincente e poco umana. Con ciò, però, Maria Jacobini, ha sempre il merito di una semplicità meravigliosa, di un’arte priva di ricercatezze e di posa, per cui ella è sempre così simpatica e cara al pubblico, che l’ama e l’ammira. Accanto a lei, grande come sempre, ha soggiogato ed ha trionfato Amleto Novelli. È stato un Roberto Landi magnifico e potente, dal gesto sobrio, corretto ed espressivo sempre; in Roberto dal cui volto traspariva tutta l’anima, nel cui sguardo si leggeva tutta la sua vita tormentosa e infelice. Quale attore meraviglioso questi, che ci fa parere vera e viva ogni creatura da lui incarnata, che ci fa gioire, piangere vivere con lui il suo pianto, la sua gioia, la sua vita! Ma da Amleto Novelli non si attendono che interpretazioni simili: con lui si sa di avere dinanzi un artista, si sa di poter ammirare un’arte meravigliosamente sincera e potente. Bravissimo Oreste Bilancia, nella comica parte di Max Andreani; e efficacissimo Alfonso Cassini, nella figura del vecchio Landi. La messa in scena è ricca di buon gusto: gli esterni meravigliosi e pittoreschi, la fotografia è sempre ottima, anzi è un vero gioiello, del quale l’operatore può andarne fiero. Un complesso perciò di eleganza, di fine senso artistico, che fa onore alla giovane e promettente “Fert”» (Nel cinema di Alessandria – Casa di vetro, “La Rivista Cinematografica”, a. II , n. 9, 10.5.1921).
«Luciano Doria è letterato, In Casa di Vetro egli fa della poesia; si preoccupa, giustamente, di rispettare anche nei titoli il buon gusto. Ma per noi è troppo preoccupato appunto di nobilitare le scene in tutti i modi. La vita è anche antiestetica e volgare e nel cinematografo è così poliforme che è già falsarla, l’escluderne gli episodi che non aiutano lo scopo del soggettista. Il soggettista a rigore dovrebbe ottenere il suo scopo, malgrado gli episodi che rendono difficile il raggiungerlo. Per venire alla Casa di Vetro diremo che a Gabriella vanno troppo bene le cose, da per tutto. In una folla di contadini essa è rispettata da tutti, troppo, sempre. Tutto è preordinato non dalla verità ma dal Doria, perché la strana anima dolorante di Gabriella, giganteggi fra la mult’anime vita della folla. Ed è un peccato che, a riprova, io non abbia potuto pubblicare tutto il secondo atto di Casa di Vetro. Doria ha il merito di una nobile ricerca del bello, sempre. Il metodo del Doria è quello di chiudere i quadri, secondo il criterio dello spazio. Non è il gesto che lo spezza, come nel Gallone; non è il gruppo di sensazioni che lo determina come nel De’ Liguoro, non è il capriccio dell’esteta che lo incornicia come nel Genina, è nell’ambiente che lo circoscrive. Ogni spazio nuovo, è un nuovo quadro. È un sapiente ricostruttore di scenari ed è insensibile molto al gusto imperante» (P. Marica, L’arte di fare un “soggetto” per cinematografo, Fileti & C., Roma, 1920).
«Il soggetto non ha certamente di per sé stesso delle grandi attrattive, ma fu inscenato con così profondo senso pratico ed artistico da riuscire a reggersi in piedi col più perfetto degli equilibrii. Sfondi dei più vari ed interessanti, giochi di sentimenti, caso raro, mantenuti nel più schietto verismo, semplicità ed efficacia, gusto e tecnica portati ad un grado già sufficientemente rilevante, naturalezza, praticità, di modi e di mezzi. Unica cosa che ci sentiamo di biasimare è la fotografia, stimata ormai fra i requisitii più intrinseci di un film. Quanta differenza da Zingari per esempio! [...] E non voglio poi dire di certi fondus [...] lunghi, interminabili [...] di certi interni col pavimento in [...] salita, ecc. Ottima, perfetta, convincente ed appassionatissima, l’interpretazione invece di Maria Jacobini. L’indiscutibile suo valore ci ha dato ancora una volta una prova superba di quello ch’essa sa fare anche in lavori di minor risalto, assicurandoci un’esecuzione della più perfetta scuola. E maestra essa infatti in questo genere, maestra degna della più devota ammirazione, degna della più diligente ammirazione. Ottimi pure Alfonso Cassini e Oreste Bilancia. Leggermente fuori posto ed un po’ esagerato Amleto Novelli, malgrado si sia visto in lui l’intendimento di dare alla sua parte un’interpretazione leggermente varia dalle solite. Lodevoli gli altri. Se a questo film, ripeto, avesse corrisposto anche la fotografia, avremmo potuto indubbiamente compiacerci con la Casa “Fert” per la costante cura ch’essa pone a voler mantenere alta la sua produzione. Speriamo tuttavia che questo giovi per un’altra volta... e che si tenga per massima, che dopo il direttore artistico chi fa il film è l’operatore. Che ne sarebbe, ad esempio, di tanti film americani, se non vi fosse la fotografia ad assorbire l’attenzione del pubblico? L’impressione fu tuttavia buon ed in complesso anche piacque» (Casa di vetro, “La Rivista Cinematografica”, n. 10, 25.3.1921).
Scheda a cura di Valeria Borello
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