Regia Leandro Castellani
Soggetto Ennio De Concini
Sceneggiatura Ennio De Concini, Silvano Buzzo
Fotografia Renato Tafuri
Operatore Enrico Maggi, Carlo Poletti
Musica originale Stelvio Cipriani
Suono Tullio Morganti
Montaggio Leandro Castellani
Scenografia Guido Josia
Costumi Luciana Marinucci
Trucco Alvaro Rossi, Francesca Rossi
Interpreti Ben Gazzara (don Bosco), Patsy Kensit (Lina), Karl Zinny (Giuseppe), Leopoldo Trieste (don Borel), Silvano Tranquilli (nobile piemontese), Raymond Pellegrin (Pio IX), Piera Degli Esposti (madre di Lina), Laurent Terzieff (monsignor Gastaldi), Philippe Leroy (Leone XIII), Per Luigi Misasi (don Cagliero), Rick Battaglia (marchese Michele Cavour), Edmund Purdom (Urbano Rattazzi), Luca Lionello (don Rua), Egidio Termine (agitatore antigovernativo)
Direttore di produzione Massimo Alberini
Produzione Alfio Sugaroni per RaiUno, Elle Di Ci, Tiber Cinematografica
Distribuzione Columbia Tri Star Films Italia
Note Collaborazione alla sceneggiatura: Silvana Buzzo; consulente storico: Marco Bongioanni; collaborazione e ricerche storiche: Gianni Viggi; assistenti operatori: Alfonso Vicari, Andrea Fastella, Franco Mele, Sandro Rubbo; assistenti al montaggio: Mauro Menicucci, Rita Triunveri; assistenti scenografi: Maddalena Biggi, Roberta Casale, Ferdnando Giovannoni; assistente costumista: Stefano Giambanco; parrucchieri: Giuseppe Desiato, Adalgisa Favella, Luciana Palombi; assistenti alla regia: Crean Daysy, Nino Fuscagni, Anna Margarete; atri interpreti: Aldo E. Castellani, Leslie Thomas, Cesare Apolito, Vittorio Calò, Gianni Conversano, Andrea Tilli, Diego Verdegiglio, Roberto Visconti, Sergio Stefanini, Robert Sommer, Cesare Di Vito, Filippo Reina, Michele Sanzò, Giovanni Forte, Antonio Francioni, Francesco Fratini, Franco Pistoni, Sandro Pellegrini, Corrado Olmi, Rate Furlan, Jacopo Fuscagni, Jorge Krimer, Giuseppe Marini, Armando Marra, Pietro Montandon, Giuseppe Mendolicchio, Maurizio Mauri, Ovidio Martucci; segretari di produzione: Rosa Carluccio, Marco Olivieri, Guglielmo Smeraldi; produttore Rai: Corrado Biggi; organizzazione generale: Oscar Santaniello; distribuzione internazionale: Sacis.
Gli interni del film sono stati girati negli Studi Empire di Roma; gli esterni in parte nella zona i Castelli Romani e in parte nella campagna torinese, vicino a Lombriasco (ove è stato ricostruito l’Oratorio salesiano di Valdocco).
Sinossi
In una Torino in espansione, piagata da problemi di povertà, mancanza di lavoro, fermenti rivoluzionari, il giovane don Bosco cerca di togliere i ragazzi dalla strada, di istruirli e di dare loro un mestiere. Crea così il primo Oratorio ed ottiene sostegni economici tali da concretizzare l’intento educativo e pastorale. Accanto alle vicende del Santo, si dipanano quelle di alcuni “ragazzi” da lui aiutati, come il rapporto amoroso tra Giuseppe, un ex ladruncolo che diventa uno dei più attivi collaboratori dell’Oratorio, e Lina, una cameriera di locanda che scappa da casa per non essere costretta a prostituirsi. Il Governo italiano e le autorità ecclesiastiche non vedono favorevolmente le iniziative di don Bosco, ma egli non cede, nonostante ostilità, aggressioni fisiche e difficoltà economiche. Fonda la comunità dei Salesiani (così chiamata in onore di San Francesco di Sales), le cui regole vengono approvate da papa Pio IX. Mentre continuano le critiche della Curia vaticana e di quella torinese, anche papa Leone XIII sostiene l’attività di don Bosco che si estende ormai a tutto il mondo.
Dichiarazioni
«L’intenzione è quella di offrire allo spettatore la figura di un uomo che conosce forse solo superficialmente, dandogli dunque la possibilità di entrare in un particolare clima, anche molto attuale, attraverso ci scoprire la vita del vero Don Bosco. [...] Io lo ritraggo da vivo nell’epoca delle lotte, delle sue battaglie più vere [...] quando lui, giovane prete, affronta la città, la Torino di allora, con i problemi sociali dell’epoca, l’inserimento i ragazzi di campagna, l’inurbamento, in un’Italia politicamente così complessa e in fase di mutamento. [...]. Sovente nella mia carriera di regista mi è captato di dover dar vita a vescovi o sacerdoti e ho sempre evitato tutti quegli attori che erano già predestinati al ruolo del “santo”; quelli che io definisco cioè già con l‘aureola prima ancora di entrare nella parte. [...] Ben Gazzara ha degli occhi intensissimi. Parlano da soli: arrivano dritti allo spettatore più delle parole e ciò mi sembra fondamentale per un simile personaggio» (L. Castellani, “Radio e Tv. Notiziario della Radiotelevisione Italiana”, n. 202, 28.9.1988).
«Il filo del racconto è la memoria di un uomo già vecchio e malato e la correlazione tra le scene è prevalentemente di natura associativa, piuttosto che cronologica e lineare. La “versione dei fatti” è quella innocente e incantata di Don Bosco. L’eccezionalità di Don Bosco consiste nel riconoscere come unica regola ai fatti della vita, quella voluta dal Signore; non ci è sembrato quindi opportuno ridurlo ad un psicologia “comune”: un uomo che si scontra e si misura con la realtà per perseguire il suo scopo. Don Bosco non è un eroe: è un santo e tale deve apparire: quasi incredibile nel modo spirato e mistico di vivere ogni attimo della propria vita. Al contrario di un “eroe”, Don Bosco non combatte, non si ribella, non dubita mai della necessità degli ostacoli (Spine tra le rose della vita...) e persegue dritto, con totale dedizione, verso il suo sogno di fanciullo» (E. De Concini, Ibidem).
«Mi ha entusiasmato questo uomo che non conoscevo prima di leggere il copione, trovandomi poi man mano che giravo sempre più a mio agio nei suoi panni. [...] Un personaggio come Don Bosco, con tutte le sue opere, i cambiamenti che è riuscito a fare nel corso della sua vita, non poteva certo essere un remissivo, o un docile. Non si poteva perciò offrire un ritratto solo spirituale di un personaggio da cui innanzi tutto emergeva il carattere, la “grinta”, oltre al coraggio di andare contro i potenti della Chiesa e i politici dell’epoca pur di realizzare il suo sogno. Le riforme d‘altronde non si fanno certo solo con le preghiere o la dolcezza. Ci va la tenacia» (B. Gazzara. Ibidem).
Nel 1935 il Don Bosco diretto da Goffredo Alessandrini (primo film prodotto dalla torinese Lux) celebrò la canonizzazione del fondatore dei Salesiani. Nel 1988 arriva il momento di celebrare il centenario della morte del Santo. Il cinema italiano è cambiato profondamente in questi cinquant’anni a livello di produzione e di mercato: pertanto l’omaggio a don Bosco è un film televisivo che viene affidato ad un regista – Leandro Castellani – specializzatosi fino dall’inizio degli anni Sessanta in inchieste e telefilm di carattere storico realizzati per la Rai. Anche il linguaggio, la struttura drammaturgica, il ritmo del montaggio sono quelli tipici dei prodotti televisivi di questo genere. La scelta degli attori conferma la volontà di “catturare” il grande pubblico: un grande attore americano come protagonista (benché privo di affinità fisiche, caratteriali, morali, culturali, intellettuali con il Santo) ed nel primo ruolo femminile una giovane rock star inglese (diventata “famosa” in Italia per aver mostrato inopinatamente il seno alle telecamere durante il Festival di Sanremo).
Come altre biografie di Santi che lo hanno preceduto o seguito nel corso degli anni nelle programmazioni televisive, questo Don Bosco appare un ritratto celebrativo, un’immaginetta sacra in cui il protagonista non possiede né ombre, né aspetti problematici, ma è sempre mite, sorridente, ottimista, fiducioso, malinconico, pieno di bontà e gentilezza verso tutti. Castellani nasconde intenzionalmente sia il carattere fiero e collerico (storicamente documentato) del Santo, sia gli aspetti contraddittori della sua grande attività benefica, pastorale ed imprenditoriale ad un tempo, sia il grande sviluppo su scala mondiale della comunità salesiana con i relativi riflessi economici e politici. Ugualmente superficiali e schematici sono i piccoli ritratti di personaggi quali Urbano Rattazzi, Pio IX, Leone XIII, monsignor Gastaldi.
«Tutto giocato (senza troppa convinzione, in verità) sul motivo ricorrente, ideato da De Concini, dell’acrobazia sulla corda di don Bosco fanciullo. Come dire che lui anche da grande faceva affidamento sul senso dell’equilibrio, sulla volontà di giungere al traguardo ad occhi chiusi, purché Dio l’aiutasse. Questo tema della provvidenza si sarebbe voluto magari più sviluppato, insieme col contesto storico di quell’Ottocento piemontese così propizio ai Santi manager, ai Santi imprenditori. Si sarebbe voluta un’analisi più approfondita del rapporto che si instaurò tra sviluppo industriale e beneficenza in quell’intenso periodo (l’insegnamento del Cafasso, l‘esempio del Cottolengo). Invece, tutto è sacrificato al carisma individuale, non c’è neppure una didascalia che precisi una data [...] Insomma, un film da tutti i punti di vista edificante (e magari i salesiani si aspettavano un film problematico)» (L. Tornabuoni, “La Stampa”, 1.10.1988).
«Il regista, Leandro Castellani, in fase di lavorazione aveva dichiarato che il suo film non intendeva essere né una ricostruzione minuziosa né il ritratto di un riformatore sociale. Ma il prodotto ultimato barcolla da qualsiasi punto lo si voglia guardare con le musiche stereotipate di Stelvio Cipriani, la bella ma in questo contesto gratuita e troppo flou fotografia di Renato Tafuri, i costumi e le scenografie da melodramma fumettistico di Guido Josia. Persino le masserie piemontesi con il granaio e la stalla sembrano false, ricostruite in studio senza attenzione al mondo contadino in cui maturò, all\'ombra dell\'industrializzazione, il santo che morendo disse: “Tutto è compiuto. Io non sono altro che una cicala che canta e poi muore"» (G. Grassi, “Corriere della Sera”, 8.10.1988).
« In tempi di crisi mistiche (Scorsese), di preti dimezzati ( La Messa è finita), di sacerdoti esorcisti (Walter Matthau nell\'imminente Piccolo diavolo di Benigni) o visionari ( Sous le soleil de Satan di Pialat: a proposito, che fine ha fatto?), il fondatore dell\'ordine dei Salesiani è figura pia e benemerita. Pensate che anche l\'ottava meraviglia (Eight Wonder) del mondo rock, la star Patsy Kensit povera ma bella contadina, (è una donna, e non una santa) ne resta affascinata. A cent'anni dalla morte del Santo (fu canonizzato nel '29), Leandro Castellani induce nell'agiografia ma non troppo (grazie ai demeriti di Gazzara), mima talvolta il cinema di Comencini (bambini, cuore e la Torino fine secolo), si lascia trascinar via dagli evitabili buoni sentimenti con qualche patetismo» (F. Bo, " Il Messaggero", 9.10.1988).
«Leandro Castellani, sorretto da una storia costruita [...] senza molte increspature ma con climi intensi, l\'ha rappresentata evitando a sua volta ogni sentimentalismo insistito, attento alla ricostruzione storica dell\'epoca ma anche dei modi di vita di quei ragazzi all\'inizio abbandonati e sbandati, qui con bozzetti dal vivo, là con pagine meditate e nitide, senza cedere mai ai trionfalismi dei successi né all\'iterazione degli ostacoli: con quella figura al centro permeata in egual misura di umanità e di santità. Ottenendo, sia sul piano del racconto sia su quello delle emozioni, dei risultati molto degni. Favoriti da una fotografia (di Renato Tafuri) tutta colori effusi, con dominanti giallo oro, e da una musica (di Stelvio Cipriani) in equilibrio fine tra il profano ed il sacro. Cui va aggiunta, ma non certo per ultima, l\'interpretazione di Ben Gazzara come Don Bosco: così somigliante, schietta e concreta da suggerire la preghiera» (G.L. Rondi, “Il Tempo”, 1.10.1988).
«Il ritratto cinematografico, nonostante la partecipazione di Ben Gazzara, non lascia dubbi: è agiografico e giulebboso, parrocchiale, anche se aggiornato nel proporre don Bosco nella veste di “santo sociale” e di pedagogista conscio della funzione formativa che ha il gioco nella vita degli adolescenti. Ma il dispensatore di prodigi, il predicatore aduso a terrorizzare fedeli, il sessuofobo, il prete che aveva un senso drammatico del peccato non c’è nel film di Castellani. Al più, vaghe tracce se ne possono rinvenire nella vecchia biografia cinematografica, che Goffredo Alessandrini diresse nel 1935. L’ultima, a colori e predisposta a uso e consumo dei collegi salesiani, è un’occasione perduta per raccontare l’avventurosa storia di un sacerdote tenace e intraprendente, reazionario e oscurantista, intollerante verso le altre fedi religiose, ma anche irresistibile incantatore di folle e di giovinetti» (M. Argentieri, “Cinemasessanta” n. 1/185, gennaio-febbraio 1989).
«Don Bosco non merita,a nostro avviso, l’ostracismo cui l’hanno esposto altri critici. Il racconto si muove spedito, fra il ricordo di quel bambino che arditamente cammina sulla corda, per intrattenere e far sorridere altri piccoli, e la tenacia con cui il sacerdote si oppone all’occhiuta logica dei procacciatori di lavoro, sullo sfondo delle fabbriche-tortura nella nascente industria piemontese. Lo sfondo è piuttosto opaco, i moti repubblicani sono appiattiti come dietro le quinte, la caparbia opposizione degli imprenditori, da un lato, e degli stessi libertari, dall’altro, non ottiene motivazioni soddisfacenti. Ma Don Bosco non è, e non voleva essere, un film storico» (G. Napoli, “Giornale di Sicilia”, 7.10.1988).
«Il cuore del film è in quella ricerca dei giovani ai bordi dei cantieri, in quel riunirli in luoghi di fortuna come una tettoia di una cascina in campagna, in quell’offrire gioco, lavoro e, soprattutto, affetto. Far sentire loro che sono amati: ecco il tasto su cui insiste di continuo Castellani in sequenza mosse e felici. Scorrendo il film abbiamo netta la sensazione di che cosa sia stato l\\\'oratorio [...] una sorta di opificio lieto e sereno. [...] Con la sua macchina mobile, Castellani rende bene quest\\\'atmosfera distesa favorita dalla presenza dell\\\'educatore, sempre al centro e contemporaneamente sempre al margine della scena» (F. Bolzoni, “Avvenire”, 30.9.1988).
Scheda a cura di Damiano Cortese
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